martedì 14 marzo 2023

ATLANTE DEI PESTICIDI - UN'ANALISI CRITICA


Dall’Atlante dei pesticidi un’interpretazione parziale e marcatamente ideologica del rapporto fra agricoltura e mezzi chimici di difesa dalle avversità. Un gruppo di esperti analizza criticamente l’opera, di cui è recentemente uscita l’edizione italiana.


di FLAVIO BAROZZI, ALDO FERRERO, GABRIELE FONTANA, SILVANO FUSOLUIGI MARIANI, BARBARA MARTELLINI, ANGELO MORETTODONATELLO SANDRONI 



Atlante dei pesticidi


Premessa

È recentemente apparso nell’edizione italiana il volume di 68 pagine “Atlante dei pesticidi - Fatti e immagini della Chimica in Agricoltura”, la cui versione originale in lingua inglese è stata pubblicata da Heinrich-Böll-Stiftung (Berlino, Germania), Friends of the Earth Europe (Bruxelles, Belgio), PAN Europe (Bruxelles, Belgio) mentre la versione italiana è stata pubblicata da Heinrich-Böll-Stiftung, Fondazione Cariplo e Coalizione CambiamoAgricoltura¹. Si tratta di un volume liberamente disponibile in rete² e che si compone di una sequenza di schede volte a mostrare l’impatto degli agrofarmaci (o prodotti fitosanitari) su ambiente, salute e società. Già scorrendo l’indice dell’Atlante e i titoli delle “schede” si coglie il ricorso a un cupo linguaggio millenaristico, giudizio questo che risulta confermato dalla lettura dell’opera, espressione di una cultura manichea e che interpreta in modo parziale e monocorde i dati, trascurando totalmente i requisiti di sicurezza alimentare e di sostenibilità ambientale e socio-economica, cui l’agricoltura dovrebbe oggi ispirarsi, se non altro in virtù del trend di crescita in atto della popolazione mondiale. Nell’esame critico dei contenuti dell’Atlante ci si è limitati a commentare gli aspetti a nostro parere di particolare rilievo, onde evitare di addentrarci in un’analisi troppo ponderosa e che avrebbe potuto scoraggiare il lettore con meno disponibilità di tempo.

L’Atlante propugna un’irrealistica transizione verso l’agricoltura biologica

Per sopperire al fabbisogno in cibo e beni di consumo di una popolazione mondiale che nel 2050 supererà i 10 miliardi di abitanti, la FAO ha coniato il felice concetto di intensificazione sostenibile, da perseguire per mezzo di un’agricoltura evoluta (agricoltura integrata) che utilizzi una combinazione delle migliori tecnologie a base scientifica in ambito genetico e agrotecnico, per conseguire prodotti sostenibili su piano ambientale, sociale ed economico. Tale idea viene rifiutata dagli autori dell’Atlante, i quali si fanno invece propugnatori di una transizione generalizzata verso l’agricoltura biologica, una scelta a nostro avviso del tutto irragionevole, in quanto tale forma di agricoltura – pur rappresentando una possibile opzione imprenditoriale in specifici ambiti operativi – porta a rese che nelle grandi colture sono mediamente inferiori del 50% rispetto a quelle dell’agricoltura convenzionale, a causa di una inadeguata gestione della nutrizione e della difesa da parassiti, patogeni e malerbe (Kniss et al., 2016; Mariani, 2019; Fuso, 2022). Stando così le cose, l’agricoltura biologica.

  • è incapace di garantire gli obiettivi globali di sicurezza alimentare in un mondo in sensibile crescita demografica associata ad un inarrestabile processo di inurbamento, che si concentra soprattutto nei Paesi a basso reddito e che pone problemi del tutto nuovi in termini di soddisfacimento del fabbisogno di cibo e beni di consumo;
  • risulta ambientalmente insostenibile, in quanto, nel caso della sua adozione su vasta scala, si sarebbe costretti a raddoppiare le terre coltivate ai danni di boschi e praterie, con ricadute catastrofiche in termini di biodiversità e di effetto serra (Searchinger et al., 2018; Burney et al., 2010)³.
  • in virtù delle scarse rese, fornisce prodotti che, al dettaglio, presentano prezzi nettamente superiori rispetto a quelli ottenuti dall’agricoltura convenzionale, a fronte di caratteristiche (qualità nutrizionale, organolettica, sicurezza) non significativamente differenti, dando così luogo ad una palese insostenibilità economica per la gran massa dei consumatori.

