giovedì 12 luglio 2018

STORIA DELLA FEDERCONSORZI - META' TRAGEDIA META' FARSA IL FINALE TEATRALE


di ANTONIO SALTINI

 11ª parte

Il palazzo ex Federconsorzi di piazza Indipendenza a Roma
La creazione dell’Aima e il varo delle regioni escludono la Federconsorzi dai rapporti tradizionali con lo Stato. Solo tardivamente Mizzi cerca di rompere l’accerchiamento che lo stringe. La sua morte lascia il compito ai successori, ma Lobianco pretende sull’organismo l’antica insindacabile signoria, e ne condanna la sorte.

Ferdinando Truzzi ricorda con arguzia la trattativa che fu incaricato da Moro di condurre con il Partito socialista per inserire, nei programmi di quattro successivi governi, il paragrafo dedicato alla Federconsorzi. Dopo le polemiche roventi, il partito di Nenni non poteva esimersi, assumendo responsabilità di governo, dal manifestare la determinazione a ridimensionare l’arbitrio con cui pareva essere governata la Federconsorzi, pozzo inesauribile di denaro statale per la Democrazia cristiana, esonerata persino dall’incomodo di attingere quel denaro in base a conti formalmente regolari.

Il rifiuto del controllo

Per continuare a godere dell’esclusiva delle gestioni pubbliche, secondo le intenzioni socialiste la Federazione avrebbe dovuto sottostare a più rigorosi controlli ministeriali, e i consorzi avrebbero dovuto aprire i libri sociali, ai quali Bonomi aveva prescritto fosse impedito l’accesso agli aspiranti privi della tessera della Coldiretti, o in subordine, della Confagricoltura. Rappresentava il partito socialista nella trattativa Manlio Rossi Doria, lo studioso i cui saggi avevano alimentato la polemica sui rendiconti degli ammassi. Fungendo da ponte tra l’economista socialista e il direttore generale della Federconsorzi, Truzzi ricorda di avere stilato testi evasivi, in cui i socialisti accettavano di contrarre le pretese, che Mizzi approvava dopo resistenze tenaci, sicuro della connivenza democristiana perché nessun impegno dovesse, poi, essere onorato.
Come vuole il proverbio, il nodo venne, alla fine al pettine: al varo, nel 1966, del terzo governo Moro, Nenni proclamò che non avrebbe più accettato inganni. Il ministro dell’agricoltura uscente, Ferrari Aggradi, tentò l’estrema mediazione proponendo la nomina di un commissario che sostituisse il presidente e provvedesse a ristrutturare l’organismo secondo le direttive governative. Mizzi si oppose con tutte le forze all’insediamento di un responsabile singolo o collettivo su uno scranno che sovrastasse il suo. Verificando che la Federconsorzi non accettava il controllo governativo, Nenni pretese la creazione di un ente alternativo, dipendente dal Ministero dell’agricoltura, cui sarebbero stati affidati gli interventi governativi derivanti dall’applicazione dei primi regolamenti comunitari, in corso di discussione, allora, a Bruxelles. Nasceva così nel 1966, l’Aima, l’Azienda nazionale per gli interventi sul mercato agricolo. Tra le mura marmoree della sede dell’organismo si sorrise annotando, candidamente, che nulla sarebbe mutato, siccome il nuovo organismo avrebbe dovuto riporre i cereali ammassati in magazzini di cui non disponeva, che sarebbe stato costretto ad affittare dai consorzi agrari. La retribuzione di oneri di magazzinaggio non eleva, però, chi li percepisca ad un rango diverso da quello di magazziniere. La Federconsorzi era stata la centrale finanziaria delle operazioni di conservazione e trasporto: in sostituzione dei compiti di alchimia bancaria le nuove convenzioni le avrebbero affidato mere funzioni di custodia. Sarebbe stata, peraltro, custode di cereali e olio: le operazioni più lucrose, la distillazione delle eccedenze enologiche e lo stoccaggio della carne congelata, sarebbero state spartite tra nuovi operatori, che l’avrebbero sostituita nel ruolo di beneficiaria degli utili della gestione delle derrate statali.

