giovedì 28 febbraio 2019

RISPOSTA AL TESTO PRODOTTO DAL GRUPPO DEI “DOCENTI PER LA LIBERTÀ DELLA SCIENZA” (Pacini et al., 2019)


Sottoscrittori: Tommaso Maggiore, Luigi Mariani, Roberto Defez, Donatello Sandroni, Alfonso Pascale, Alberto Guidorzi, Deborah Piovan, Francesco Marino, Osvaldo Failla, Ermanno Comegna, Giuseppe Bertoni, Marco Pasti, Michele Lodigiani, Bruno Mezzetti, Sandro Fracasso, Aldo Ferrero, Vittoria Brambilla.


Prova comparativa Riso integrato vs Riso veramente bio. In basso dettaglio Riso veramente bio.


Riassunto
Con questo documento intendiamo rispondere alle critiche espresse dal Gruppo dei docenti per la libertà della scienza (Pacini et al., 2019) nei confronti del nostro “Contributo tecnico-scientifico alla discussione” inviato ai Senatori il 9 gennaio u.s.
Nello specifico ribadiamo anzitutto la veridicità dei cali di resa dell’agricoltura biologica rispetto a quella convenzionale che in pieno campo vanno dal 20 al 70% a seconda della coltura, corroborando tale considerazione generale con ulteriori dati relativi all’Italia, alla Francia e ad altri Paesi. Ribadiamo altresì che l’alternativa al biologico è costituita dall’agricoltura integrata, intesa come forma di agricoltura capace di incrementare quantità e qualità delle produzioni agricole nel rispetto dell’ambiente, grazie all’impiego delle più innovative tecnologie nei settori della genetica vegetale ed animale e delle tecniche colturali e di allevamento. Per quanto riguarda poi la sostenibilità ambientale si ribadisce l’insostenibilità globale di un’agricoltura basata sul biologico per motivi ecologici (dimezzando le rese si sarebbe costretti a raddoppiare le terre coltivate con danni enormi agli ecosistemi naturali) ed economici (a parità di prodotto i prezzi sono mediamente doppi rispetto a quelli propri dell’agricoltura convenzionale).
Si ribadisce inoltre il rilevantissimo problema che nel biologico è dato dalla mancanza di reali alternative all’uso del rame come fungicida, molecola con problemi di tossicità per l’uomo nettamente superiori a quelli, ad esempio, del glifosate e con rilevante impatto ambientale sul suolo e sugli ecosistemi acquatici.
Riflessioni specifiche sono anche condotte con riferimento al problema della sicurezza alimentare globale che non è a nostro avviso affrontabile imponendo diete che riducano in modo drastico i prodotti di origine animale, anche se un riequilibrio fra proteine di origine animale e vegetale è comunque auspicabile. Riteniamo altresì che i “fallimenti di mercato” siano indipendenti dai modelli di produzione agricola (biologico, convenzionale o altri).

Notiamo infine che Pacini et al., 2019 trascurano alcuni dei temi per noi centrali ed in particolare il rifiuto preconcetto dei concimi di sintesi e l’insostenibilità della zootecnia estensiva.