L’Atlante ignora gli strettissimi rapporti dell’agricoltura biologica con quella convenzionale e con l’industria agrochimica

L’Atlante trascura il rapporto molto stretto fra agricoltura biologica e agricoltura convenzionale. Come farebbero, infatti, i produttori “bio” senza la sostanza organica (letame, digestati, pollina, ecc.) prodotta dagli allevamenti convenzionali grazie a mangimi prodotti anche da colture OGM e a foraggi ottenuti con concimi di sintesi e agrofarmaci non ammessi in agricoltura biologica? O senza il piretro, insetticida molto utilizzato nelle coltivazioni biologiche e che è prodotto in paesi come il Kenya con tecniche di agricoltura convenzionale? O senza l’abbattimento della carica di parassiti e patogeni determinato dall’agricoltura convenzionale grazie alla messa in atto di tecniche di difesa razionali (Dively et al, 2018)? O, ancora, senza l’industria agrochimica (in vari casi multinazionale) che mette a disposizione fitofarmaci quali ad esempio i derivati del rame e dello zolfo, di cui le produzioni biologiche fanno così largo uso?

L’Atlante travisa il rapporto fra agrofarmaci e agricoltori (biologici inclusi)

Usare agrofarmaci costa (acquisto e gestione di attrezzature idonee, costo dei prodotti e della manodopera, ecc.) e dunque l’operatore agricolo professionale tende a ricorrere a tali prodotti solo a fronte di esigenze reali, come previsto dai principi della “Gestione integrata”, i quali sono promossi e divulgati da decenni nelle scuole a indirizzo agrario, nelle università e nell’ambito dei corsi per il rilascio del “patentino” necessario all’acquisto dei prodotti fitosanitari. Dall’Atlante traspare con evidenza la volontà di lanciare un apodittico “atto d’accusa” nei confronti dell’agricoltura evoluta, incolpandola di fare uso di strumenti - quali appunto i prodotti fitosanitari - indispensabili alla protezione delle colture dalle avversità. Come se proteggersi da parassiti e patogeni fosse un delitto, peraltro commesso anche da coloro che praticano l’agricoltura “biologica”, in quanto essi pure fanno largamente ricorso ai prodotti fitosanitari, utilizzando, talora, quantitativi per ciclo colturale superiori a quelli impiegati nelle produzioni convenzionali. 
Alcuni prodotti fitosanitari comunemente usati nei sistemi biologici (ad es. prodotti a base di rame e zolfo) ad azione di “copertura” sulla vegetazione, richiedono, infatti, la ripetizione dei trattamenti secondo specifiche sequenze temporali e presentano un elevato rischio di dilavamento, con contaminazione dei suoli e delle acque. Non possiamo inoltre esimerci dal considerare che tutte le sostanze attive impiegate in agricoltura biologica sono soggette a valutazione tossicologica e ambientale indipendentemente dalla loro eventuale origine “naturale”, come è giusto che sia in quanto tale origine non esclude effetti indesiderati anche estremamente rilevanti⁴. Per contro gli estensori dell’Atlante dei pesticidi dimostrano di non avere né conoscenza né rispetto per il complesso lavoro di ricerca, di sperimentazione, di assistenza tecnica che, da anni, vede coinvolti numerosi scienziati, studiosi, tecnici, consulenti e imprenditori agricoli responsabili, impegnati nell’elaborazione e nell’applicazione di buone pratiche fitoiatriche, in grado di massimizzare la protezione delle colture e di ridurre gli impatti dei trattamenti. Sul piano della sostenibilità sociale occorre inoltre rimarcare che l’agricoltura biologica presenta oggi un duplice costo per i consumatori che si rivolgono al mercato dei suoi prodotti e cioè (a) quello diretto, legato ai prezzi superiori rispetto a quelli dei prodotti da agricoltura convenzionale, a fronte di vantaggi indimostrati e (b) quello indiretto, a carico di tutti contribuenti europei che, con le loro tasse garantiscono i generosi sussidi che l’Unione Europea riserva all’agricoltura biologica. Infatti, sommando tutti i contributi riservati al biologico, il sostegno pubblico raggiunge mediamente il 44,5% della redditività di un'azienda biologica, contro il 31% di quella dell’azienda convenzionale (Rete Rurale Nazionale, 2019 – pagina 24).

