di GABRIELE FONTANA
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Articolo uscito in origine su: www.spigolatureagronomiche.it |
Il prossimo anno ricorrerà il trentesimo anniversario della prima coltivazione commerciale di una pianta transgenica negli Stati Uniti, la soia tollerante i trattamenti con l’erbicida glifosate.
L’anno 1996, quando circa 400.000 ettari vennero seminati negli Stati Uniti, rappresenta quindi una data a suo modo simbolica nella storia dell’agricoltura, grazie all'introduzione di una tecnologia che ha certamente cambiato molto nella genetica vegetale e nella tecnica di coltivazione di specie di importanza fondamentale, come appunto la soia, il mais, il cotone, la colza, per citare le principali.
Volendo ripercorrere rapidamente le tappe che hanno portato a questo risultato, ovvero all’inserzione in una specie vegetale di un tratto genico proveniente da una specie sessualmente non compatibile, principalmente da batteri, potremmo cominciare ricordando che è agli inizi degli anni 1970 che venne ottenuta per la prima volta una molecola di DNA ricombinante, grazie all’uso di enzimi di restrizione. La ricerca proseguì, sia in ambito microbiologico che vegetale, ma il primo rilevante risultato si ottenne in campo medico con la produzione nel 1980 di insulina sintetica da una coltura con batteri geneticamente modificati, ovvero da OGM, per usare l’acronimo entrato nel linguaggio comune. Un’innovazione che ha cambiato la qualità di vita di milioni di persone.
In ambito vegetale i progressi ottenuti grazie alle prime tecniche di sequenziamento, all’utilizzo dei plasmidi e alle tecniche meccaniche per il trasferimento genico a livello cellulare, alla rigenerazione delle piante da colture cellulari, aprirono la prospettiva di un utilizzo pratico, nell’ambito della specie, conferendo alle piante caratteri non ottenibili con il miglioramento genetico convenzionale. Si puntò soprattutto sulla resistenza agli insetti, o altrimenti, come nel caso citato in esordio, sulla tolleranza al più diffuso tra gli erbicidi non selettivi, caratteri monogenici di più facile gestione. In realtà, per correttezza storica, il primo prodotto transgenico apparso sul mercato (tra il 1994 e il 1997) fu un pomodoro dove era stata inibita la produzione di etilene in modo da poter essere raccolto a piena maturazione e successivamente mantenuto integro prima del consumo. Proposto sia come fresco che destinato alla trasformazione, l’impatto commerciale fu trascurabile e rimase sul mercato pochissimi anni.
Gli Stati Uniti guidarono decisamente il processo, ma con significativi contributi dall’Europa, grazie anche alla capacità di integrazione tra ricerca pubblica e privata. Come nel caso delle ricerche condotte in Belgio all’Università di Ghent, che diedero origine alla società PGS, tra le prime ad ottenere un trasformante grazie ai plasmidi di Agrobacterium, un tabacco resistente agli insetti.
Nel frattempo, con lungimiranza, la Comunità Europea (non ancora Unione), individuate nelle biotecnologie un settore di sviluppo strategico, con due direttive del 1990 normò l’uso di OGM in ambito confinato e in caso di emissione nell’ambiente, quest’ultima direttiva poi aggiornata all’inizio del corrente secolo. La normativa sull’uso confinato è rimasta in vigore solo con qualche aggiornamento fino ai giorni nostri, ampiamente applicata nel caso delle produzioni industriali di farmaci, di enzimi e di prodotti di trasformazione di biomasse, come le bioplastiche. Ben diverso sarà il destino della normativa sull’emissione nell’ambiente, che vedrà una più radicale evoluzione. Nel 1994, dopo un iter alquanto travagliato, verrà pubblicata una ulteriore direttiva riguardante la protezione intellettuale dei prodotti biotecnologi, che senza intervenire sui fondamenti del diritto brevettuale, ne specificava le modalità di attuazione nell’ambito della biologia molecolare.
La vita difficile della ricerca pubblica in Italia
Mentre l’interesse industriale e gli investimenti crescevano sulle due sponde dell’Atlantico, cosa succedeva in Italia?
La ricerca italiana nell’ultimo decennio del XX secolo non rimase con le mani in mano, nonostante le strutturali difficoltà e la scarsità di risorse. Intelligentemente i progetti si orientarono verso colture di marcato interesse nazionale, lasciando alle società internazionali di occuparsi delle grandi colture.