Regioni e splendori cooperativi

Tra le condizioni alle quali il Partito socialista aveva accettato di condividere il governo del Paese v’era l’"attuazione della Costituzione", il varo, cioè, delle amministrazioni regionali, pretese con veemenza dal Partito comunista, nelle amministrazioni locali ancora partner privilegiato del Psi. La convocazione delle prime elezioni nelle regioni a statuto ordinario prese corpo da una singolare conversione dei fronti politici: originariamente regionalista, il partito di Sturzo era stato spinto alla cautela da chi, come Einaudi, prevedeva che i consigli regionali avrebbero moltiplicato la burocrazia, accresciuto in modo incontrollabile spese e sprechi pubblici. Tradizionalmente favorevoli ad uno stato accentrato, il modello di stato borghese contro cui esercitare l’arte della rivoluzione, i partiti marxisti erano stati convertiti al regionalismo dai dati delle elezioni locali, che dimostravano che Pci e Psi avrebbero governato con proprie giunte l’intera fascia di regioni evolute e prospere che interseca la Penisola sui due versanti degli Appennini: Liguria, Emilia, Marche, Umbria e Toscana. Le prime elezioni regionali si svolgevano il 7 giugno 1970: una legislatura sarebbe stata sufficiente ad avverare le previsioni di entrambe le parti: le sinistra conquistavano l’Italia "di mezzo", e, salvo singolari eccezioni, le nuove amministrazioni non tardavano a dimostrarsi centri di velleità, di inefficienza e di spreco. Il varo dei nuovi organismi avrebbe inferto un nuovo, duro colpo all’apparato commerciale e finanziario della Federconsorzi: all’unisono, i nuovi assessori avrebbero scoperto i benefici che le agricolture loro affidate, avrebbero ritratto finanziando organismi nuovi piuttosto che sostenendo gli obsoleti consorzi agrari. Quando gli storici dell’economia vorranno esaminare le vicende del debito pubblico italiano non potranno prescindere dal ruolo svolto, nella sua diluviale dilatazione, dalla spesa regionale: tra le voci dei bilanci regionali un esame speciale dovrà essere dedicato al sostegno della cooperazione, un impegno in cui si sono prodigati, in irrefrenabile gara, assessori di tutte le militanze politiche. Privato del controllo finanziario delle operazioni di conservazione delle scorte, escluso dal supporto pubblico per l’ampliamento della propria rete di magazzini, il contesto dei consorzi mostrava i primi segni di sofferenza: se gli organismi operanti in province dall’agricoltura più ricca, e guidati con sagacia da autentici manager, riuscivano a conservare le posizioni commerciali, tra quelli operanti in aree più povere, o diretti con minore perizia, iniziava la successione di sofferenze che avrebbe portato alla fusione dei più deboli con altri meno deboli, in una contrazione della maglia consortile che fino al collasso finale non avrebbe conosciuto interruzioni.