L’Atlante ignora il concetto di rischio

Nell’Atlante manca totalmente la distinzione fra pericolo e rischio, il che è errato sul piano tecnico-scientifico. Gli autori basano, infatti, il loro giudizio unicamente sul concetto di pericolo, trascurando il fatto che da oltre 500 anni la tossicologia si basa sul principio espresso dal grande Paracelso secondo cui “Tutto è veleno e nulla esiste di non velenoso. Solo la dose fa sì che il veleno non abbia effetto”. Per gli autori dell’Atlante, dunque, anche una sola molecola di “pesticida” sarebbe sommamente pericolosa per la salute umana e per l’ambiente, e sulla base di tale preconcetto, errato sul piano scientifico, tranciano giudizi, richiedendo il ritiro di prodotti e accusando le autorità di eccessiva timidezza. Inoltre, lanciano reiterate accuse di insensibilità verso la tutela della salute dell’uomo e dell’ambiente che, al contrario, non trovano alcun riscontro nella realtà, vista la grande attenzione posta su entrambi gli aspetti dalle Autorità internazionali competenti. Osserviamo, a tale proposito, che le moderne tecniche analitiche consentono di rilevare tracce minime di sostanze, dell’ordine delle parti per miliardo, rilevando presenze di sostanze attive molto al di sotto delle soglie di attenzione, anche quando vengono considerate nel loro insieme. Presenze irrisorie e ininfluenti, quindi, ma che vengono comunque impiegate per sostenere l’allarmismo chemofobico, di cui certe campagne mediatiche si nutrono.

Il parallelismo con la medicina umana

Del tutto ignorato nell’Atlante è il parallelismo con la medicina umana, la quale da millenni ricorre a farmaci che sono “pericolosi” in caso di dosaggi inappropriati e, invece, ai corretti quantitativi, offrono gli effetti terapeutici attesi, senza importanti conseguenze negative. Si pensi ai farmaci derivati da una pianta estremamente tossica, la Digitalis purpurea, tutt’oggi utilizzati nella cura di malattie cardiache o all’atropina, potentissimo veleno naturale originariamente estratto da Atropa belladonna e che è, ad esempio, utilizzato per la dilatazione delle pupille durante le visite oculistiche o in alcune condizioni patologiche. Chi usa agrofarmaci si comporta a tutti gli effetti come un medico i cui pazienti sono  le piante coltivate, un ruolo che gli autori dell’Atlante si guardano bene dal riconoscere ai nostri agricoltori.

Meno chimica e più genetica?