Grazie agli allora “Istituti” del Ministero dell’Agricoltura, al CNR e alle Università vennero sviluppati diversi progetti che purtroppo non vedranno esito per le circostanze del momento, ma che comunque restano a dimostrazione della reale capacità operativa della nostra ricerca con gli strumenti tecnologici allora disponibili.
Senza la pretesa di elencare tutti, ricordiamo di seguito le diverse soluzioni messe a punto in questo ambito.
Diverse Università, il CNR, l’ENEA, gli allora “Istituti Sperimentali del Ministero dell’Agricoltura (poi riuniti nel CREA) si occuparono di resistenza agli insetti del pioppo, di solanacee e di uva apirene, di resistenza del pomodoro ai virus, della resistenza del limone al mal secco, sul portamento vegetativo, la resistenza alle avversità di fragola, ciliegio, actinidia e olivo,
Sono solo alcuni esempi, di fatto comunque la ricerca pubblica lavorò su un più lungo elenco di colture: cicoria, ciliegio, cocomero, colza, dimorfoteca, fragola, geranio, ginestrino, kiwi, grano, lampone, lattuga, mais, melanzana, melone, olivo, orzo, patata, pomodoro, riso, soia, statice, tabacco, vite, zucchine.
Negli anni ’90 la ricerca pubblica aveva trovato sostegno nel programma “biotecnologie” del Ministero dell’agricoltura, sotto la direzione di Francesco Salamini, ma successivamente nel 2000 l’avvento all’agricoltura del ministro “verde” Alfonso Pecoraro Scanio portò alla brusca interruzione di queste attività, grazie a una minacciosa lettera, in pratica una diffida, che intimò di porre fine alla ricerca nel campo della trasformazione genetica. L’iniziativa del ministro destò allora la protesta del mondo scientifico su impulso del premio Nobel Renato Dulbecco, sostenuta pubblicamente da circa 1500 ricercatori.
Esemplare e paradossale fu invece il destino dell’attività di ricerca diretta da Eddo Rugini presso l’Università della Tuscia. Ottenuta un’autorizzazione alla sperimentazione su base poliennale prolungata al 2009, trattandosi di colture arboree che richiedono valutazioni con tempi adeguai, alla scadenza venne presentata richiesta di proroga al Ministero dell’Ambiente, senza che la stessa avesse risposta. Le colture rimasero in campo finché il “Consiglio dei Diritti Genetici” nel 2012 non denunciò la situazione. La conseguenza fu un’operazione di “vandalismo di stato”, ovvero un’ordinanza di distruzione delle piante in sperimentazione che mise in opera la motosega.
Il Consiglio dei Diritti Genetici, poi evoluto in Fondazione, nacque nel 2002 su iniziativa di Mario Capanna, più noto per il suo attivismo politico che per le competenze scientifiche, e di altri attivisti reduci dalle prime battaglie anti OGM, formalmente con l’intento di sviluppare progetti di studio e informazione sulle biotecnologie. Tentò anche di sviluppare iniziative a favore della selezione assistita con marker genetici, con la pretesa che fosse alternativa agli OGM, ma principalmente diede vita a iniziative propagandistiche ed editoriali, perfino a un software di “sorveglianza” sulla diffusione degli OGM nel settore agroalimentare. Nonostante il forte supporto istituzionale dall’allora Ministero dell’ambiente, non ne rimane ora traccia apparente. A parte questo, certamente il loro risultato più rimarchevole fu proprio l’operazione di “delazione istituzionale” più sopra citata, cosa che non fa rimpiangere l’ipotizzata estinzione.
Difficoltà anche per la ricerca privata
Per quanto riguarda la ricerca privata in Italia, sempre negli anni ’90, grande attività sperimentale venne svolta dalle principali industrie sementiere internazionali, in parte su terreni di enti pubblici di ricerca e in collaborazione con essi. Vennero attuate prove riguardanti il mais resistente alla piralide e soia, mais e bietola tolleranti agli erbicidi, ottenendo risultati agronomici che se fossero mai arrivati in campo avrebbero costituito un indubbio vantaggio per l’agricoltura nazionale. Si pensi solo all’ipotesi di ridurre la presenza di micotossine nel mais, preservandole dalle lesioni causate dalla piralide su cui si insediano inevitabilmente le muffe. Nel 2004, una sperimentazione proprio su mais, intesa a confrontarsi con i risultati della ricerca privata, messa in campo grazie a Tommaso Maggiore dell’Università di Milano, fu l’ultimo esperimento che si poté effettuare in Italia.