Due strateghi nella pania

L’esame degli ultimi due decenni di vita della Federconsorzi ripropone il quesito la cui mancata soluzione rende difficilmente comprensibile l’intera vicenda: il quesito della consapevolezza, da parte dei diarchi dell’apparato consortile, della serietà dell’accerchiamento. Sempre più gravemente menomato dalla malattia che lo minava, non è improbabile che dall’alba degli anni ’70 Bonomi non fosse più in grado di preoccuparsi delle sorti della Federconsorzi, le ultime forze impegnate da un proposito ossessivo: scongiurare che la Coldiretti pretendesse di sostituirlo con chi ne conducesse la rotta con vigore rinnovato. E’ probabile, invece, che del pericolo Leonida Mizzi fosse consapevole: se sono veritiere le testimonianze del suo disprezzo per gli avversari pare verosimile fosse propenso, tuttavia, a sottovalutare il pericolo che pure percepiva. Comunque lo avvertisse, è palese che, impedendogli la ricerca di tutori diversi, il patto che lo vincolava a Bonomi lo costringeva ad assistere all’inerzia della controparte senza possibilità diverse dall’invio di segnali di allarme al vertice democristiano, che poteva sperare che dell’eredità di Bonomi avrebbe tutelato l’integrità.
Seppure tardivamente, la consapevolezza di Mizzi si manifestava, con un disperato tentativo di rompere l’accerchiamento, in coincidenza al varo dei decreti delegati che definivano la competenza reciproca dello Stato e delle amministrazioni regionali in materia agricola, varati, dopo dispute accese, nell’estate del 1977. A quello che aveva diritto di reputare tradimento democristiano il ragioniere piacentino tentava di opporre una contromossa palesemente avventata: l’apertura di una trattativa diretta con l’avversario di sempre, il Partito comunista. L’interlocutore prescelto era l’assessore all’agricoltura dell’Emilia Romagna, Giorgio Ceredi, un devoto dell’ortodossia leninista che dalle prime scelte aveva dimostrato di essere in grado di opporre ai consorzi agrari, ove non si fossero assoggettati ai suoi poteri, la più rigida prassi punitiva. Alla stesura di un capitolato di tregua tra i due avversari reagivano, però, con rabbioso accanimento, le cooperative cattoliche, che dall’esclusione dei consorzi emiliani dai beneficio pubblici si ripromettevano di assurgere a uniche destinatarie "bianche" delle beneficenze "rosse".
L’uomo che aveva governato, per trent’anni, attraverso fili riservati, la vita economica delle campagne, non avrebbe retto alla rissosa polemica che lo investiva in prima persona: secondo testimoni vicini al vecchio autarca, Mizzi sarebbe morto di infarto, il 9 dicembre 1977, dopo una drammatica telefonata al presidente della Confcooperative, Enzo Badioli, l’alfiere del solidarismo cattolico di cui gli elenchi di Gelli proclameranno la militanza massonica.