Lo stesso slogan “meno chimica e più genetica”, che significa introduzione nelle piante coltivate e negli animali domestici di resistenze o tolleranze a parassiti, patogeni e malerbe per limitare il ricorso al mezzo chimico, viene ritenuto infondato dagli autori dell’Atlante, nel capitolo dall’emblematico titolo “Colture OGM = più pesticidi”. Ma siamo proprio sicuri che le cose stiano così, visto che il calo del 40% nell’uso degli agrofarmaci avvenuto negli USA dal 1992 al 2016 é da attribuire in buona parte all’uso dei mais Bt, i quali contengono sostanze che sono tossiche per piralide, Diabrotica e altri insetti parassiti di tale coltura? Peraltro, con questa negazione degli importantissimi benefici insiti nel miglioramento genetico delle piante coltivate (incluse le nuove biotecnologie), l’Atlante dimostra di allinearsi senza alcun spirito critico ai più retrivi canoni dell’ambientalismo ideologico, il quale da un lato dipinge in termini catastrofici l’impatto umano sull’ambiente e dall’altro demonizza qualunque rimedio proposto dalla scienza per porre un argine alla presunta catastrofe. Per un tale ambientalismo sono adeguate solo “cure da cavallo” la cui messa in opera porterebbe le nostre società al collasso.  In tal senso è emblematico il caso dello Sri Lanka, Paese in cui l’abolizione, per legge, dell’uso di fitofarmaci e concimi di sintesi, a lungo perorato da controversi personaggi come l’attivista indiana Vandana Shiva, ha portato al tracollo di un sistema agricolo efficiente e molto produttivo, con un calo del 40% del raccolto di riso, che si è tradotto in una carestia di dimensioni bibliche, culminata con la cacciata del Presidente in carica.

L’Atlante evita di affrontare il tema dell’uso dei “pesticidi” in agricoltura biologica e si esprime per la sostenibilità “a priori” di tale agricoltura

Nell’Atlante si evita costantemente di affrontare il tema dell’uso di pesticidi nell’agricoltura biologica, aprioristicamente ritenuta come la più rispettosa dell’ambiente. Oggi esistono strumenti di analisi quali l’LCA (Life Cycle Assessment) che possono dirci, in modo oggettivo e non ideologico, quale agricoltura sia veramente quella più sostenibile e con risposte che possono spiacere ai seguaci del “bio”, come nel caso del riso, il cui impatto per tonnellata di riso lavorato è nettamente superiore proprio nel caso del biologico (Bacenetti et al., 2016; Hokazono et al., 2009).
Un aspetto particolarmente rilevante dell’Atlante è, inoltre, l’assenza di visione storica che porta a demonizzare la “rivoluzione verde”, in mancanza della quale l’agricoltura non sarebbe oggi in grado di far fronte alle esigenze di cibo e beni di consumo di una popolazione mondiale quadruplicata in 100 anni. Nell’Atlante la rivoluzione verde viene apoditticamente liquidata come “modello agricolo fallimentare, che ha, di fatto, ridotto in condizioni disperate molti lavoratori”. Al contrario, va ricordato che fu proprio la fuga dalle infami condizioni di vita, che nel secolo scorso spinse gli agricoltori delle aree più marginali verso un’occupazione nelle fabbriche, rendendo nel tempo indispensabile l’utilizzo in agricoltura di macchinari, sementi, fertilizzanti e agrofarmaci sempre più evoluti e produttivi. Solo in questo modo i pochi agricoltori rimasti sono stati in grado di soddisfare la crescente domanda di alimenti di una popolazione cresciuta a doppia cifra percentuale nel volgere di pochi decenni.

