di ANTONIO SALTINI e FRANCESCO MARINO
Quest' anno  Norman  Borlaug avrebbe compiuto cento anni, ci ha lasciato il 
12 settembre 2009, agronomo e ambientalista ideatore della Rivoluzione 
Verde, per il suo impegno nella lotta contro la fame  nel mondo, ottenne
 il riconoscimento del  Premio Nobel per la pace nel 1970.
Nato   nel  1914 a Cresco piccola comunità dell' Iowa  da una 
famiglia di agricoltori si laureo  in Agraria per poi specializzarsi in 
Patologia vegetale all’ università del Minnesot.
Prima della 
fine della seconda guerra mondiale divenne responsabile del centro di 
ricerche delle malattie genetiche con sede in Messico. Nei suoi studi, 
incrocio  cereali di  varietà  diverse  costituendo colture di frumento 
di piccola taglia , resistenti all’ allattamento  e  al clima 
mesoamericano. Nei paesi dove operò , Messico e poi India, Pakistan, 
Egitto, in molti paesi asiatici Borlaug sperimentò i suoi metodi 
ottenendo grani molto più produttivi e resistenti alle malattie. Solo in
 Messico dopo pochi anni dal suo arrivo l’ autosufficienza alimentare fu
 un dato di fatto.
Agrarian Sciences, alle cui idee si 
ispira, vuole ricordarlo con l'intervista rilasciata al prof. Antonio 
Saltini durante il suo  ultimo viaggio in Italia. 
Intervista al premio Nobel padre della "rivoluzione verde" sul futuro della ricerca genetica, chiamata a soddisfare i bisogni degli abitanti del globo che soffrono la fame
Sulle soglie ormai dei novant’anni, Norman Borlaug, padre dei 
frumenti che hanno permesso la “rivoluzione verde”, per quell’impresa 
insignito del premio Nobel, è il decano dell’agricoltura mondiale.
Nell’intero
 corso della storia umana nessun uomo poté mai vantare, come può vantare
 lui, di avere creato piante che consentono la vita di due miliardi di 
esseri umani.
Nonostante l’età, è ancora al centro dell’agone 
scientifico internazionale, e non manca mai di esprimere la 
preoccupazione, che lo agita e lo sospinge, per il pane e il riso 
necessari ai nove miliardi di abitanti che la Terra dovrà ospitare, per 
consenso unanime dei demografi, tra trent’anni.
Quella 
preoccupazione lo ha condotto anche a Bologna, dove alcuni organismi 
scientifici hanno convocato, presso la Facoltà di Agraria, un’importante
 assise sulle prospettive della ricerca genetica. È durante una pausa 
dei lavori, grazie alla premura di Roberto Tuberosa, responsabile, per 
conto dell’Università di Bologna, del convegno, che ho potuto 
incontrarlo. Seduti al banco di un’aula deserta, Norman Borlaug non mi 
ha concesso una semplice intervista, ma si è immerso in una 
appassionante conversazione sulle prospettive degli equilibri alimentari
 del pianeta.
![]()  | 
| Norman Borlaug intervistato da Antonio Saltini all'Università di Bologna | 
Non di solo pane 
Professor Borlaug, è passato mezzo secolo da quando lei congegnò i frumenti che avrebbero permesso
 la “rivoluzione verde”. Da allora la popolazione del  globo è 
raddoppiata, la produzione di cereali è triplicata, ma  triplicarla non è
 stato sufficiente: un miliardo di uomini soffre ancora  la fame. 
Ritiene che fossero migliori allora, o che siano migliori  adesso le 
condizioni per accrescere la produttività della terra?
«Non
 v’è dubbio che astrattamente le condizioni siano migliori oggi: le 
nostre conoscenze si sono enormemente accresciute, e con quelle 
conoscenze non sarebbe difficile accrescere le produzioni. Ma gli 
ostacoli all’impiego delle conoscenze sono immani: nei Paesi che mancano
 di cibo, l’America latina, l’Asia meridionale, l’Africa, diffondere 
cognizioni agronomiche è impossibile se parallelamente non si realizzino
 strade, scuole e ospedali. Ed è inutile produrre alimenti se il 
bracciante asiatico lavora solo due giorni alla settimana e non ha il 
denaro necessario a comprare il riso. Cina, India e Pakistan hanno 
realizzato aumenti di produzione prodigiosi, ma in quei Paesi si soffre 
ancora la fame, si muore di fame, siccome il cibo non è equamente 
distribuito. Esaminiamo il caso della Cina, oggi il primo produttore al 
mondo di frumento, il secondo di mais, che pure ha zone dove la fame è 
endemica: i responsabili del Paese spiegano che in quelle zone tutto il 
cibo necessario è difficile trasportarlo per mancanza di sistemi 
funzionali di comunicazione».
