sabato 8 maggio 2021

LA RAZIONALIZZAZIONE DELLA FRUTTICOLTURA ITALIANA TRA ECCELLENZE E PRIMATI PERDUTI


 di ERMANNO COMEGNA

                                                                                                                                                                           

Meleto
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Sono troppi anni che il sistema ortofrutticolo italiano riduce la capacità produttiva e, in qualche caso, pure competitività e produttività e non è utile rimanere indifferenti a tale tendenza, perché altrimenti l’Italia potrebbe perdere uno dei tradizionali punti di forza della sua agricoltura e, per certi ambiti territoriali, dell’intera economia. Pare doveroso subito evidenziare come l’analisi dei dati e degli indicatori oggettivi che vengono di solito monitorati restituisca una situazione differenziata. 

Si rinvengono delle aree di eccellenza diffusa e di solida posizione competitiva, come è, ad esempio, il caso del kiwi, del pomodoro da industria, delle mele. Nello stesso tempo, però, ci sono produzioni che paiono coinvolte in una crisi, talvolta di natura episodica, destinate a normalizzarsi dopo un certo periodo di tempo; in certi casi, invece, di tipo strutturale, dalla quale non si riesce ad individuare una via d’uscita. La coltura delle pesche e delle nettarine in 

 fa parte di questa seconda categoria, avendo perso dal 2006 al 2020 il 60% in termini di superfici e, tra il Censimento agricolo del 2010 e l’indagine delle strutture agrarie del 2016, hanno cessato l’attività ben 4.492 imprese frutticole su un totale iniziale di 18.355. Che sta succedendo ad uno dei più importanti distretti frutticoli italiani? Anche l’uva da tavola, una delle produzioni tipiche nazionali con cui si domina tuttora i mercati del nord Europa, ha manifestato negli anni qualche segno di debolezza, benché l’Italia conservi il primato a livello europeo in termini di volumi di produzione (oltre 10 milioni di quintali annui) e di flussi di esportazione (circa 650 milioni di euro l’anno). 

Si leggono spesso analisi ed appelli a fare passi in avanti dal punto di vista del miglioramento varietale e della organizzazione economica della filiera, per scongiurare un ulteriore contrazione del potenziale produttivo dell’uva da tavola, il quale dal 2006 al 2020, ha perso circa un terzo in termini di superfici coltivate e di produzione raccolta. Gli agrumi sono un emblematico caso di declino della competitività per la produzione italiana e di perdita della posizione di mercato a favore di altri Paesi del bacino del Mediterraneo, come si spiega diffusamente nel presente fascicolo della rivista. C’è però un aspetto che meriterebbe una approfondita meditazione ed alimenta una qualche fiducia nel futuro del sistema ortofrutticolo italiano. Le imprese professionali e specializzate sono vitali, attive e tuttora mostrano un livello di produttività e competitività almeno paragonabile ai più diretti competitori e cioè gli spagnoli. Dalla banca dati della FADN, sulla contabilità economica delle imprese agricole professionali dell’Unione europea, emerge che i due sistemi produttivi sono sullo stesso piano in termini di capitali fissi investiti in azienda (una media per impresa pari a circa 230.000 euro in entrambi i casi) e di produttività del lavoro, con un livello di valore aggiunto netto per unità di lavoro impiegato che, in media dal 2016 al 2018, è stato di 27.000 euro sia in Spagna che in Italia. 

Un terzo indicatore è invece, forse inaspettatamente, favorevole all’Italia. Il volume degli investimenti fissi lordi annuali che indirettamente è una misura della fiducia verso il futuro e del livello prospettico di competitività è quasi sempre superiore in Italia. In media, nel 2018, un’impresa frutticola professionale spagnola ha investito meno di 3.100 euro, contro quasi 4.800 euro di quella italiana. Riportando il dato all’intero universo delle imprese rappresentate dal campione FADN emerge che in Italia ci sono stati investimenti in capitali fissi, al lordo degli ammortamenti, per 285 milioni di euro, contro 191 della Spagna.

