di ANTONIO SALTINI
2ª parte
I granai di Giuseppe
considerazioni altrettanto significative sui rapporti tra l’uomo e le
 risorse alimentari suggerisce la storia di Giuseppe. Sulla migrazione 
dei patriarchi in Egitto, e sul successivo esodo, i cultori di cronache 
geroglifiche non hanno trovato testimonianze egiziane, e ne hanno 
desunto dubbi sulla veridicità dell’intera vicenda. Senza sfidare 
interrogativi tanto ardui, la lettura biblica propone una serie di 
rilievi sull’agricoltura dell’Età del bronzo di cui sarebbe impossibile 
sopravvalutare l’importanza.La vicenda, di drammatica suggestione narrativa, inizia con il sogno 
degli undici covoni dei fratelli che adorano il mannello del futuro 
ministro del faraone, e prosegue con la simulazione dell’assassinio del 
ragazzo impegnato a sorvegliare il gregge: una tipica immagine agricola e
 una caratteristica vicenda pastorale, la prova, ancora, della 
combinazione, nell’economia dei patriarchi, di agricoltura e 
allevamento.
La storia continua, in Egitto, con la narrazione delle 
visioni del faraone, che ha sognato, nella prima visione, le sette 
vacche grasse e le sette macilente, e, nella seconda, le sette spighe 
turgide e le sette rinsecchite: ancora un accostamento tra agricoltura e
 allevamento, tanto più significativo perché immaginato sulle rive del 
Nilo, sulle quali saremmo indotti a ritenere che l’equilibrio fosse 
piuttosto favorevole all’agricoltura che alla pastorizia, che dobbiamo 
presumere regnasse, invece, nelle terre in cui le opere idruliche non 
garantivano la regolarità della sommersione durante l’esondazione. 
Aggiunge un dettaglio rilevante l’annotazione, nel racconto del sogno, 
che le sette spighe rinsecchite erano affette dall’uredine, il termine 
con cui il latino indica la più antica delle malattie fungine del grano,
 la “ruggine”, la fitopatia causata da un fungo microscopico, la 
Puccinia graminis.
Ripetendo la descrizione, il testo latino precisa che le spighe erano
 riarse vento urente: la ruggine è immaginata conseguenza di un vento 
torrido, una spiegazione plausibile per chi non può comprendere le 
ragioni microscopiche della fitopatia. Il piano che, interpretato il 
sogno, il giovane veggente propone al faraone, il ricovero, nei granai 
posti nelle città, di una parte dei raccolti degli anni di abbondanza, 
offre alla riflessione storica una pluralità di temi di rilievo capitale
 per la storia dell’agricoltura. Rivelandoci i vincoli molteplici tra le
 prime società agricole e i cereali, i provvedimenti assunti da Giuseppe
 ci propongono le ragioni per le quali a tutte le longitudini del Globo 
le prime società civili, le società urbane, cioè, disciplinate da 
ordinamenti giuridici, sono state civiltà fondate sull’impiego dei 
cereali, grano e orzo in Asia ed Europa, miglio e riso in Asia, mais in 
America. Nessuno, tra i frutti della terra, può essere prodotto con 
altrettanta regolarità dei cereali, nessuno contiene una combinazione 
altrettanto completa di elementi nutritivi, nessuno si presenta, al 
raccolto, in uno stato altrettanto favorevole alla conservazione, 
disidratato, cioè, così da potersi conservare, se protetto dall’umidità e
 dalle depredazioni di topi e insetti, per lunghi anni. Ma per essere 
conservati i cereali impongono grandi costruzioni, che per il valore del
 prodotto che custodiscono dovranno essere difese da mura e da armati: 
gli imperativi che danno corpo alla città, all’ordinamento civile e a 
quello militare9 .