Le sperimentazioni si svolgevano comunque, private o pubbliche che fossero, sulla base delle autorizzazioni del Ministero della salute, presso il quale, come autorità competente per l’attuazione delle normative europee, operava una commissione interministeriale designata allo scopo. Composta da veri esperti, vagliava le richieste di autorizzazione alla sperimentazione con intransigente rigore, ma con parallela volontà costruttiva, grazie alla quale decine di campi sperimentali si poterono attuare nei diversi areali agricoli nazionali.
Su quelle prove non si verificarono allora episodi di vandalismo, se non l’imbrattamento con vernice di un’area sperimentale presso Roma, dove venne riservata particolare attenzione alle parcelle “paleotecnologiche” che ospitavano una collezione di mais curiosi e antichi, messa nel sito sperimentale perché questo era destinato anche alle visite pubbliche. Ciò a dimostrazione delle competenze in materia dei volenterosi imbianchini.
Cambiano le norme, la ricerca finisce
Il 2001 vide l’aggiornamento della regolamentazione europea con una nuova direttiva relativa all’emissione nell’ambiente e il passaggio delle competenze al Ministero dell’ambiente, norme poi trasposte a livello nazionale nel 2003. Queste ultime prevedevano specifiche valutazioni aggiuntive sull’”agrobiodiversità” dell’ambiente italiano, modalità poi definite con un decreto del Ministero dell’agricoltura del 2005. Lo stesso anno vide la promulgazione di una legge che prescriveva la definizione a livello regionale di modalità di coesistenza tra colture convenzionali e transgeniche, contestata poi a livello costituzionale in quanto lesiva delle prerogative regionali e quindi vanificata. Inoltre, furono emessi due decreti del Ministero dell’agricoltura, uno specificamente dedicato alla sperimentazione, da attuarsi previa definizione di singoli protocolli coltura per coltura e l’individuazione di aree sperimentali dedicate a livello regionale. Un secondo era inteso a definire la modalità di importazione di campioni di sementi OGM destinate alla sperimentazione.
L’attesa dei protocolli ufficiali di sperimentazione, mai promulgati dal Ministero dell’agricoltura, delle aree sperimentali regionali e di fatto la messa in atto di ogni possibile ostacolo amministrativo alla sperimentazione, portarono alla cessazione totale di queste attività sul territorio nazionale. Stato di cose definito dai ricercatori nazionali “furbesco e ipocrita”. Mentre le società internazionali proseguirono senza problemi le sperimentazioni in altri paesi, la ricerca pubblica, salvo eccezioni che si spinsero fino in Cina, esaurì le proprie attività sul nostro territorio.
Paradossale di quegli anni fu anche il caso della “fragola-pesce”, campagna di disinformazione della Coop in tema di biotecnologie agricole basata sull’immagine di una fragola con il pennello centrale a forma di lisca di pesce, campagna ovviamente più destinata a suscitare allarme che a informare i consumatori. Anche questa vicenda si concluse in tribunale, con il riconoscimento delle ragioni dei ricorrenti che si ritenevano danneggiati dalla campagna della catena distributiva.
Per rimanere in Italia, un decreto della Presidenza del Consiglio del 2000 proibiva la coltivazione dell’unico mais – il MON 810 resistente alla piralide – approvato in Europa sulla base delle norme del 1990. La vicenda si concluse con il riconoscimento dell’illegittimità del provvedimento in sede di Corte di giustizia europea, ma di fatto a nulla valse all’atto pratico, perché venne ostacolato l’inserimento delle varietà nel registro ufficiale e vennero presi provvedimenti limitativi a livello locale. Contro questo stato di cose vanno ricordate le tenaci iniziative di due agricoltori friulani, Giorgio Fidenato e Silvano Dalla Libera, che forti della iniziale autorizzazione europea per il mais resistente alla piralide, lo seminarono più volte sui loro terreni, ingaggiando una lunga battaglia legale, durata anni, contro i tentativi di impedirlo.