Pertanto, alla luce di tali dati non sembrerebbe corretto parlare di declino del sistema produttivo nazionale, ma piuttosto di razionalizzazione, con una chiara dicotomia tra imprese vitali e proiettate verso il futuro ed imprese che, per ragioni di varia natura, lasciano il settore. Si nota inoltre una altrettanto netta distinzione tra segmenti produttivi solidi e capaci di giocare un ruolo di primo piano a livello domestico e sul mercato internazionale ed altri che invece annaspano o regrediscono sistematicamente. C’è un altro elemento analitico che è opportuno portare all’attenzione ed è la concentrazione e specializzazione produttiva a livello di pochi e ben circoscritti bacini produttivi ortofrutticoli territoriali. Il 95% delle esportazioni di mele italiane è effettuato da sole 5 regioni, con la prima (la provincia autonoma di Bolzano) che da sola detiene una quota di oltre il 50%. Lo stesso accade per l’uva da tavola, dove la Puglia primeggia con il 60% circa delle esportazioni nazionali. Pertanto, la massa critica della produzione ortofrutticola e le prospettive di mantenimento della produttività e della competitività coincidono con le aziende professionali specializzate e con i bacini geografici ad alta vocazione tecnica, organizzativa e commerciale. 

E’ all’incrocio di tali traiettorie che è necessario lavorare per provare ad affrontare le sfide del futuro, tenendo conto che oltre agli obiettivi economici, entrano in gioco anche quelli di natura sociale e ambientale. Non è opportuno sottacere come una fascia sempre più ampia e determinata dell’opinione pubblica, rinvigorita anche dai recenti orientamenti politici a livello europeo (si pensi al Green Deal), manifesti scetticismo se non spesso ostilità nei confronti del modello agricolo che, abbiamo visto, assicura una certa vivacità al settore. Che fare per salvaguardare il sistema produttivo ortofrutticolo nazionale? Innanzitutto andrebbero messe in campo politiche settoriali mirate, selettive, non ostili nei confronti delle imprese, tenendo conto della esigenza di coniugare la produttività con la salvaguardia delle risorse naturali ed ambientali. 

Ogni anno in Italia si utilizzano circa 250 milioni di euro di fondi europei sotto forma di interventi settoriali, attuati per il tramite delle organizzazioni economiche dei produttori (OP ed AOP). Molti produttori sono soddisfatti di tale approccio, ma ci sono gli indifferenti, i recalcitranti ed i dubbiosi. Una sana e trasparente operazione di verifica della funzionalità e di valutazione della efficacia potrebbe essere utile per individuare adattamenti e soluzioni innovative con un potenziale effetto virtuoso. In aggiunta, ci sono altri strumenti come i pagamenti diretti e le politiche di sviluppo rurale, grazie ai quali sono attuati interventi a favore del settore che pure potrebbero essere rivisitati in modo mirato alle esigenze, sfruttando i margini di discrezionalità decisionali previsti nella futura politica agricola comune. Poi ci sarebbe da porre in atto una concreta, incisiva e non retorica azione per la semplificazione e per l’abbattimento dei carichi ammnistrativi che gravano sulle imprese. Nel preparare questo fascicolo abbiamo scoperto con una certa sorpresa che la burocrazia è considerata una delle cause alla base della decisione di cessazione dell’attività. Paradossalmente, l’impatto è particolarmente gravoso nelle piccole aziende a conduzione famigliare. Infine, un certo spazio andrebbe dedicato alle politiche di tipo orizzontale, come la ricerca, l’innovazione, il trasferimento delle conoscenze, l’accesso delle imprese ai fattori della produzione scarsi (capitali e terra), quelle variabili che, come si rileva dai saggi pubblicati nel presente fascicolo, sono la matrice dalla quale promana la vitalità e la solidità di un’attività economica complessa, come per l’appunto è l’ortofrutticoltura. 

 

ERMANNO COMEGNA
E' consulente e libero professionista, attivo nel campo agro-alimentare ed è giornalista pubblicista. E’ stato assistente universitario e professore a contratto presso l’Università Cattolica di Piacenza e Cremona, l’Università del Molise. Ha lavorato per l’Associazione Italiana Allevatori (AIA), la Confederazione Generale dell’Agricoltura Italiana (Confagricoltura), la Provincia di Mantova e la Libera Associazione Agricoltori Cremonesi. E’ presidente dell’Associazione Nazionale dei Dirigenti di Aziende Agricole (ANDAA) e vice presidente della Federazione Nazionale dei Dirigenti e Alte Professionalità dell’Agricoltura e dell’Ambiente (FENDA)




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