Il pronipote di Abramo propone di riservare per la futura carestia, 
nei granai statali, un quinto del raccolto di ogni anno di abbondanza: 
una frazione che dimostra come la differenza tra un’annata ricca ed una 
povera sia, all’alba dell’agricoltura organizzata, oltremodo esigua, una
 misura che avalla l’ipotesi degli storici che postulano la rigidità dei
 rapporti, nelle prime società agricole, tra alimenti e popolazione. Se,
 infatti, la sufficienza dell’alimentazione delle annate di carestia può
 essere ovviata con un quinto del raccolto delle annate prospere, 
risulta essere annata di carestia ogni stagione in cui la disponibilità 
si contragga appena della stessa misura.
La frazione indicata dal testo consente di tentare un computo del 
raccolto medio: per la sua esattezza si dovrebbe conoscere, peraltro, se
 dall’entità del raccolto su cui Giuseppe esegue il prelievo sia già 
stata detratta la quantità necessaria alla semina, o se quella quantità 
debba ancora essere sottratta, un elemento che il racconto biblico non 
fornisce. La diversa opzione conduce a differenze significative nella 
stima del raccolto normale, ma l’esiguità della differenza tra 
abbondanza e penuria dimostra che in entrambi i casi la quantità 
disponibile è oltremodo prossima alla quantità impiegata per la semina, 
che il moltiplicatore che converte la semente nel raccolto è, cioè, un 
numero oltremodo piccolo.
Impiegando, per tentare la stima, la quantità di semente unanimemente
 indicata dagli agronomi latini, 5 modii per jugero, corrispondenti a 
132 chilogrammi per ettaro, probabilmente maggiore di quella impiegata 
in Egitto nell’Età del bronzo ma base sicura di calcolo, è evidente che 
l’impiego di un moltiplicatore elevato, quali quelli che gli stessi 
agronomi suggeriscono per un raccolto buono ma non eccezionale, rende il
 prelievo della semente irrilevante: ove, infatti, la semente si 
riproducesse per nove, 132 chilogrammmi si convertirebbero in 1.188, una
 quantità che, diminuita di un quinto, si ridurrebbe a 950 chilogrammi, 
un raccolto che, compresa la semente, avrebbe comunque moltiplicato il 
seme per sette volte, una produzione che non può essere considerata di 
carestia. Per riparare alla mancanza di un quinto sarebbe sufficiente un
 raccolto che moltiplicasse il seme per undici, poco più della media. Ma
 fluttuazioni da sette a undici “sementi” costituiscono oscillazioni 
normali al mutare delle costanti meteorologiche, renderebbero eccessiva 
la metafora delle vacche grasse e delle vacche macilente.
Supponiamo invece che il raccolto moltiplichi la semente per sole tre
 volte, che 132 chilogrammi si convertano in 396: il prelievo della 
semente sarà, in proporzione, tale da rendere la mancanza di un quinto 
della produzione raccolto da carestia. Se dal raccolto disponibile, 264 
chilogrammi, si sottragga, infatti, un quinto, 53 chilogrammi, il 
risultato, 211, rivela tra le due disponibiltà una differenza ingente. 
La differenza è ancora maggiore se, invece che sulla disponibilità, il 
computo si esegua sul raccolto complessivo, comprendente la semente: la 
disponibiltà per il consumo si ridurrà, infatti, a 184 chilogrammi. Nel 
secondo caso, il più drammatico, per riparare alla carenza occorrerebbe 
realizzare, l’anno successivo, un raccolto che si avvicinerà al 
quadruplo della semente: ma se fluttuazioni delle rese da 7 a 9 o da 9 a
 11 possono essere reputate ordinarie, variazioni corrispondenti ad una 
caduta da 3 a 2 o ad un aumento da 3 a 4, con una differenza complessiva
 del cento per cento, sono, palesemente, eccezionali, e giustificano la 
similitudine biblica10.