Un bilancio amaro, ma il mondo va avanti
Il bilancio di quegli anni non può che suscitare amarezza. Certamente per il danno oggettivo a carico dell’agricoltura nazionale per quanto riguarda l’ipotesi dei potenziali vantaggi relativi a colture importanti come mais, soia e bietola da zucchero, con varietà adatte al nostro ambiente colturale che sarebbero potute rapidamente entrare in coltivazione, una volta inclusi i caratteri transgenici. Problema non solo italiano, ma comune a quasi tutta l’Unione Europea, con le poche eccezioni di Spagna, Portogallo, Repubblica Ceca. Anche queste nazioni hanno comunque dovuto limitarsi all’unico evento di mais approvato con la normativa ante 2001. L’impossibilità di raggiungere la maggioranza qualificata nelle procedure di autorizzazione UE per la coltivazione di ulteriori eventi ha portato di fatto a escludere l’Europa dall’innovazione e dai vantaggi insiti nelle colture OGM. Non solo, in evidente contraddizione con il principio di un comune spazio di mercato, una direttiva del 2015 ha previsto esplicitamente la possibilità per gli stati membri di escludere comunque la coltivazione sul territorio di competenza, non sulla base di considerazioni sulla sicurezza ambientale o sanitaria, ma di qualsiasi altra valutazione non scientifica. La direttiva fu rapidamente recepita dall’Italia, come prevedibile.
L’Europa ha comunque dovuto arrendersi alla sua dipendenza dalle importazioni di primarie commodity destinate all’alimentazione umana, ma soprattutto animale, come la soia, principalmente, ma anche il mais e la colza. Paradossalmente è stata esclusa la coltivazione, ma non l’importazione. La possibilità di utilizzare derrate di origine transgenica – la normativa non distingue tra destinazioni umane o zootecniche – dipende da alcuni regolamenti UE del 2003. Questi prevedono accurate valutazioni di sicurezza e una complessa procedura di approvazione, sempre in ritardo sul progresso tecnico per il prolungarsi dei tempi procedurali, ma alla fine attuata, a fronte di impossibili alternative economiche di approvvigionamento.
Infatti, queste colture ed altre (colza, cotone, papaia, medica, ...) hanno conosciuto una diffusione mondiale non omogenea, ma comunque ben affermata nelle maggiori aree di coltivazione delle principali commodity di circolazione globale. Distribuite nell’intero continente americano, ma anche in India, Cina, Australia e in alcuni paesi africani (trascurabile il citato apporto europeo) le superfici sono ormai stabilizzate intorno ai 200 milioni di ettari, presumibilmente un valore corrispondente a una condizione di saturazione dei mercati potenziali.
Di questa realtà hanno certamente goduto le società sementiere internazionali, che ovviamente agiscono sulla base di una visione incentrata sulle grandi colture e sui mercati globali, mentre non è stata riservata pari attenzione alle colture specializzate, orticole e arboree. Una logica ben diversa da quella della ricerca pubblica italiana, che fin dall’inizio si era orientata al sostegno delle colture più significative caratterizzanti la nostra offerta agroalimentare. Considerazione questa che va confrontata con il ricorrente argomento polemico in avverso, che vede qualsiasi apertura come un favore a esclusivo beneficio delle odiate “multinazionali”. Oppure con la tesi che verrebbe sottratta ai “contadini” la possibilità di usare i propri semi, ipotesi surreale che prescinde dal non essersi accorti che ormai da molti decenni l’attività sementiera si è specializzata e separata in autonomia dall’attività agricola ordinaria, come fornitrice agli agricoltori di mezzi tecnici qualificati.
Genome editing, il passo successivo
In questi quasi cinquant’anni di biotecnologie molecolari e trent’anni di pratica applicazione in agricoltura lo sviluppo scientifico e tecnico non si è però fermato alla transgenesi e alle sue applicazioni farmacologiche, industriali e nella coltivazione di commodity. I grandi progressi degli strumenti di conoscenza, la crescente velocità ed economicità del sequenziamento genico, la bioinformatica hanno aperto nuove prospettive. La ricerca italiana non è rimasta indietro, tanto che si è validamente distinta a livello internazionale proprio nel sequenziamento completo di importanti colture. Ma la vera svolta è determinata dal “genome editing”, che, a partire dalle tecniche iniziali, ha trovata compimento nel “CRISPR/Cas9”, protocollo operativo di intervento sul genoma la cui data di nascita può essere stabilita nel 2012 con la pubblicazione del lavoro di Jennifer Doudna ed Emmanuelle Charpentier che lo descrive. Alle due scienziate venne poi conferito nel 2020 il premio Nobel. Un passaggio nella capacità di operare sul genoma di un organismo che superava gli aspetti di casualità e imprecisione delle tecniche precedenti, dando la possibilità di intervenire con precisione prima impensabile in un locus ben individuato in precedenza. Con felice metafora il passaggio è stato paragonato alla facilità con cui si può intervenire a correggere un testo con un normale programma informatico, o altrimenti come il passaggio dalla chirurgia cruenta a quella robotica laparoscopica.