Premessa
Come estensori del “Contributo tecnico-scientifico alla discussione” (di qui in avanti CTSD_2019) inviato ai Senatori il 9 gennaio 2019 (Agrarian Sciences ) e relativo al DDL 988 attualmente in discussione al Senato, intendiamo anzitutto sottolineare di non essere assolutamente detrattori dell’agricoltura biologica, un modello produttivo agricolo in grado di corrispondere alle esigenze di uno specifico settore di mercato. Al riguardo, si veda quanto scritto al 4° capoverso del paragrafo “Obiettivo del documento”: “l’imprenditore agricolo è libero di adottare il processo produttivo (convenzionale, biologico, integrato, ecc.) che meglio gli consenta di confrontarsi con il mercato a condizione che tale processo si svolga nel pieno rispetto delle normative e fornisca i prodotti attesi e che l’imprenditore agricolo dichiara di rendere disponibili”.
Il nostro documento CTSD_2019 si propone di contribuire al dibattito previsto in Senato offrendo elementi tecnico-scientifici di base per una discussione più informata, in analogia con quanto al Parlamento Europeo ha fatto lo European Parliamentary Research Service, che non a caso nel suo recentissimo documento del marzo 2019 dal titolo “Farming without plant protection products. Can we grow without using herbicides, fungicides and insecticides?” giunge a conclusioni per molti versi simili alle nostre (insostenibilità di un’agricoltura globale fondata sul biologico, problematicità del rame, necessità di un’intensificazione sostenibile basata sull’agricoltura integrata).
Non si può negare in premessa che molti articoli del DDL 988 tendono a isolare il “biologico” rispetto al contesto agro-alimentare nel quale lo stesso si colloca (articoli 5,8,11,13,14,15,16,17,18) avvalorando l’idea di un’autosufficienza del “biologico” che non è nei fatti. Al riguardo si sottolinea infatti che il “biologico” (i) dipende in modo rilevantissimo dal convenzionale per la sostanza organica di origine animale (letami, pollina, sottoprodotti dell’industria delle carni, ecc.) di cui ha assoluta necessità per restaurare la fertilità del terreno e inoltre (ii) beneficia dell’abbattimento dell’inoculo di parassiti e patogeni frutto della difesa razionale condotta dall’agricoltura convenzionale e ancora (iii) utilizza come insetticida il piretro, prodotto soprattutto in Africa con tecniche di agricoltura convenzionale che prevedono l’uso di concimi, insetticidi e diserbanti severamente vietati in “biologico”. Peraltro con riferimento al piretro occorre accennare al fatto che i piretroidi non sono che un’evoluzione controllata e controllabile dell’estratto di piretro la cui qualità analitica è molto variabile, come emerge dalle valutazioni condotte in sede di registrazione FAO/WHO JMPR.
In termini generali ci preme anche evidenziare che per verificare l’ipotesi di applicazione su vasta scala del “biologico” (che oggi a livello mondiale occupa solo il 2% delle superfici) in luogo del convenzionale non si può prescindere dagli strumenti modellistici. Per questo rifiutare a cuor leggero come fanno Pacini et al. (2019) lavori come quelli di Burney et al. (2010) o di Searchinger et al. (2018) perché riferiti a scenari ipotetici e che non terrebbero conto del “calo di fertilità dei suoli coltivati con tecniche convenzionali, già pericolosamente in atto oggi” ci pare del tutto irrazionale. Al riguardo facciamo peraltro osservare che se le rese sono espressione della fertilità, come dovremmo giudicare in termini di fertilità gli incrementi di resa del 2-3% annuo che le statistiche globali FAO e USDA indicano per le grandi colture che nutrono il mondo (mais, riso, frumento, soia, orzo) negli ultimi 50 anni?
Di seguito si risponde ai singoli macrotemi sollevati dal gruppo dei “Docenti per la libertà della scienza”. 

