EDITORIALE
di ERMANNO COMEGNA
SPIGOLATURE AGRONOMICHE N° 3 LUGLIO - SETTEMBRE 2025
Non ci sono alternative robuste al sistema agricolo moderno caratterizzato dalla presenza di un numero ridotto di imprese orientate al mercato, di medie e grandi dimensioni economiche, operanti generalmente con un alto livello di specializzazione e capaci di utilizzare in maniera razionale (c’è chi preferisce ricorrere al termine intensivo) i fattori della produzione per conseguire livelli accettabili di redditività, di competitività, di stabilità economica e di appagamento dello spirito imprenditoriale.
I modelli agricoli ad ampia diffusione fino agli anni ‘70 del secolo scorso sono uno sbiadito ricordo destinato ad un ulteriore ridimensionamento, perché chi fa impresa in agricoltura vuole comprensibilmente sfruttare a pieno i vantaggi della tecnologia, essere protagonista sul mercato e rendere agevole la vita personale, dei famigliari e dei propri dipendenti.
Sono tutte aspirazioni che, ove non soddisfatte, portano a scelte drastiche, come la rinuncia ad investire nel settore, opzione questa seguita negli ultimi anni da un numero elevato di imprenditori e come la decisione dei potenziali giovani agricoltori di rivolgere le loro attenzioni verso altri fronti. Ciò emerge distintamente dalla lettura delle statistiche ufficiali e dalla osservazione della realtà: tutti si saranno resi conto come i figli degli agricoltori per lo più si danno ad altri mestieri. I cambiamenti strutturali degli ultimi decenni hanno portato alla scomparsa delle piccole aziende agricole diversificate, dedite prevalentemente all'approvvigionamento del mercato locale, con prodotti a chilometro zero, come le uova, la carne, gli ortaggi e la frutta.
Quando guardiamo le statistiche di lungo periodo dell’Istat, ci rendiamo conto che l’attività agricola è andata sempre più concentrandosi, negli anni, verso i territori più produttivi, dove si verificano condizioni favorevoli per la coltivazione e l’allevamento. Nel 1921-1930, i seminativi coltivati in Italia erano 13,2 milioni di ettari. Con l’ultimo Censimento del 2020, si sono ridotti a circa la metà (7,2 milioni di ettari) e non sono venute meno certamente le aree irrigue di pianura. Oggi, meno di 300.000 aziende agricole coprono il 91% del valore della produzione agricola nazionale, occupano il 75% della superficie coltivabile, il 63% delle unità lavorative ed allevano il 97,5% del bestiame.
Tra il 1950 ed il 1960, 38 occupati su 100 attivi in Italia erano impegnati nei settori dell'agricoltura, delle foreste e della pesca, con una produzione che in buona parte finiva nelle mense dei consumatori, dopo pochi passaggi, se non in maniera diretta (dalla fattoria alla tavola). Oggi, la proporzione è di solo 3,6 lavoratori su 100 che sono quotidianamente impegnati per provvedere al fabbisogno alimentare e anche il più semplice prodotto agricolo compie diversi passaggi, prima di finire in cucina.
L’archetipo dell’agricoltura tradizionale, che segue approcci produttivi ideali, talvolta eroici, generalmente refrattaria alle innovazioni ed alla modernità, esiste ancora e talvolta si esprime con formule competitive di successo, intercettando i fabbisogni di specifici segmenti del mercato, circoscritti in termini di dimensione fisica ed economica, ma animati da convinzione, se non addirittura da ostinazione e pregiudizio.
Lo scritto di Luigi Mariani in ricordo di Bruce Ames si sofferma sulle conseguenze negative in termini di riduzione dei consumi di frutta e ortaggi, a seguito del risalto mediatico sugli ipotetici rischi legati ai residui di fitofarmaci. L’argomento del pregiudizio verso la chimica è affrontato diffusamente nel saggio di Silvano Fuso; mentre Anna Sandrucci riflette sul confronto tra pratiche agricole e zootecniche estensive (land sharing) e intensive (land sparing) e Flavio Barozzi si spinge oltre la pratica della denigrazione degli allevamenti intensivi che rappresenta solo una delle manifestazioni di ostilità ricorrenti nei confronti dell’agricoltura moderna e ci parla della criminalizzazione dell'agricoltura professionale e produttiva.
A proposito del pregiudizio verso la moderna zootecnia, sembra opportuno segnalare quanto scritto da Camillo Langone sul Foglio del 27 giugno 2025, in un articolo dal titolo “Chi è contro gli allevamenti intensivi non fa uso intensivo del cervello”, l’autore si sofferma su cosa significa allevare gli animali allo stato semi brado. “È un lavoro pesantissimo che porta un guadagno minimo, mentre gli stessi animali rischiano di essere attaccati e uccisi dai loro predatori. … gli allevamenti estensivi richiedono lavoro intensivo …. Chi vuole il bene degli animali vuole il male degli allevatori”.
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