La relativa praticità ed economicità operativa del sistema, unita alla sua precisione, hanno ovviamente portato a considerarne l’applicabilità nel campo della genetica vegetale. Il genome editing consente di proseguire con mezzi più idonei il percorso della transgenesi, che ricorre a materiale genetico estraneo alla specie, ma anche quello delle tecniche convenzionali, aprendo prospettive nuove soprattutto quanto alla possibilità di utilizzare tratti genici della stessa specie vegetale; in questo caso si pala di “cisgenesi” e di mutagenesi mirata. Ottenere gli stessi risultati mediante le tecniche convenzionali di incrocio e selezione, anche nel caso di partire dalla mutagenesi indotta con mezzi chimici o fisici, richiederebbe in via ordinaria tempi molto lunghi e impegnative operazioni di selezione e di valutazione dei risultati, nella speranza che l’introduzione di un carattere desiderato non sia accompagnata da altri caratteri condizionanti negativamente il valore della varietà.
Anche in questo caso la ricerca pubblica italiana non ha perso l’occasione, sostenuta da un primo e ormai concluso programma di sviluppo “Biotech” del Ministero dell’Agricoltura, che opera attraverso il CREA, e da altre iniziative da parte di Università, del CNR e di enti come la Fondazione Mach di San Michele all’Adige. L’attenzione è stata rivolta al miglioramento della fisiologia vegetale, alle prestazioni produttive, alle caratteristiche nutrizionali e alla resistenza alle avversità biotiche e abiotiche, all’adattamento alle evoluzioni climatiche. Mantenuta anche la tradizione di rivolgersi a specie di particolare interesse per l’agricoltura nazionale, per altro non in modo esclusivo, visto l’interesse anche per il riso e altri cereali.
Si apre certamente una nuova stagione dove una delle prospettive più interessanti è quella, operando all’interno della singola specie, di mantenere le varietà già selezionate perfettamente integre nelle loro caratteristiche di valore, ma arricchendole nel contempo di nuovi caratteri. Si pensi al caso dei vitigni, giustamente uno dei campi di maggior attenzione da parte della ricerca italiana. Alla base vi è l’esigenza di mantenere integre le caratteristiche attuali, in modo da essere compatibili con i disciplinari di origine controllata, con l’obiettivo finale di renderle tolleranti agli attacchi di oidio e peronospora.
Siamo certamente ancora in una fase di iniziale sviluppo; anche a livello globale i prodotti sul mercato si limitano a una singola varietà di soia e una di pomodoro, per quanto il numero di ricerche in corso sia elevatissimo.
Dalla ricerca ai campi e al mercato
La ricerca, pubblica o privata, è sempre un investimento foriero di rischi, perché giungere al mercato con una soluzione potenzialmente di successo richiede una serie di passaggi, consueti per il settore industriale, ma per i quali gli enti di ricerca pubblici hanno bisogno di essere opportunamente sostenuti e attrezzati, a partire dalla protezione brevettuale. Passo successivo dopo la prima conferma di validità di una soluzione, è il trasferimento tecnologico (dalla ricerca al mercato) che, come la protezione intellettuale, resta problema aperto per la ricerca pubblica e che richiede l’ipotesi di una collaborazione pubblico-privato. Tutto risolto in radice con l’azzeramento della ricerca pubblica nei decenni scorsi, ma situazione che si ripresenterà nell’ipotesi che le ricerche attuali diano altri risultati di interesse. Inutile aggiungere che l’adeguato sostegno finanziario della ricerca, tasto dolente nel nostro paese, è ulteriore condizione necessaria, anche se non sufficiente.
Quali sono le condizioni per le quali anche in Italia l’agricoltura potrà in futuro accedere all’innovazione? Il quadro è complesso e molteplice. Ovviamente, in prima istanza, si deve sperare che gli iniziali incoraggianti risultati della ricerca si confermino effettivamente utili a livello produttivo, ma per questo è necessario poter liberamente sperimentare in campo.