L’Atlante e l’odio feroce per il Glifosate

Al Glifosate è dedicata una vasta parte dell’Atlante e traspare, a più riprese, l’obiettivo totemico di ottenere la revoca dell’autorizzazione all’uso di tale molecola in ambito europeo. Che dire di questo? Fino ad ora la valutazione in termini di rischio effettuata dagli enti regolatori di diverse parti del mondo, inclusa l’EFSA (Agenzia europea per la sicurezza alimentare), ha sempre escluso rischi di cancerogenicità per glifosate. Tali giudizi delle Autorità di regolamentazione, si sono aggiunti a quello del Comitato congiunto JMPR, il quale ha sconfessato la posizione che vorrebbe l’erbicida “probabile cancerogeno”. Peraltro, il glifosate costituisce, oggi, uno strumento chiave per la difesa dalle malerbe quando si opera in regime di agricoltura conservativa, che è quell’insieme di pratiche agricole che garantisce, oggi, il massimo livello di tutela delle risorse essenziali per il processo produttivo agricolo (acqua, suolo, sostanza organica, ecc.). Evidentemente l’adozione di tale forma di agricoltura, assai favorevole all’ambiente, non interessa agli autori dell’Atlante, dimostrando ulteriormente quanto la loro capacità di analisi sia minata dal pregiudizio ideologico.
A tale riguardo va altresì considerato che la stessa Unione Europea, mediante la strategia Farm to Fork (F2F), sostiene fortemente lo sviluppo dell’agricoltura biologica, esponendo così al rischio concreto di penuria di prodotti agricoli e di massicci rialzi nei prezzi al consumo, aggravando ulteriormente l’attuale dipendenza dell’Unione Europea dall’importazione da Paesi terzi per alcune derrate alimentari, come quelle proteiche e oleaginose. Un’efficace analisi di tali problematiche è offerta da una sintesi di Nomisma (comunicazione personale, 2023) dei risultati degli studi di fonte diversa sull’impatto del F2F (figura 1), secondo i quali l’applicazione di tale strategia darebbe luogo a riduzioni di produzione comprese tra il 7 e il 42% e incrementi dei prezzi di vendita oscillanti tra il 12 e il 60%, con una generalizzata maggior dipendenza dalle importazioni, senza ottenere alcun significativo vantaggio, a livello globale, in termini di emissioni dei gas ad effetto serra. Va peraltro constatato che tali valutazioni fanno riferimento non al un completo abbandono degli agrofarmaci, ma all’applicazione di un complesso di misure che prevedono la riduzione di impiego del 50% di questi prodotti e del 20% dei fertilizzanti di sintesi, oltre alla destinazione del 25% della superficie agricola totale all’agricoltura biologica e del 10% allo sviluppo della biodiversità. Un scenario più favorevole dunque rispetto a quello di un “biologico integrale”, le cui conseguenze sarebbero ovviamente ben più negative. (Nomisma, comunicazione personale, 2023). A ciò si aggiunga che la ridotta disponibilità interna porterà inevitabilmente ad una esternalizzazione delle produzioni verso paesi terzi, scaricando quindi altrove il carico ambientale conseguente, con una forma inedita di neo-colonialismo “ambientale” (Fucks et al., 2020; Fontana e Mariani, 2020; Ferrero et al., 2021).

Figura 1 – Impatti sulla produzione agricola europea e sui prezzi al consumo dedotti da Nomisma in base alle analisi condotte da quattro autorevoli enti di ricerca (USDA, JRC, Università di Wageningen e Università di Kiel).


I dati statistici travisati dall’Atlante

Nell’Atlante si afferma che l'impiego globale dei “pesticidi” è aumentato gradualmente, salendo di quasi l’80% fra il 1990 e il 2017. Secondo i dati della FAO sull’uso degli agrofarmaci, dal 1990 al 2020 l’impiego di agrofarmaci è passato da 1,84 milioni di MT a 2,934 milioni di MT (equivalente a un aumento del 59,6%). Considerando però che nel periodo in esame la popolazione da sfamare è passata negli stessi anni da 5,293 miliardi di persone a 7,820 miliardi di persone, a livello globale, l’uso di agrofarmaci necessari per produrre gli alimenti utilizzati da un uomo in un anno (corrispondenti, per un italiano medio a 230 kg di frutta e verdura, 30 kg di pane, 79 kg di carne oltre ad altri prodotti trasformati) è rimasto pressoché stazionario, passando da 0,374 a 0,375 kg/persona/anno. Facendo specifico riferimento all’Italia, nel periodo preso in considerazione (1990-2020), l’impiego annuo pro-capite di agrofarmaci si è pressoché dimezzato, riducendosi a meno di mezzo chilo di sostanze attive (Figura 2).


Figura 2: andamento degli impieghi in Italia di agrofarmaci, espressi come tonnellate di formulati commerciali e di sostanze attive (Fonti: FaoStat, Istat).