Non ritiene si 
debba riconoscere che negli anni Cinquanta sul pianeta v’erano milioni 
di ettari di foreste da convertire in arativi, fiumi immensi da 
sbarrare, lo stato dei terreni era eccellente, il consumo di 
fertilizzanti era irrisorio, mentre oggi non vogliamo sacrificare altre 
foreste, non ci sono fiumi per nuove immani dighe, tutti denunciano i 
danni dell’erosione e quelli della salinizzazione sulla fertilità, il 
consumo di fertilizzanti è già elevato, e voci autorevoli temono consumi
 ancora maggiori. Non sono tutte condizioni negative, che rendono più 
ardui progressi ulteriori?
«Credo che le carenze 
idriche possano costituire un impedimento all’esercizio 
dell’agricoltura, nei prossimi trent’anni in alcune aree del pianeta, ma
 che il problema non sarà generale. L’erosione è un processo sempre 
operante, certamente grave nelle aree declivi, molto meno in quelle 
pianeggianti e la salinizzazione è stata la conseguenza di impianti di 
irrigazione che non prevedevano la necessità di dilavare il contenuto 
salino delle acque impiegate, ma oggi gli impianti si progettano con il 
complemento di reti drenanti. Certo, dove un governo vuole realizzare 
una rete drenante per vitare il pericolo su aree di antica irrigazione, 
gli agricoltori si oppongono all’arresto dell’erogazione necessario 
all’impianto della nuova rete: ma sappiamo come procedere.
Il
 degrado dei suoli non è problema nuovo: quando iniziammo il nostro 
lavoro in Messico, a metà del secolo scorso, fummo costretti a renderci 
conto che operavamo su terreni impoveriti da millenni di coltivazione 
intensiva. Prima di Cortez quelle terre producevano mais tutti gli anni,
 e il mais impoverisce la terra. Per favorire la crescita delle piante 
il suolo non deve presentare anomalie chimiche e dev’essere dotato di 
tutte le sostanze necessarie. Fertilizzare un terreno è impresa complessa.
Ricordiamo
 la storia del terreni acidi del Brasile, tanto acidi da essere 
considerati sterili: si pensò di correggere l’acidità con 
somministrazioni di calce, le piante crebbero, ma la calce aveva 
neutralizzato l’acidità dei primi venti centimetri, sotto il suolo era 
ancora acido e in condizioni di acidità diventa solubile l’alluminio, 
che risultava letale se le radici penetravano in profondità.Per coltivare quei terreni erano necessarie piante tolleranti l’alluminio, che solo la genetica può congegnare».
Non di sola genetica 
La
 genetica è indispensabile, ma non è sufficiente, da sola, al progresso 
delle produzioni, deduco dalle parole del mio interlocutore.
“Non
 lo è mai stata e lo sarà sempre meno ― conferma il professor Borlaug ―.
 La genetica stabilisce il potenziale delle colture, la quantità di 
carboidrati che le piante sono in grado di produrre nelle migliori 
condizioni ambientali, ma quella condizioni debbono essere assicurate da
 interventi agronomici. In India i primi frumenti selezionati elevavano 
le rese da una a due tonnellate per ettaro nei campi di tutti i 
coltivatori, di quattro o cinque in quelli dei più capaci, che avevano 
compreso le esigenze delle nuove piante. Ecco perché ripeto che non 
basta fare nuove sementi, ma che occorrono, insieme, strade e scuole: 
senza strade non si possono distribuire agli agricoltori i fertilizzanti
 necessari a ottenere produzioni elevate, senza scuole è difficile che 
quei coltivatori imparino come combinare le sementi con l’impiego 
dell’acqua e dei fertilizzanti.”
La genetica resta, comunque, arguisco, il fattore capitale del progresso futuro.
“Senza dubbio ― conferma il mio interlocutore ― : sussiste
 l’imperativo categorico di produrre di più, e solo la genetica può 
mettere nelle nostre mani piante più produttive. E genetica significa, 
oggi, creazione di genotipi estrapolando geni favorevoli dalle fonti 
possibili e componendoli nelle combinazioni più favorevoli. Produrre di 
più e più razionalmente: pensiamo ai benefici dell’introduzione dei geni
 del Bacillus Thuringiensis nel genoma delle piante più esposte 
all’attacco degli insetti, quei risultati che si riassumono nella 
drastica riduzione delle irrorazioni di antiparassitari. Pensiamo ai 
vantaggi delle piante resistenti agli erbicidi: il sessanta per cento 
del cotone è coltivato, nel mondo, in aziende familiari, dove tutta la 
famiglia vive piegata penosamente sulla zappa. Le erbe infestanti nei 
climi equatoriali hanno un vigore prodigioso! Con un gene per la 
resistenza agli erbicidi si risparmia a milioni di uomini il più penoso 
dei lavori!”