Cambia lo scenario professionale

Come il Partito socialista ha preteso, accedendo al Governo, la chiusura del contenzioso politico sulla Federconsorzi, così la ha rivendicata, per sostenere la maggioranza della "non sfiducia", il Partito comunista, che, verificato il fallimento dell’iniziativa del proprio gastaldo emiliano rilancia il gioco in Parlamento. Alla Commissione agricoltura di Palazzo Madama si sovrappongono, così, tre progetti di riforma, che alimentano un confronto che procede ondeggiando fino a quando, dopo amletici affanni, Enrico Berlinguer converte la "non fiducia" in genuina sfiducia, e il castello di sabbia si sgretola. Voci informate diranno che ha indirizzato la trattativa al naufragio l’attiva avversione degli uomini della Coldiretti, a nome della quale Truzzi ha condotto personalmente, in Senato, le trattative con Emanuele Macaluso.
Muta radicalmente, intanto, lo scenario agroprofessionale. Ridotto a larva del tribuno degli anni roventi, Bonomi si è circondato di boiardi tra i quali sa alimentare gelosie e invidie che rendono sicuro il trono del monarca debilitato. Forza il gioco di corte, con una serie di mosse che isolano il vecchio patriarca, il giovane direttore della Federazione di Napoli, Arcangelo Lobianco, che riesce a farsi nominare prima presidente della stessa Federazione, quindi vicepresidente confederale, la carica cui sa assicurare, a differenza dei concorrenti, tutte le deleghe del potere presidenziale, di cui conquista titoli e diadema nel corso della venticinquesima assemblea generale, nell’ottobre del 1980. Alla testa dei rurali italici la Coldiretti non è, però, più sola: la lunga agonia politica di Bonomi ha consentito l’emancipazione della Confagricoltura, nelle cui vene rinsecchite il marchese Diana ha infuso nuova linfa e nuove ambizioni, ha favorito l’aggregazione dei piccoli sindacati rurali di matrice socialcomunista, che nel dicembre del ’77 hanno dato vita alla Confcoltivatori, la terza organizzazione agricola nazionale, che il primo capitano, il socialista Giuseppe Avolio, non nasconde l’ambizione di trasformare, per influenza, nella seconda.
L’instabilità dello scacchiere professionale si ripercuote nelle scelte al vertice della Federconsorzi, dove la scomparsa di Mizzi impone come unico candidato alla successione il capocontabile, Enrico Bassi, il solo, tra i collaboratori, in grado, a metà dicembre, di chiudere il bilancio distinguendo, nella matassa dei conti correnti della direzione, quelli ufficiali da quelli usati da Mizzi per le incombenze politiche. Consacrando, nel disinteresse per qualsiasi aspetto manageriale, la scelta del funzionario in grado di assicurare la continuità alle erogazioni a proprio favore, la Coldiretti pone la prima pregiudiziale alla sopravvivenza del colosso agrocommerciale.
Se, peraltro, la designazione di Bassi, ragioniere e piacentino, al posto del ragionier Mizzi, è scelta che sottoscrive, formalmente, ancora Bonomi, la nomina del nuovo presidente dell’organismo è la prima opzione significativa del successore. Nel 1981 siede sul prestigioso scranno Mario Vetrone, fondatore della Coldiretti in Campania, succeduto nel 1976 a Aldo Ramadoro, incarnazione del presidente ombra preteso da Bonomi e da Mizzi. All’insediamento Vetrone ha scalpitato per ottenere potestà maggiori, che Mizzi gli ha negato elargendogli, come munifica compensazione, onorevoli prebende. Ma il parlamentare campano scompare improvvisamente provocando l’alterazione di equilibri di difficilissima ricomposizione.
Costretto dall’impellenza, Lobianco destina alla carica Ferdinando Truzzi. Ragioni della scelta, un debito e due timori: un’elementare necessità tattica suggerisce, infatti, la tacitazione del più autorevole dei concorrenti alla successione di Bonomi, le cui pretese vengono appagate, eliminando, insieme, un concorrente temibile alla prestigiosa poltrona, Lorenzo Natali. Figlio emblematico di un sindacalismo cattolico e di una cultura meridionale che guardano agli affari economici mescolando diffidenza e sufficienza, cento elementi dimostrano che dall’assunzione della responsabilità Lobianco non sarà mai sfiorato dal dubbio che l’interesse dell’agricoltura imporrebbe di scegliere, per la conduzione della Federconsorzi, uomini di lungimiranza e prestigio: si compiacerà, invece, di considerare quel ruolo come la gastaldia demandato di assolvere alle necessità di cassa della più nobile, luminosa e appagante funzione politica e sindacale. Favorirà le scelte della Coldiretti la Confagricoltura, con Giandomenico Serra più distaccata, con Stefano Wallner più velleitaria, con Giuseppe Gioia più connivente, sempre acquiescente, comunque, non senza tornaconto, alle pretese dell’organizzazione preminente.
La concezione di Lobianco dei rapporti tra i due organismi, e tra i rispettivi responsabili, conosce la propria espressione più solenne in occasione della fastosa celebrazione del novantesimo anniversario della Federconsorzi, che Truzzi, non senza presunzione, organizza al Teatro municipale di Piacenza, la culla dell’organizzazione, il 16 ottobre 1992. I trascorsi politici del senatore mantovano non sono la biografia di un paladino della Federconsorzi, che ha difeso pubblicamente, in memorabili confronti televisivi, per dovere di schieramento: privatamente ha sempre proclamato che la Federconsorzi ha costruito il proprio patrimonio dissanguando i consorzi, una circostanza che si è verificata con precisione nella sua terra natale, quella provincia di Mantova il cui consorzio, in un momento di difficoltà, è stato sostenuto da Mizzi in cambio della proprietà dell’intero patrimonio immobiliare. Conoscitori dei rancori del ragioniere piacentino dicono che l’espropriazione sarebbe stata compiuta al fine precipuo di arrecare un torto al mantovano Truzzi. Assunta la responsabilità dell’organismo il vecchio senatore dimostra la lucida percezione, peraltro, dell’urgenza di ritrarlo dalle secche economiche, e, prima ancora, politiche, delle quali è prigioniero. Concepisce, così, il disegno di offrire la partecipazione al suo governo alle forze tradizionalmente ostili, la cooperazione e l’associazionismo agricolo socialcomunista, sperando di ottenerne, quale contropartita, l’avallo al reinserimento dell’organizzazione nel novero degli enti beneficiati dalle sovvenzioni senza le quali nessun organismo agricolo pare poter sopravvivere. E’ consapevole che l’età d’oro della "solidarietà" tra Dc e Pci, quando egli stesso avrebbe potuto favorire il compromesso che avrebbe, invece, ostacolasto, sono lontani, ha compreso però che la sopravvivenza dell’ente è legata a un armistizio con gli avversari, e di quell’armistizio tenta di avanzare la proposta.