A ciò si aggiunga che delle 441 sostanze attive di sintesi disponibili nel 2000, ne sono sopravvissute solo 212 nel 2020, con un calo del 52%. I 107 fungicidi utilizzabili nel 2000 si sono, oggi, ridotti a 72 (-32,7%). Gli erbicidi sono passati da 177 a 88 (-50,3%). Gli insetticidi sono la categoria di prodotti che più è stata falcidiata dalle norme europee, quelle reputate “timide” dagli autori dell’Atlante: da 136 a 41 (-69,8%). Da non trascurare, inoltre, che la riduzione di mezzi fitosanitari efficaci ha creato gravi difficoltà all’agricoltura, aprendo altresì la strada a preoccupanti fenomeni di resistenza da parte di patogeni, malerbe e parassiti (Fonti: Banche dati fitofarmaci). Merita a questo riguardo richiamare anche la colpevole “dimenticanza” di non aver fatto nel documento alcun cenno agli aspetti legati all’elevato livello di sicurezza sanitaria delle produzioni agricole europee e, in particolare, di quello del nostro Paese, come evidenziato dai monitoraggi sulla presenza di residui di agrofarmaci nei prodotti agricoli da agricoltura convenzionale effettuati dall’EFSA e dal Ministero della Salute italiano (Figura 3). Nell’ambito delle produzioni italiane, risultano a residuo zero, cioè allo stesso livello stabilito per i prodotti da agricoltura biologica (< di 0,01 ppm) il 100% dei prodotti baby food, l’81% dei cereali, il 70% dell’olio e del vino, il 54% della frutta e degli ortaggi. Inoltre nell’ultimo decennio il superamento dei limiti di legge (LMR) in Italia ha riguardato lo 0,4-1%, contro l’1,6-1,8% a livello europeo.


Figura 3. Presenza di residui di agrofarmaci nei prodotti agricoli.


Ignorando del tutto le evidenze di cui sopra, i redattori dell’Atlante proseguono con la loro azione di demolizione della reputazione della chimica agraria. Ad esempio, per evidenziare la supposta minaccia per la popolazione legata all’uso degli agrofarmaci, vengono talvolta usati, in modo ridicolo, dati non rappresentativi, come ad esempio nel caso dell’analisi dei residui di agrofarmaci nei capelli di 148 volontari di sei paesi europei, la cui popolazione complessiva ammonta a 230 milioni di persone. Va comunque tenuto presente che in questa “indagine”, il 40% dei campioni di capelli non presenta alcun residuo, mentre nella restante parte dei campioni il residuo più frequentemente riscontrato e indicato come allarmante, è quello dell’insetticida fipronil, largamente usato per combattere le pulci degli animali domestici.

L’Atlante trascura l’imponente lavoro di valutazione del rischio condotto dalle autorità europee

L’Atlante, finanziato dalla Commissione Europea, minimizza l’imponente lavoro di valutazione dei rischi legati all’uso degli agrofarmaci che le autorità sanitarie e ambientali dell’Unione Europea stessa effettuano prima dell’immissione in commercio e che ogni 10 anni replicano per assicurarsi che non esistano nuovi elementi problematici emersi da studi più recenti. Come previsto dai regolamenti comunitari 283/2013 e 284/2013 sui singoli principi attivi e formulati vengono condotti studi di tossicità acuta, a medio e lungo termine, di neurotossicità, di tossicità su madri e feti, di mutagenesi, di residuo, ecc. I dati vengono poi valutati con riferimento specifico alle condizioni di impiego e alle colture richieste. È falso pertanto affermare, come si fa nell’Atlante, che il rischio legato agli agrofarmaci non venga adeguatamente valutato.
L’Atlante inoltre esalta in modo irrealistico fenomeni come l’inquinamento ambientale e la deriva degli agrofarmaci trasportati altrove dal vento. Si accusano i produttori europei di agrofarmaci di voler avvelenare i paesi del sud del mondo con prodotti obsoleti, dimenticando che la FAO e l’Organizzazione Mondiale della Sanità mantengono la loro rigorosa vigilanza sull’uso degli agrofarmaci in tutti i paesi del mondo, offrendo le loro competenze anche ai Paesi che non dispongono delle strutture di valutazione proprie dei paesi più avanzati.