Come in Italia è stato possibile 
chiudere la tragica epopea delle mondine nelle risaie di Vercelli e 
Pavia, annoto. Ma, a combinare genetica e agronomia lei ritiene 
possibile, soggiungo, risolvere i problemi alimentari di tutte le 
regioni del mondo dove si soffre la fame, anche dell’Africa, il 
continente sul cui futuro non mancano le prognosi disperate?
“Ricerche
 precise, finanziate, da una fondazione giapponese, hanno dimostrato 
quale immenso incremento sia possibile imprimere alle produzioni 
africane fondamentali, mais sorgo e manioca. Ma prima di tutto gli 
africani hanno bisogno, ripeto, di strade e scuole, strade per 
comunicare, per conoscersi, per dissolvere la paura reciproca che 
alimenta i conflitti tribali. Certo, le conseguenze positive non si 
vedranno in un anno, ma dobbiamo contare che non mancheranno.”
E
 fino a quando potrà la genetica accrescere le produzioni, chiedo al mio
 interlocutore? Agronomi non privi di prestigio sostengono che le grandi
 specie agrarie sarebbero prossime, ormai, ai propri limiti biologici, 
oltre i quali non si potrebbe aumentare ancora.
“Non v’è dubbio che limiti biologici sussistano ― riconosce Norman Boralug ― ma
 non possiamo dire di averli raggiunti. Certo, per superare i limiti già
 raggiunti dobbiamo usare i mezzi più raffinati della biologia 
molecolare. Senza sapere fino a dove ci sarà consentito progredire, ma 
fino a quando la crescita della popolazione non si arresti, dobbiamo 
continuare lo sforzo per progredire.”
Contro la genetica 
La
 genetica, quindi, strumento indispensabile per nutrire l’umanità del 
futuro, ma contro la genetica si agitano forze prepotenti, soprattutto 
in Europa. Come spiega il fenomeno, e quali pensa possano esserne le 
conseguenze?
“Quando, nel 1965, l’India dovette 
confrontarsi con la carestia più grave del passato recente, molte voci, 
nel gabinetto del primo ministro, erano contrarie all’introduzione delle
 sementi nuove sperimentate in Messico e in alcuni altri paesi. Indira 
Gandhi decise di importarle, e la quantità necessaria fu raccolta col 
contributo di paesi diversi. Per illustri luminari americani lo sforzo 
era inutile: la fame dell’India non si poteva sconfiggere. La carestia 
fu superata: tra la popolazione dell’India non sorse alcuna obiezione 
contro l‘impiego di quelle sementi. La gente sapeva cosa era la fame. In
 Europa, ma anche negli Stati Uniti, la resistenza contro le nuove 
creature della genetica è virulenta, ma è comprensibile: nessuno ricorda
 cosa sia la fame. C’è chi mi rimprovera di non avere risolto i problemi
 alimentari dell’India. Risolvere i problemi alimentari dell’India! Io 
chiedo semplicemente: ma senza i frumenti della Rivoluzione verde cosa 
sarebbe stato dell’India? Non sanno rispondere. L’umanità si moltiplica,
 ogni anno ottanta milioni di bocche in più chiedono pane e riso, 
dobbiamo pensare ad alimentare una popolazione di nove miliardi. Per 
farlo l’arma a nostra disposizione è la scienza, la genetica con 
l’agronomia. Capisco le paure: di fronte al cambiamento è naturale 
chiedersi perché cambiare, anche gli uomini politici, potessero, non 
affronterebbero mai i cambiamenti. Ma la popolazione cresce, dobbiamo 
cambiare. Il cambiamento necessario consiste anche nella nuova 
genetica.”
Ma crede, insisto, che la politica 
saprà cambiare? Nel 1974 si celebrò a Roma la Conferenza mondiale 
sull’alimentazione, che proclamò la prossima eradicazione della fame: Cosa ha fatto la politica mondiale da allora?
“Partecipai
 alla conferenza ―sorride il premio Nobel Borlaug ― e ricordo la 
riunione per la stesura del documento nella quale Henry Kissinger 
proclamò che entro cinque anni nessun bambino del pianeta sarebbe più 
andato a letto senza avere soddisfatto l’appetito. Una dichiarazione 
penosa: le dichiarazioni politiche, purtroppo, non alleviano la fame”
Qualche
 anno fa il New York Times pubblica: “Chi è più meritevole di 
ammirazione, secondo voi: Madre Teresa, Bill Gates o Norman Borlaug?” 
Norman Borlaug "l’agronomo della Rivoluzione Verde".


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