Dato che, su base giurisprudenziale, è ormai appurato come la precedente normativa UE sugli OGM si debba applicare anche al genome editing, questo è il quadro legislativo dato in partenza al quale bisogna forzatamente adeguarsi. Un tentativo volenteroso di semplificazione è stato fatto a livello nazionale con un decreto del 2023 e questo ha consentito di portare in campo le prime sperimentazioni con riso e vite, sperando che con la corrente stagione 2025 altre se ne aggiungano. Nel contempo, a seguito di precedenti riflessioni durate anni, è pronto da tempo un progetto di regolamento UE che dovrebbe semplificare in modo più sostanziale, almeno per le modifiche geniche meno estese, le procedure per la messa in campo della sperimentazione. Purtroppo, le normative prevedono e prevederanno sempre di rendere pubblici i siti di sperimentazione. Si può apprezzare lo spirito di trasparenza, ma gli unici che ne hanno approfittato sono stati i volenterosi devastatori delle prime due prove da poco messe in campo in Italia. Distruggere le prove significa chiaramente evitare che se ne possano trarre eventuali esiti positivi e dimostrare quindi la validità del lavoro di ricerca. Le giustificazioni ideologiche sono altre, se vogliamo la difesa di un sistema agricolo più “naturale”, mentre la teorizzazione dell’azione distruttiva è esplicita e pubblica in testi di riferimento della galassia pseudo “contadina”. Oggettivamente, in termini giuridici, “istigazione a delinquere”. Operazioni che hanno avuto precedenti storici nella distruzione nel 2002 delle prove su fragola di Eddo Rugini (un destino ...) e nel 2018 delle serre del CREA a Tavazzano, ma attuazione recentissima nella vandalizzazione delle contemporanee prove su riso e vite.
L’accettazione sociale di una tecnologia è parimenti importante, specie quando riguarda la sensibile filiera che parte dall’agricoltura e finisce nel piatto del consumatore. Il profilo comunicativo sembra per ora più sereno, con un’informazione che appare più oggettiva ed equilibrata, anche se in parallelo sono partite nuove campagne di opposizione con lo slogan “no ai nuovi OGM”. In questa prospettiva ha un senso la denominazione del genome editing “adottata” dai ricercatori italiani, volendosi anche distaccare dal vecchio quadro narrativo “OGM": “TEA” (Tecnologie di Evoluzione Assistita), a significare che i risultati ottenibili sono sovrapponibili a quelli conseguibili con tecniche convenzionali.
Una considerazione finale
Vista a livello globale, la vicenda degli OGM in agricoltura si è rivelata un “fallimento” di grande successo ed è divenuta tecnologia matura, nonostante da trent’anni e tuttora sia costantemente annunciata (e smentita nei fatti) come una catastrofe per la salute, l’ambiente e l’agricoltura stessa. Per i ricercatori italiani è stata certamente occasione di delusione e frustrazione. Chi scrive ha citato solo alcuni personaggi ed episodi, ricostruendo la storia soprattutto sulla base dei vissuti ricordi personali, ma ha conosciuto tanti altri protagonisti, alcuni non sono più tra noi, cui sarebbe doveroso rendere omaggio. Una compagine di persone competenti, dedite con passione al loro lavoro, determinate e costanti di fronte a difficoltà e incomprensioni, ma soprattutto una testimonianza di grande umanità da cui prendere esempio.
L’accelerazione del progresso nel campo della biologia molecolare e della sua applicazione alla genetica vegetale stanno aprendo nuove prospettive e l’auspicio non può essere che i talenti di oggi, già evidenti e promettenti, non vadano di nuovo sprecati e un’altra generazione vada perduta. Dipenderà da molti fattori, una legislazione coerente e non limitante, un supporto economico adeguato, il ritorno degli investimenti, anche grazie alla protezione della proprietà intellettuale, la capacità di trasferire i risultati sperimentali a valle (dalla ricerca, allo sviluppo, fino all’applicazione pratica), un’informazione corretta nei contenuti e realmente orientata alla diffusione della conoscenza. Un auspicio che vuole essere di augurio e di speranza.
Gabriele Fontana
Laureato in Scienze Agrarie, ha svolto la propria carriera professionale nel settore delle tecnologie innovative per il settore agroalimentare e industriale, in particolare delle biotecnologie vegetali. Ha insegnato Economia e Legislazione delle Biotecnologie all’Università dell’Insubria.
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