L’Atlante non considera gli inquinanti immessi nell’ambiente da altri settori. Il caso dei farmaci usati in medicina umana

Nell’Atlante vengono del tutto ignorati gli apporti di prodotti di sintesi all’ambiente dovuti a pratiche antropiche diverse da quelle agricole. Ad esempio le analisi delle acque sono maniacalmente incentrate sugli agrofarmaci, ignorando che in laghi, fiumi e acque sotterranee italiane e di altri Paesi sono presenti sostanze di ogni tipo, inclusi i farmaci assunti dalla popolazione e poi confluiti nelle acque tramite i sistemi fognari. Trattasi di antinfiammatori, antidepressivi, anti-ipertensivi, diuretici, ormoni (come gli anticoncezionali orali) e altre sostanze medicinali di comune impiego, rinvenute nelle acque superficiali spagnole e italiane (Bianca Ferreira et Al., 2011; Arpa Lombardia, 2019), come pure in organismi acquatici quali i gamberi del genere Gammarus delle acque dolci inglesi (Miller et al., 2019). Un esempio su tutti e dato dal Diclofenac, antinfiammatorio non steroideo rinvenuto nelle acque lombarde con un fingerprint del tutto sovrapponibile a quello del vituperato glifosate per numero di rinvenimenti, concentrazioni medie e concentrazioni massime. Con la differenza che, mentre per gli agrofarmaci sono disponibili ponderosi dossier ambientali, finalizzati alla valutazione del rischio anche per gli organismi acquatici, per i farmaci usati in medicina umana tali informazioni sono in tutto o in parte assenti, non essendo prevista la valutazione del loro impatto ambientale post-utilizzo.

Considerazioni conclusive

Vogliamo esprimere il nostro sdegno nei riguardi del “Atlante dei pesticidi – Fatti e immagini della chimica in agricoltura – 2023”, in quanto ennesimo rapporto tendenzioso che, invece di informare l’opinione pubblica, vuole terrorizzarla con visioni apocalittiche e lontanissime dalla realtà, facendo riferimento a dati poco attendibili e trascurando quelli delle fonti affidabili e ufficiali. Il documento pubblicato dalla Fondazione Heinrich Böll con il supporto finanziario della Commissione Europea, presenta gli agrofarmaci come una delle cause principali della morte e dell’inquinamento di questo pianeta. Non si tiene assolutamente conto del fatto che questi prodotti sono non soltanto necessari per proteggere le piante dalle avversità, così come lo sono i farmaci per garantire la salute dell’uomo e degli animali, ma sono soprattutto indispensabili per produrre alimenti di elevata qualità e sicurezza sanitaria a prezzi accessibili a tutti. Lo studio inoltre sostiene l’agricoltura biologica qualificandola come il sistema migliore per nutrire in modo sicuro il mondo, senza evidenziare che l’agricoltura biologica fornisce rese molto inferiori a quelle dell’agricoltura tradizionale e un impatto ambientale che è in realtà superiore a quello che viene dato a intendere. Con una popolazione mondiale in costante crescita, la proposta di sistemi di produzione caratterizzati da rese inferiori è eticamente e socialmente inaccettabile. Va inoltre osservato che, a causa della ridotta produttività, l’agricoltura biologica è causa indiretta di deforestazione, necessaria per ottenere nuove terre da coltivare riducendo così la ricca biodiversità delle praterie naturali e delle foreste.
Trovare il giusto equilibrio non è certo facile, e il lavoro già da tempo intrapreso per ottimizzare l’uso sicuro degli agrofarmaci deve continuare. Allo stesso modo è fondamentale informare i consumatori che alla base dell’impiego degli agrofarmaci esiste una solida analisi del rischio basata su estesissimi studi scientifici, effettuata prima dell’autorizzazione alla messa in commercio di questi prodotti e ripetuta ogni 10 anni, alla luce delle nuove conoscenze. Terrorizzare la popolazione con argomenti non scientifici e propugnare sistemi inadeguati a sfamare la popolazione mondiale non serve assolutamente a nulla, tantomeno a proteggere il mondo. Al contrario, sarebbe opportuno riconoscere il valore del lavoro di generazioni di studiosi, di agronomi e agricoltori, responsabilmente impegnati nella continua ricerca di tecniche e strumenti sempre più “sostenibili” nella produzione del cibo, la sola che sia in grado di garantire la sicurezza alimentare a livello globale, condizione alla base della prosperità e del progresso di tutti i popoli.
Volendo concludere con uno “slogan” si potrebbe affermare che la vera agricoltura è una attività in perenne anche se travagliata e complessa “transizione ecologica”. Essa deve far fronte all’incremento delle esigenze quanti-qualitative di una popolazione in crescita, massimizzando l’efficienza del processo produttivo, in modo da utilizzare e riutilizzare al meglio risorse naturali limitate e non sempre riproducibili quali suolo, acqua ed aria. Tale obiettivo si può raggiungere (come insegna la storia, partendo da Columella e passando da Gallo e Tarello fino ai giorni nostri…) solo con l’apertura allo sviluppo delle conoscenze, della libertà di ricerca (a partire dal fondamentale campo dell’innovazione genetica e delle biotecnologie) e della libertà di impresa. Un insegnamento che, nell’ottantesimo anniversario della tragica scomparsa di Nikolai Vavilov - grande agronomo russo vittima del regime di Stalin e della pseudoscienza propugnata da Trofim Lysenko e dai suoi seguaci, anche italiani, dovrebbe essere di ammonimento per tutti.
Tenuto conto delle non scientificamente sostenibili argomentazioni prodotte nell’Atlante, desideriamo anche esprimere il nostro disappunto per l’ “assistenza finanziaria fornita dalla Commissione europea (Programma LIFE)”. Memori, poi, della tradizionale vicinanza della benemerita Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde al settore agricolo-alimentare, ci stupisce che l’Atlante abbia potuto ricevere un supporto finanziario anche dalla Fondazione Cariplo. Ma anche questo è evidentemente segno dei tempi…
 