Sulle differenze di resa tra agricoltura convenzionale e agricoltura biologica
Si evidenzia anzitutto che il nostro documento CTSD_2019 non parla di “rese fino al 50-75% in meno” come scrivono Pacini et al. (2019) bensì di “cali di resa in pieno campo che vanno dal 20 al 70%” a seconda della coltura”, con dati di riferimento riportati nell'Approfondimento 1, ove in assenza di dati per l’Italia si riferiscono dati per Francia, Stati Uniti d’America e Stato indiano del Sikkim. A ciò possiamo aggiungere:
  • la più ampia disamina condotta da INRA (2013) che per il “biologico” francese indica cali di resa medi nazionali del 54% per il grano tenero, il 36% per il mais, il 55% per orzo, 40% per triticale, 43% per fava e pisello, 51% per Colza, 19% per girasole e 15% per soia (tabella 1)
  •  il lavoro scientifico di Chiriacò et al (2017) in cui si riportano rese, tratte dai quaderni di campagna degli agricoltori, di 1,5 t/ha per grano duro “biologico” contro le rese di 6 t/ha per il convenzionale (-75%), che concordano con i dati francesi da noi citati per grano tenero (-68%)
  • sempre con riferimento al frumento (i) Benincasa et al. (2016) per una prova di confronto undecennale riportano cali di resa medi del 25% per il grano duro e del 31% per quello tenero coltivati in biologico, (ii) Ianucci e Codianni (2016) riportano per il grano duro “biologico” un calo di resa medio del 40%, e (iii) Mikò et al. (2016) da prove parcellari triennali condotte in Francia, Austria e Ungheria ricavano cali di resa medi del 27% per il grano duro biologico.
  •  il lavoro di Bacenetti et al. (2016), cofirmato anche dal prof. Stefano Bocchi e nel quale si indicano per il riso “biologico” cali di resa medi del 34% rispetto a quello convenzionale che tuttavia salgono al 56% se si considerano le minori rese alla lavorazione (40% per il riso “biologico” contro il 60% per il convenzionale).

Ricordiamo inoltre che se vogliamo parlare di sicurezza alimentare globale dobbiamo focalizzare la nostra attenzione sulle rese delle 5 grandi colture (riso, mais, frumento orzo e soia) che da sole fanno il 70% delle calorie oggi consumate dagli esseri umani. Su queste 5 colture il pieno campo riserva sorprese negative enormi rispetto a quanto accade in prove parcellari in cui la necessità di rispettare il coeteris paribus spinge il più delle volte ad interventi specifici non effettuabili in pieno campo e volti ad eliminare gli effetti negativi di malerbe, mancato soddisfacimento delle necessità nutrizionali e limitazioni nella difesa fitosanitaria che anche interagendo fra loro (es: colture con problemi nutrizionali sono più esposte agli effetti negativi di parassiti, patogeni e malerbe) portano a pesanti decurtazioni delle rese nel “biologico” (Cavigelli et al., 2008).
Inoltre in pieno campo il “biologico” ricorre sempre più spesso a "varietà antiche" (che poi il più delle volte sono in realtà varietà dei primi del XX secolo) che di per sé presentano rese sensibilmente inferiori rispetto alla varietà attuali.
Occorre peraltro evidenziare che in pieno campo sono dichiarate "meraviglie" che dovrebbero insospettire l’osservatore più attento, quali risi “biologici” con rese pari a quelle dei risi convenzionali, il che in assenza del diserbo manuale (monda) no è ragionevole attendersi. Sempre in pieno campo è assai frequente assistere all'abbandono della coltura del mais da parte del “biologico” per le rese troppo basse legate in primis a problemi di diserbo (impossibilità di effettuare il diserbo meccanico sulla fila e/o di intervenire con il diserbo meccanico stesso in occasione dei periodi piovosi così frequenti in primavera). Nel caso del mais per uso zootecnico lo stesso viene sostituito con il prato che rispetto a un mais convenzionale allo stato dell’arte porta a ridurre a circa 1/3 (-66%) la produzione in termini di unità foraggere per ettaro.
Alla luce di quanto sopra invitiamo gli estensori del documento dei sei (Pacini et al., 2019) a verificare con i produttori biologici onesti quali siano le reali differenze di resa registrate rispetto al convenzionale e a considerare inoltre che accreditando differenze di resa fra l’8 e il 25%:
  • accreditano l’attività dei produttori disonesti che ad esempio nel caso del riso giungono a produrre anche 6-7 t/ha di riso contro le 7-8 t/ha dei produttori convenzionali
  • fanno sorgere nell’opinione pubblica seri e motivati dubbi circa l’utilità dei finanziamenti pubblici al biologico. Com’è possibile giustificare infatti che un settore che produce quasi quanto il convenzionale e che spunta prezzi di mercato più che doppi riceva sussidi pubblici che oggi arrivano al 45% del reddito netto contro il 30% del convenzionale?