Coup de théâtre

Dissolve il castello di carte, al Municipale di Piacenza, Arcangelo Lobianco, che con un intervento efficace come sa essere efficace, sul palcoscenico, un figlio adottivo della patria della sceneggiata, dileggia Truzzi e quanti hanno partecipato al suo idillio, e proclama la legge imperitura della sudditanza della Federconsorzi alla Coldiretti, del suo presidente allo stratega del ruralismo cattolico.
Il saggio teatrale del presidente della Coldiretti non avrebbe potuto essere più convincente: mentre il pubblico incredulo lascia palchi e platea, Truzzi soffoca l’orgoglio che gli imporrebbe di rimettere il mandato. A trattenerlo è un appannaggio di centoquaranta milioni, con tutti i benefici connessi: avesse ascoltato il genuino istinto contadino, avrebbe unito al progetto dissolto l’ultima denuncia del collasso che Lobianco rende inevitabile. Testimonianze attendibili riferiscono che l’indomani voci autorevoli avrebbero suggerito a Lobianco di sostituire al presidente di cui aveva calpestato il prestigio un uomo capace di tentare, su strade diverse, il rilancio. Astri di prima grandezza sarebbero stati pronti, si sussurrò, ad accettare l’invito, che non sarebbe mai stato rivolto. La disponibilità di personaggi non assetati di titoli offre l’ultima prova della dovizia dell’eredità di Mizzi, male conformata alle esigenze nuove del quadro agricolo, tanto sostanziosa da invogliare uomini autorevoli a farsene curatori, per rimodellarla ai bisogni nuovi senza il rischio di clamorosi insuccessi. Opponendosi a quel rimodellamento Lobianco rivelava la propria levatura autentica, più che stratega politico dimostrandosi agitatore sindacale, come appare chi fissa la prima preoccupazione nell’impossibilità che altri possa incrinare il proprio primato, fino ad identificare in un uomo umiliato il miglior presidente, siccome impotente, di un ente vassallo. La verità storica pretende si rilevi che, come in altri momenti cruciali della storia della Federconsorzi, poche voci si sono levate a chiedere scelte diverse: tanto poche da meritare uno speciale attestato al valore, ma da non potersi trasformare in opinione. Solo gli ingenui e gli opportunisti potevano credere che la Federazione dei consorzi agrari sarebbe sopravvissuta, senza una drastica virata, alla tragicomica celebrazione del novantesimo giubileo: confermando le attese, la maggiore organizzazione economica dell’agricoltura nazionale giungerà al centenario per essere affidata a commissari ministeriali. Le modalità del loro insediamento, evento troppo recente per poter costituire oggetto di rilievi diversi da quelli della cronaca, portano, comunque un marchio: quello delle rivalità di corrente e delle vendette di partito, quel gioco tipicamente democristiano cui Arcangelo Lobianco non sembra essere stato capace di sottrarsi, che il distacco del tempo consente di riconoscere a Bonomi e a Mizzi di avere evitato, tanto da meritare, indipendentemente dal giudizio della storia, il vanto dei grandi manipolatori, e l’inclusione nel novero degli alchimisti del potere che seppero usare influenza e denaro mantenendosi, quantomeno formalmente, al di fuori delle risse più infami. Salvo reputare un’infamia, per chi brandiva uno stendardo cattolico, avere procrastinato la dissoluzione l’edificio costruito da apostoli liberali di ispirazione massonica, ingigantito dalla passione di gerarchi destinati al plotone di esecuzione, la dissoluzione di cui imporrà l’ineludibilità, impugnando la spada dell’Arcangelo, il successore.

Già  pubblicati:

1ª parte
2ª parte
3ª parte
4ª parte
5ª parte
6ª parte
7ª parte 
8ª parte 

9ª parte
10ª parte





Antonio Saltini 

Già Docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e Vita. E' autore della Storia delle Scienze Agrarie opera in 7 volumi.  www.itempidellaterra.com (qui)










































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