 
Note

¹ Coalizione di Associazioni ambientaliste e dell’Agricoltura biologica e biodinamica che comprende Associazione Medici per l’ambiente, Aiab, Associazione agricoltura biodinamica, Fai, Federbio, Legambiente, Lipu, Pro Natura e Wwf (qui la lista complete dei 92 aderenti: https://docs.google.com/document/d/1AqxfQQDxx4vusYHPzjUB7Zvad8apzXakr_e29Fpwubc/edit ). 

² https://www.cambiamoagricoltura.it/sites/default/files/2023-02/atlante_dei_pesticidi_web.pdf

³ Stando al Faostat Analytical Brief 18 - Emissions due to agriculture (Fao, 2018), il solo dissodamento di nuove terre genera, già ora, emissioni annue, pari a 2,9 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti su un totale di 9,3 attribuite all’agricoltura. In altri termini, la sola conversione ad uso agricolo  di boschi e praterie concorre già oggi per il 31,1% alle emissioni totali derivanti dall’agricoltura. Ricordiamo infine che l’agricoltura biologica porta in molti casi ad emissioni di CO2 per unità di prodotto sensibilmente superiori a quelle dell’agricoltura convenzionale - si veda ad esempio Bacenetti et al. (2016).   
 
Si pensi che alcuni dei veleni più potenti (stricnina, botulino, ecc.) sono di origine naturale.

⁵Il JMPR (Joint FAO/WHO Meeting on Pesticide Residues) è un comitato congiunto di esperti che si occupa dell'armonizzazione dei requisiti e della valutazione del rischio dei residui di fitofarmaci. Con riferimento alla cancerogenicità del Glyphosate, il JMPR è stato il primo a pronunciarsi dopo IARC nel maggio 2016.

Un’analisi sulla rilevanza globale dell’inquietante fenomeno riferita al caso specifico delle acque sotterranee è stata recentemente presentata da Silori et al. (2022), i quali hanno condotto una review della letteratura scientifica internazionale relativa a studi condotti in tutti i continenti sui residui di medicinali usati in medicina umana e di prodotti per la cura della persona. 



Bibliografia

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