In sintesi, mentre ribadiamo che il biologico debba ricevere sussidi atti a compensare le rilevanti riduzione di resa riscontrati, riteniamo che queste riduzioni debbano essere adeguatamente monitorate dal sistema statistico agricolo nazionale, visto che statistiche affidabili di resa del biologico non sono disponibili. A ciò si aggiunga che dovrebbero essere istituiti controlli molto più severi di quelli oggi in atto allo scopo di individuare e punire i produttori biologici disonesti.  
Tabella 1 – Rapporto fra i rendimenti in agricoltura biologica e convenzionale AB/AC a livello nazionale francese per alcune produzioni vegetali da varie fonti (INRA, 2013 – tabella 1 – pagina 25).


Sulle alternative al “biologico”
Per agricoltura integrata intendiamo una forma di agricoltura capace di incrementare quantità e qualità delle produzioni agricole nel rispetto dell’ambiente, grazie all’impiego delle più innovative tecnologie nei settori della genetica vegetale ed animale e delle tecniche colturali e di allevamento, e quindi non solo in applicazione della direttiva n° 128/09/UE (uso sostenibile dei prodotti fitosanitari).
A nostro avviso detto modello consente di superare tutti i limiti dell’agricoltura organica in una logica di sostenibilità.
L’applicazione dei concetti sopra indicati non genera confusione, ma va proprio nella direzione dell’interesse pubblico che si sostanzia in “cibi di buona qualità e a prezzi contenuti”.
Peraltro la posizione da noi espressa è confermata da un recentissimo documento del Servizio ricerca del Parlamento Europeo (European Parliamentary Research Service, 2019) nel quale si afferma, fra l’altro, che per migliorare la sostenibilità della produzione agricola facendo al contempo fronte al sensibile incremento delle popolazione globale (11 miliardi di esseri umani attesi per il 2100) si rende necessaria un'intensificazione sostenibile basata sulla difesa integrata (IPM) e sul ricorso sempre più ampio all’agricoltura di precisione, alla sviluppo di varietà resistenti e a tecniche colturali innovative. In tale documento si sostiene inoltre che a fronte di un tale scenario l’agricoltura biologica ha un potenziale inferiore pur rivelandosi utile in un numero limitato di situazioni specifiche, come ad esempio nelle aree tampone fra riserve naturali e aree ad agricoltura intensiva.