Per ricoverare il prodotto di sette anni di abbondanza Giuseppe deve,
 verosimilmente, ampliare i granai del faraone, probabilmente annessi ai
 templi, nei quali potrebbe avere ordinato di riporre le riserve 
mantenendo separate le produzioni di annate diverse, o avere fatto 
riporre le quote di accantonamento mescolandole. Siccome la prima 
ipotesi è oltremodo problematica, per l’entità degli spazi che 
presuppone, deve reputarsi verosimile che negli anni di carestia il 
ministro del faraone abbia distribuito frumento che, dopo l’ultima 
stagione di abbondanza, sarebbe stato conservato per un tempo variabile 
da un anno a quattordici. Il clima dell’Egitto è tanto asciutto, 
peraltro, da garantire la migliore conservazione per il periodo più 
lungo che si possa immaginare, soprattuto ove al favore del clima si 
supponga di sommare i benefici delle periodiche ventilazioni, che 
possiamo presumere Giuseppe abbia disposto, e contando, contro i topi, 
sulla solerzia dei gatti sacri, che non dovettero mancare di proteggere 
il cibo dei propri devoti.
Anche supponendo ogni cura per le scorte riposte nei magazzini, la 
lunga conservazione è conferma eloquente della straordinaria 
serbevolezza dei cereali, superiore a quella di tutte le derrate 
alimentari, la ragione eminente che consente ai popoli del grano e 
dell’orzo, in Mesopotamia e in Egitto, il balzo verso l’organizzazione 
di società ordinate civilmente. Data la concentrazione dei principi 
nutritivi, ad un essere umano è sufficiente, per vivere un anno, una 
quantità di grano o riso che, secondo l’abbondanza di alimenti 
integrativi, può misurarsi tra i 150 ed i 300 chilogrammi, un peso che 
porta, sulla soma, un mulo o un cammello: la storia di Giuseppe narra 
che ognuno dei fratelli porta un solo sacco, piccola scorta per una 
grande famiglia di mogli, figli e schiavi che, possedendo grandi greggi 
integra, con il frumento egiziano, una dieta basata sulla carne e sul 
latte. Quella piccola scorta dura, comunque, un anno, siccome già al 
secondo anno di carestia i fratelli sono costretti a fare ritorno in 
Egitto per nuovi acquisti: la prova che il grano, integrazione di 
un’alimentazione tipicamente pastorale, viene consumato dalle famiglie 
dei patriarchi in misura assai modesta: una piccola quantità dura assai 
lungamente.
Se all’alimentazione di una persona sono sufficienti 150-300 
chilogrammi, lo spazio necessario, in un magazzino, a riporre la stessa 
quantità equivale a 200-350 decalitri: seppure la popolazione 
dell’Egitto non potesse comprendere, nell’Età del bronzo, più di un 
milione di abitanti,
 per riporre le scorte necessarie alla lunga carestia sarebbero stati 
necessari cento templi delle dimensioni testimoniate dai monumenti 
rimasti: ragione per cui all’attuazione del piano annonario è necessario
 sovrintenda un uomo dalle singolari doti organizzative, quell’uomo che 
il faraone identifica in Giuseppe, cui consegna l’anello del comando.
