di SERGIO SALVI
Nel suo ultimo libro “La vita sul nostro pianeta” (Piemme, 2020), una sorta di testamento per le generazioni di oggi e quelle future, il più famoso divulgatore scientifico del mondo rivolge l’attenzione anche alla questione ambientale agricola mondiale, dedicando un paio di capitoli all’argomento. Non solo per evidenziare il peso esercitato dall’agricoltura sull’ambiente nel corso della storia umana recente, ma anche per proporre delle vie da seguire al fine di giungere ad un’agricoltura sostenibile in termini di minor impatto ambientale e a fronte della crescente richiesta globale di cibo.
Attenborough impernia il suo discorso sul fatto che, nel mondo, circa quattro dei cinque miliardi di ettari di suolo agricolo sono prevalentemente destinati ad ottenere il foraggio necessario ad alimentare il bestiame e quindi, in ultima istanza, a produrre carne e latticini. In particolare, la produzione di carne bovina utilizzerebbe il 60% delle terre agricole, una frazione che, stando al dato precedentemente riportato, corrisponderebbe a circa tre miliardi di ettari, con il restante miliardo destinato al sostentamento di altre specie da carne, come polli e maiali. Decisamente troppo per rendere sostenibile l’economia relativa a un quarto della carne consumata e apportatrice di appena il 2% delle calorie assunte mediamente da una persona. A conti fatti, inoltre, produrre 1 chilogrammo di carne bovina richiederebbe 15 volte più terra che per produrre 1 chilogrammo di carne di pollo o maiale. Ridurre la dipendenza da carne e latticini diventa, pertanto, l’altro obiettivo da perseguire - accanto all’abbandono dei combustibili fossili - nel tentativo di salvare il pianeta in vista del cosiddetto “picco agricolo”, ossia il raggiungimento della superficie massima coltivabile, che la FAO prevede sarà toccato entro il 2040.
La ricetta proposta dall’autore passa per parole-chiave (peraltro già note) quali agricoltura rigenerativa, agricoltura urbana, coltivazione idroponica, agricoltura verticale, silvopastorizia, dieta a base vegetale, proteine da fonti alternative (compresa la “carne pulita”, neologismo certamente più accattivante rispetto all’inquietante “carne in vitro”, benché si tratti sempre della stessa cosa). Curiosamente, non c’è alcun riferimento all’agricoltura biologica tout court, anche se è presumibile che il termine sia stato implicitamente incluso nella voce “agricoltura rigenerativa”.
E le biotecnologie? Sì, anche loro rientrano nel novero delle soluzioni da adottare, ma - a quanto pare - limitatamente all’impiego di microrganismi per la produzione di proteine o di non meglio precisati “alimenti organici complessi”. Ancora una volta, nessun esplicito riferimento alle biotecnologie vegetali quale strumento utilizzabile per aumentare la produttività e la sostenibilità delle colture agricole.
Nella didascalia di una delle foto presenti nel libro, Attenborough dichiara di essere da tempo sostenitore del WWF, il che potrebbe spiegare perché il tema delle biotecnologie agrarie sia stato accuratamente evitato. Così facendo, tuttavia, la visione prospettica sul futuro dell’ambiente, e dell’agricoltura in particolare, appare per l’ennesima volta monca di una voce che, invece, ha tutto il diritto di essere inclusa nel novero degli ingredienti della ricetta ambientalista proposta dall’autore.
Molti scettici si sono accorti dell’importanza della ricerca biomedica solo dopo l’arrivo della pandemia di Covid-19; non vorrei che per rivalutare le biotecnologie agrarie si debba attendere l’arrivo di una carestia che bussi anche alle nostre porte.
Biologo libero professionista, già ricercatore in genetica, è biografo di Nazareno Strampelli e cultore di storia agroalimentare. Si dedica alla divulgazione scientifica su temi d’interesse storico e di attualità. È Socio corrispondente della Deputazione di Storia Patria per le Marche.
Nessun commento:
Posta un commento