Sui prodotti a base di rame e sui prodotti chimici di sintesi

Evidenziamo anzitutto la falsità della dicotomia posta da Pacini et al. (2019) fra “prodotti a base di rame” e “prodotti chimici di sintesi” in quanto i prodotti a base di rame sono anch’essi di sintesi e cioè prodotti dall’industria agrochimica, la stessa che ottiene lo zolfo usato come antiofidico soprattutto dalla desolforazione dei combustibili fossili.
Per quanto riguarda i prodotti a base di rame si segnala che EFSA nelle conclusioni del suo rapporto del 2018 dedicato all’uso in agricoltura di tale sostanza evidenzia di non poter finalizzare le conclusioni sui rischi per il consumatore per mancanza di studi. Si osservi poi che il rame presenta un elevato rischio per gli uccelli e i mammiferi per gli organismi acquatici, per la flora e la fauna del suolo (Ballabio et al., 2018) e per gli insetti (api incluse). L’uso intensivo del rame in agricoltura ha anche pesanti effetti sulle popolazioni dei lombrichi e sulla biomassa microbica del suolo (FAO and IPTS, 2017). Tutto ciò spiega le seguenti indicazioni di pericolo presenti sulle etichette di un idrossido di rame: molto tossico per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata, provoca gravi lesioni oculari, mentre ad esempio per la maggior parte dei formulati a base di glifosate non vi è alcuna indicazione di pericolo. In sintesi dunque per quanto riguarda la salute umana possiamo dire che la possibilità di intossicazioni acute accidentali è senz’altro molto più probabile per il rame che per il glifosate. 
A testimonianza della tossicità dei fungicidi a base di rame giova citare quanto riportato nel rapporto ISTISAN 18/6 (Istituto Superiore della Sanità, 2014): “L’esposizione per via inalatoria a verde rame (fungicida), nel corso di attività agricola effettuata senza l’utilizzo di alcun dispositivo di protezione individuale, è stata riportata come possibile fattore causale per il decesso di un uomo di 72 anni di età. Il paziente, inizialmente ricoverato in emergenza per dispnea manifestatasi a seguito dell’inalazione del fungicida, ha successivamente sviluppato un quadro di colecisti acuta e una grave anemia emolitica che lo hanno condotto a morte nell’arco di quattro giorni.”. In ragione di ciò riteniamo non corretto minimizzare il rischio per gli operatori e i consumatori legato all’utilizzo di prodotti a base di rame come fanno Pacini et al. (2019) e come fa lo stesso presidente Federbio Carnemolla il quale in un’intervista televisiva ha di recente dichiarato che "Lo usiamo da 150 e saremmo tutti morti e avremmo dei vigneti dei deserti e questo non è...".(Sky TG 24, servizio mandato in onda il 15 e 16 dicembre 2018).
Riguardo al rame, va inoltre ricordato l’uso massiccio storicamente adottato dal “biologico” a causa della sua deliberata rinuncia alle numerose alternative di sintesi nell’ambito dei fungicidi. Ciò ha condotto a un rilevante accumulo nel suolo di questo metallo pesante, tanto da indurre le normative europee ad abbassarne ulteriormente le dosi a soli 4 kg/ha/anno di rame metallo, riducendo di un terzo i precedenti limiti di 6 kg/ha. Il nuovo limite può essere agevolmente tollerato da chi segua protocolli di difesa integrata, ma pone gravi difficoltà agli agricoltori biologici. Ad esempio Kuhne et al. (2017) riportano per la Germania quantitativi di rame usati per ettaro in “biologico” su vite, luppolo e patata che sono rispettivamente pari al 288%, al 153% e al 175% di quelli usati nell’agricoltura convenzionale. A fronte di tali progressive riduzioni nelle dosi, sospette appaiono quindi le quasi 300 formulazioni di rame commercializzate ufficialmente in Italia come "fertilizzanti" anziché come antiperonosporici (Valmori, 2017). Un numero di prodotti, quello dei fertilizzanti rameici, che supera perfino quello degli analoghi formulati rameici regolarmente autorizzati come fitofarmaci. Su questo tema si auspica infatti una specifica attenzione dei Normatori, affinché a tali prodotti venga posto un contenuto di sostanza attiva sufficientemente basso da impedirne di fatto l'utilizzo illegale come fitofarmaci. Un tema che dovrebbe preoccupare in primis i produttori agricoli che ammantano la propria scelta di fare “biologico” con motivazioni etiche legate alla salvaguardia dell’ambiente e alla tutela dei diritti delle generazioni future.