A conclusione dell’esilio egiziano, anche il racconto delle dieci 
piaghe è ricco di annotazioni significative per la storia delle 
relazioni tra l’uomo e le specie domestiche, vegetali e animali. La 
settima è la grande grandine, che scende mista a fuoco. Levando le 
braccia al cielo Mosè placa gli elementi di cui l’Onnipotente gli ha 
affidato il dominio. Il narratore dedica la propria attenzione, allora, 
alla considerazione agronomica dei danni: “Il lino e l’orzo furono 
danneggiati – leggiamo nel IX libro dell’Esodo – siccome l’orzo era 
verdeggiante e il lino dischiudeva i follicoli. Ma il frumento e il 
farro non furono colpiti, siccome erano tardivi.” È annotazione che 
propone domande molteplici, a nessuna delle quali il testo consente di 
dare risposta. Al di là, infatti, del fondamento del racconto, che 
nessun riscontro pare avere nelle cronache delle imprese dei monarchi 
dell’Egitto, che nel secondo millennio hanno varcato le soglie della 
registrazione storica, ma supponendo la familiarità dello scrittore 
biblico con le pratiche agrarie dell’Egitto, di difficile contestazione,
 il rilievo della precocità dell’orzo rispetto al frumento e al farro 
propone il quesito della ragione della differenziazione delle due 
semine, che saremmo propensi immaginare si compissero 
contemporaneamente, al momento del ritiro delle acque dai terreni 
raggiunti mediante chiuse e canali. Possiamo immaginare una spiegazione 
solo supponendo che si seminassero orzo e lino sui terreni da cui il 
fiume si ritirava più precocemente, frumento e farro nei campi a quota 
idrometrica inferiore: una successione che confermerebbe la singolare 
maestria nella combinazione dell’acqua con le esigenze specifiche delle 
colture.
I doni della Terra Promessa
Con la legge morale, sul Sinai Jahvè detta al suo popolo norme 
rigorose anche per lo sfruttamento della terra che ha promesso: “Quando 
sarete entrati nella terra che vi darò – dispone al capitolo XXV del 
Levitico – celebrerai il sabato per il Signore. Seminerai per sei anni 
il tuo campo, e per sei anni poterai la tua vigna e raccoglierai il suo 
frutto; il settimo anno sarà il sabato della terra, il riposo del 
Signore; non seminerai il campo, non poterai la vigna. Ciò che il 
terreno produrrà da sé non lo mieterai, e non raccoglierai come 
vendemmia le uve della tua primizia: è infatti l’anno del riposo della 
terra, ma serviranno come cibo a te e al tuo servo, alla serva e al tuo 
salariato e al forestiero che è di passaggio presso di te, ai tuoi 
giumenti e greggi, tutte le cose che nascono e offrono il cibo.” Il 
passo propone una molteplicità di interrogativi: il maggese settennale 
adempiva a funzioni agronomiche? Il coltivatore israelita lo alternava, 
sui suoi campi, o interrompeva la coltivazione, per un anno, su tutta la
 sua terra? Gli ebrei osservarono realmente, nei secoli, la 
prescrizione? Sono interrogativi cui è ugualmente difficile dare 
risposta.
 Pare, peraltro, più significativo affrontare un ordine diverso di 
riflessioni: chi visiti oggi la Palestina, soprattutto se provenga da 
una regione dall’agricoltura fiorente, stenta a capire come potesse 
costituire dono di Dio una piccola regione tanto arida e pietrosa. 
Eppure dirigendo il suo popolo verso la nuova patria l’Onnipotente 
ripete a Mosè la promessa che la terra in cui stabilirà i figli di 
Abramo sarà, come leggiamo all’ottavo versetto del terzo capitolo 
dell’Esodo, “una terra in cui scorre latte e miele” 15.