Per quanto attiene poi alle considerazioni di Pacini et al (2019) sul Glifosate, IARC ha inserito tale principio attivo nel gruppo 2A (probabilmente cancerogeno per l’uomo), lo stesso nel quale sono state inserite le carni rosse (prodotte in modo convenzionale o “biologico”) o le bevande bevute molto calde: si noti che alcool e fumo di tabacco sono stati inseriti nel gruppo 1 (certamente cancerogeno per l’uomo). In ogni caso la valutazione di IARC non è stata condivisa dal Joint FAO/WHO Meeting on Pesticide Residues, dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (European Food Safety Authority, EFSA), dall’Agenzia Europea sui Prodotti Chimici (European Chemicals Agency, ECHA), dall’EPA statunitense, dal PMRA canadese e un’altra dozzina di enti nazionali. Tutti questi organismi hanno concluso che il glifosate non pone rischio di cancerogenicità.
Il problema delle resistenze delle malerbe che gli autori segnalano nel caso del glifosate, è un fenomeno alquanto comune in natura, ben noto ad esempio per la sua diffusione tra i batteri nei confronti di importanti antibiotici per i quali. tuttavia, l'insorgere delle resistenze non ha portato certo a negarne l'importanza come rimedio terapeutico. Nello specifico il fenomeno della resistenza alle malerbe ai diserbanti è fisiologico e viene comunemente affrontato e risolto sia ricorrendo alla rotazione colturale e a quella dei diserbanti con diverso meccanismo di azione sia con la ricerca di nuovi prodotti chimici.

Sulla fertilità del suolo e le emissioni di CO2
Circa i punti elencati da (a) ad (e), il tutto dovrebbe essere rispettoso delle logiche di sostenibilità economica, in assenza della quale si verificherebbero processi di abbondono con conseguenti rischi non solo di desertificazione, tanto paventata dagli estensori della nota, ma anche di incendi e processi erosivi in genere.
L’applicazione di quanto descritto nel paragrafo in esame porta a domandarsi: 1°. Chi paga? e 2°. A quanti darebbe da mangiare e a quale costo?

Sulla giustizia e sulle soluzioni al problema della sicurezza alimentare
L’ampia divagazione iniziale sui fallimenti del mercato è un’ovvia considerazione che, tuttavia, sposta l’attenzione su un tema diverso da quello da noi affrontato. Al centro dei documenti da noi redatti non vi sono infatti i modelli di mercato, ma i modelli di produzione agricola ed è sulle conseguenze di questi ultimi che ci si sofferma. I fallimenti di mercato, come quello citato relativo alla (re)distribuzione delle risorse, sono indipendenti dai modelli di produzione agricola, mentre le cause che li originano agiscono indifferentemente su questi ultimi, indipendentemente dal fatto che siano biologici o convenzionali o altri ancora.
Il fatto che vi siano ancora e purtroppo oltre 800 milioni di persone che soffrono la fame non deve far dimenticare che il loro numero tendenzialmente è in calo sia in assoluto sia in percentuale e anche negli anni della crisi il trend è confermato. Un risultato ancora più significativo se si considera che contemporaneamente la popolazione mondiale continua a crescere e che i tassi di crescita sono più elevati nei Paesi in via di sviluppo (PVS) che nei Paesi avanzati. Si può e si deve fare di più e meglio e a questo fine ci si muove, ma non dimenticando due fatti innegabili: a) il miglioramento conseguito è dovuto soprattutto se non esclusivamente agli sviluppi dell’agricoltura convenzionale specialmente nei PVS; b) se si considera la distribuzione geografica dei Paesi in cui vi è carenza alimentare e la sua distribuzione nel tempo, si vede che rispetto agli inizi degli anni ’60 del Novecento e ancor più negli ultimi decenni nel continente asiatico e in un numero crescente di paesi del Centro e del Sud America l’intensificazione della produzione agricola sostenuta dal crescente impiego di mezzi tecnici ha ridotto, se non eliminato, la piaga della fame, mentre la gran parte dei paesi ancora in sofferenza si concentra nell’Africa Sub-Sahariana. Il mancato miglioramento o il regresso di risultati già conseguiti sono imputabili come noto a problemi extra agricoli.
Una ulteriore considerazione riguarda la concreta possibilità di riequilibrare offerta e domanda di prodotti agricoli attraverso un ridimensionamento delle diete, in particolare azzerando o quasi i prodotti di origine animale. La domanda di questi prodotti cresce infatti con l’aumentare del reddito e questo è il vero perno della questione. Non si può impedire a popoli che escono a fatica dalla fame di precludersi quel miglioramento quanti-qualitativo che i popoli dei paesi sviluppati hanno avuto. Sostenere e promuovere “diete sostenibili e sistemi di produzione meno impattanti” incontra grossi limiti nei comportamenti individuali ma soprattutto nell’elevato rischio di perpetuare la malnutrizione nei PVS e reintrodurla in quelli sviluppati. Infine quand’anche fosse realizzabile sulla necessaria scala mondiale, non sarebbe vantaggioso per l’azienda agricola (il settore agricolo) che vedrebbe ridursi il mercato e la remunerazione dei prodotti, né per il consumatore le cui scelte sarebbero compresse e etero decise, né tanto meno per il territorio (l’ambiente agricolo) che soffrirebbe di un abbandono dannoso. Ma, soprattutto, queste considerazioni, come quelle sui fallimenti del mercato, sono indipendenti dalla scelta a favore o contro il biologico.