Confermando che l’Onnipotente mantiene la promessa, i versi della 
Bibbia descrivono una terra cui non manca nulla per essere terra 
desiderabile, e la considerazione geografica e quella climatologica 
attestano che quei caratteri non sono frutto di promessa fallace, sono i
 caratteri che, cuore della Mezzaluna fertile, la Palestina possiede 
ancora nel secondo millennio avanti Cristo, quella ricchezza di risorse 
naturali che ne fanno culla naturale di agricoltura e allevamento. Tra 
le immagini più eloquenti della terra della prossima conquista si impone
 quella che riferisce l’VIII capitolo del Deuteronomio: “Il Signore Dio 
tuo ti introdurrà in una terra buona, terra di fiumi di acque e di 
fonti, nei cui campi e nei cui monti erompono gli abissi dei fiumi, 
terra di frumento e di orzo, terra di vigne, in cui nascono il fico, il 
melograno e gli ulivi, terra di olio e di miele, dove senza alcuna 
penuria mangerai il tuo pane, e godrai di abbondanza di ogni cosa; le 
cui pietre sono ferro…”
Rappresenta nota paradossale la promessa, da parte dell’Onnipotente, 
di minerale ferroso, per l’anima dell’antichità mediterranea simbolo 
della guerra, una promessa proposta, peraltro, prima ancora che l’Età 
del ferro abbia inizio. Ma gli attributi diversi della terra di cui 
Javhè assicura il dominio agli ebrei sono tutti attributi verosimili: la
 Palestina del secondo millennio è ancora terra di boschi, che pure non 
sono foreste impenetrabili, di corsi d’acqua copiosi, che non 
ristagnano, tuttavia, in grandi paludi, è terra in cui l’olivo, il fico e
 il mandorlo crescono spontanei e possono essere agevolmente propagati, è
 terra i cui ricchi pascoli possono essere agevolmente solcati con 
l’aratro, e coltivati per il ciclo di sei anni durante il quale si 
protrarrà, secondo il precetto divino, lo sfruttamento del suolo prima 
di essere restituito al riposo sabbatico.
A chi immagini la Palestina come dovette accogliere le schiere di Josuè, con le pendici ricoperte di boschi, le valli dallo spesso manto d’erba, la Terra Promessa si rivela degna 
di costituire dono divino: per il pastore e per l’agricoltore la sua 
ricchezza si estrinseca, tuttavia, se il suolo è benedetto dalla 
pioggia, che nella regione è irregolare, e che, promette Jahvè, irrorerà
 i campi solo se chi li coltiva meriterà la sua benedizione. Il 
contadino della Palestina potrà attendere la pioggia, e con la pioggia 
frumento e foraggio, solo se la sua pietà gliene varrà il merito: la 
subordinazione dei frutti della terra alla fedeltà alla legge è sancita 
da un passo eloquente del X capitolo del Deuteronomio:
“Ama dunque il Signore Dio tuo, e osserva in ogni tempo i suoi 
precetti e i suoi riti, giudizi e disposizioni… La terra, infatti, in 
cui entrerai per possederla, non è come la terra d’Egitto, da cui sei 
uscito, dove, gettato il seme, come negli orti, vengono condotte le 
acque irrigue; ma è montuosa e campestre, e attende le pioggie dal 
cielo, sulla quale il Signore Dio tuo sempre fissò lo sguardo, e i suoi 
occhi sono su di lei dal principio dell’anno fino alla sua fine.
Se dunque obbedirete ai miei mandati, che oggi vi insegno, che amiate
 il vostro Dio, e lo serviate con tutto il vostro cuore, e tutta la 
vostra anima, darà alla terra pioggia tanto primaverile che tardiva, 
perché possiate raccogliere il frumento, il vino e l’olio, e il fieno 
dai campi per sfamare il bestiame, e possiate mangiare a sazietà. Ma 
guardate che il vostro cuore non si inganni, e vi allontaniate dal 
Signore, e serviate dei stranieri, e li adoriate, che irato Iddio non 
chiuda il cielo, e le piogge non discendano, e la terra non dia più il 
suo germe, e vi estinguiate rapidamente sulla terra generosa che il 
Signore sta per darvi.” Il confronto tra l’agricoltura dell’Egitto, dove
 i cereali si coltivano “come negli orti”, dirigendovi le acque irrigue,
 e quella delle colline della Palestina, dove occorre la pioggia 
primaverile per il rigoglio dei cereali, quella tardiva per consentire 
il pascolo estivo, non potrebbe essere più eloquente: la prima 
comparazione tra sistemi agrari modellati sulle peculiarità di regioni 
diverse della storia della letteratura di tutti i tempi .
Il salmo della generosità del Creatore
Tra le cento fonti di ispirazione, con la misericordia e la severità 
divina, con l’angoscia del peccato e la letizia del perdono divino, con 
l’amore per i giusti e l’odio per gli ingiusti, anche i salmi cantano le
 meraviglie della natura, e tra le meraviglie della natura la più 
straordinaria è il ciclo della vita che si compie nei campi, nei 
pascoli, nelle selve. Ne offre la rappresentazione più grandiosa il 
salmo CIII.
“Signore, Dio mio, come risplende la tua magnificenza! … Fissasti un termine che non potessero superare,né torneranno mai più a ricoprire la terra.
Tu fai sgorgare le fonti dalle convalli;
le acque scorreranno in mezzo ai monti.
Berranno tutte le bestie del campo,
estingueranno la sete gli onagri.
Sul loro specchio abiteranno gli uccelli del cielo,
lanceranno richiami dal rifugio tra le fronde.
Scorrendo i monti dal loro vertice,
dell’acqua del tuo scrigno si sazierà la terra,
producendo il fieno per il bestiame,
e l’erba per la servitù dell’uomo,
affinché tragga dalla terra il suo cibo,
e il vino rallegri il cuore dell’uomo;
splenda di gioia il suo volto nell’olio,
e il pane restituisca vigore al suo cuore.
… Ha fatto la luna per segnare i tempi;
il sole ha conosciuto il suo tramonto.
Dispieghi le tenebre e scende la notte;
nel suo corso si aggirano le fiere della selva:
i cuccioli del leone ruggiscono impazienti di preda
e chiedono a Dio il cibo necessario.
Sorge il sole e si ritirano,
raccogliendosi nei loro covili.
Esce l’uomo per il suo lavoro,
e per le sue opere fino alla sera.
Quale meraviglia le tuo opere, Signore!”
Nel contesto dei salmi, è insieme una delle espressioni più alte 
della storia della poesia e una composizione di ineguagliabile 
suggestione descrittiva. È impossibile immaginare quadro più efficace 
dello scenario in cui vivono le prime società civili: uno scenario che 
è, insieme, agricolo, pastorale e silvestre. Per saziare il corpo col 
pane, rallegrare lo spirito col vino e ungere il capo con l’olio, l’uomo
 è già aratore, viticoltore e olivicoltore, e, siccome, nel salmo, 
domina una numerosa servitù di bestiame, è altresì allevatore. Ma campi e vigne si alternano, in un paesaggio ancora primitivo, 
con i boschi e le praterie, dove vivono ancora i capostipiti degli 
animali che, nella Mezzaluna, sono stati addomesticati: gli onagri sono i
 parenti selvatici dell’asino. E tra onagri, antilopi e capre selvatiche
 regnano i grandi predatori, primo tra tutti il leone, poi l’orso, che 
il Libro di Samuele ci informa costituire nemico abituale dei pastori 
ebrei, tanto che proprio un orso avrebbe sperimentato la precisione 
della fionda con cui Davide, ragazzetto pastore, abbatterà, senza 
titubanza, il terrore del suo popolo, il gigante Goliah.
La vigna di Isaia
Oltre ad essere terra di campi di grano e di pascoli, la Terra 
Promessa è terra di vigne. Come i giardini di tutte le terre che si 
protendono sul Mediterraneo, la vigna degli Ebrei è l’area prediletta 
tra le proprietà del suo signore, un terreno cintato contro gli animali 
ed i ladri campestri, dotato di un piccolo edificio che ripara il 
palmento ed i dolii. La vigna costituisce, quindi, un investimento 
ingente, il suo possesso è espressione di ricchezza, prova di prestigio.
 Offre la dimostrazione più eloquente del valore, economico e simbolico,
 della vigna per l’anima ebraica, nel XXI capitolo del Libro dei re, la 
storia di Naboth, proprietario di un vigneto adiacente il palazzo reale,
 che il re Achab pagherebbe qualsiasi prezzo per ampliare il proprio 
giardino, ma che Naboth rifiuta di cedere, suscitando l’odio della 
regina, la bella e crudele Jezabel, che decide di farlo accusare 
ingiustamente e uccidere, per donare allo sposo la vigna bramata.