Omissioni esistenti nell’analisi condotta da Pacini et al. (2019)
Rispetto alle analisi da noi condotte nel nostro documento per il Senato CTSD_2019 abbiamo notato anche alcune rilevanti omissioni che riteniamo utile evidenziare. Viene del tutto disatteso il problema che una eventuale estensione del “biologico” a livello globale creerebbe in virtù del rifiuto preconcetto dei concimi di sintesi, azotati in primis. Infatti secondo le stime di Smil (2002) senza i concimi azotati di sintesi la produzione globale di proteine si dimezzerebbe con gravissimi danni alla sicurezza alimentare.
Viene altresì trascurato il fatto che la promozione di una zootecnia estensiva perpetuerà nei fatti la dipendenza del “biologico” dalla zootecnia intensiva, in quanto la zootecnia estensiva proposta dai biologici è per lo più quella da pascolo ove recuperare la sostanza organica per trasferirla alle colture intensive è oggettivamente impossibile.
Viene altresì trascurato il fatto che la zootecnia estensiva ha emissioni di gas serra triple rispetto a quelle della zootecnia intensiva, e dunque insostenibili (Capper et al., 2009).
Sottostimando infine i cali di resa in “biologico”, Pacini et al. (2019) sottostimano anche i danni agli ecosistemi che deriverebbero dalla necessità di eseguire imponenti dissodamenti con distruzione di ecosistemi naturali di foresta e di prateria e rilevantissime emissioni di gas a effetto serra (Burney et al.,2010; European Parliamentary Research Service, 2019).

Conclusioni
Con questo documento abbiamo risposto in modo puntuale e dettagliato agli elementi di critica presenti nel documento del Gruppo dei docenti per la libertà della scienza (Pacini et al., 2019) e relativi al nostro “Contributo tecnico-scientifico alla discussione” inviato ai Senatori il 9 gennaio u.s. (CTSD_2019).






Bibliografia
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Burney J.A., Davis S.J., Lobell D.B., 2010. Greenhouse gas mitigation by agricultural intensification, Proceedings of the National Academy of Sciences, p. 107, 12052-12057.
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Capper J.L., Cady R.A., Bauman D.E., 2009. The environmental impact of dairy production: 1944 compared with 2007, J Anim Sci. 2009 Jun;87(6):2160-7
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Kuhne S., Roßberg D., Rohrig P., von Mering F., Weihrauch F., Kanthak S., Kienzle J., Patzwahl W., Reiners E., Gitzel J., 2017. The Use of Copper Pesticides in Germany and the Search for Minimization and Replacement Strategies, Organic Farming, Volume 3, Issue 1, Pages 66–75
DOI: 10.12924/of2017.03010066, ISSN: 2297–6485Le Buanec B. (a cura di), 2012. Le tout bio est-il possible?, 90 clés pour comprendre l'’agriculture biologique, Ouvrage réalisé dans le cadre d'une étude financée par l'Académie d'agriculture de France, éditions Quæ, 293 pp.
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