Propone l’espressione più eloquente, invece, dei costi da sostenere 
per l’impianto di un vigneto, nel quinto capitolo di Isaia, la metafora 
della vigna che non dà il frutto atteso dal padrone, la profezia che si 
tradurrà in una delle parabole più drammatiche dei Vangeli.
“Il mio diletto aveva una vignain un colle fertile.
La circondò di siepi, ne tolse le pietre.
La piantò di vitigni scelti,
edificò al suo centro una torre,
vi costruì un palmento.
Attese che offrisse le sue uve.”
Prova delle fatiche e dei costi di impianto, quindi dell’entità dell’investimento, la profezia può essere assunta a prova della connessione tra l’impianto di vigneti e oliveti e l’impiego della pietra, che si impone precocemente, tra i popoli mediterranei, come materiale edilizio. La connessione tra arboricoltura e impiego della pietra offrirà nell’Ottocento a Victor Amadeus Hehn, glottologo lettone di lingua tedesca, la chiave della prima teoria sui rapporti tra le piante e la civiltà. Se appare ovvio, infatti, che i popoli che coltivano vite e olivo debbano essere popoli sedentari, l’escavazione delle fosse necessarie all’impianto delle due specie in ambiente siccitoso assicura la disponibilità di pietrame che, dopo l’estrazione, si offre naturalmente all’impiego edilizio: un’ipotesi suggestiva da cui Hehn muove, peraltro, per fantasiose elucubrazione tra antropologia positivistica e dottrine razzistiche
Ma con il vigneto recintato, in cui hanno dimora anche gli olivi e i 
melograni, abbiamo disposto l’ultima tessera nel mosaico di campi arati,
 pascoli e foreste che compongono lo scenario della Palestina al tempo 
dei Re, scenario che si riproporrà, per tre millenni, su tutto il 
perimetro mediterraneo, di cui esamineranno le regole di sfruttamento 
gli scrittori che rifletteranno sull’impiego delle risorse naturali fino
 all’alba dell’Età moderna. Sarà al procedere della civiltà della 
scienza che l’uomo occidentale plasmerà scenari nuovi, in cui la pratica
 agronomica non attuerà più semplici interferenze con gli elementi 
naturali, ma sostituirà gli elementi naturali con entità biologiche 
rimodellate grazie a conoscenze chimiche, fisiologiche e genetiche. 
Creature della scienza più che della natura, neppure le piante e gli 
animali prodotti dall’ingegneria genetica potranno moltiplicarsi e 
produrre il proprio frutto senza la pioggia primaverile e tardiva che 
l’uomo deve ancora attendere dall’Onnipotente.
1-parte
Antonio Saltini
Già docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e Vita.
E' autore della Storia delle Scienze Agrarie, l’ultima edizione dell’opera, in sette volumi pubblicati tra il 2010 e il 2013, è ora proposta in lingua inglese "Agrarian Sciences in the West". Tale opera, per la ricchezza dei contenuti e dell'iconografia, costituisce un autentico unicum nel panorama editoriale mondiale, prestandosi in modo egregio a divulgare in tutto il mondo la storia del pensiero agronomico occidentale
1-parte
Antonio Saltini
Già docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e Vita.
E' autore della Storia delle Scienze Agrarie, l’ultima edizione dell’opera, in sette volumi pubblicati tra il 2010 e il 2013, è ora proposta in lingua inglese "Agrarian Sciences in the West". Tale opera, per la ricchezza dei contenuti e dell'iconografia, costituisce un autentico unicum nel panorama editoriale mondiale, prestandosi in modo egregio a divulgare in tutto il mondo la storia del pensiero agronomico occidentale
 


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