venerdì 14 novembre 2025

LA TRATTORIA CANTARELLI: L’ATTUALITÀ DI UN MITO DELLA CUCINA ITALIANA

 di ALESSANDRO CANTARELLI 


Mirella Del Nevo (1927-1986) e Giuseppe -”Peppino” Cantarelli (1919-1992), immortalati alla fine degli anni Settanta del secolo scorso mentre sorreggono una bella sfoglia all’uovo emiliana, dalla quale ricaveranno superbi tortelli o tagliatelle per la delizia dei loro clienti. Ai tempi della loro attività, era possibile per Peppino girare per le case e corti della bassa parmense alla ricerca dei migliori salumi “casalini” (termine dialettale per indicare i salumi da ricavati da maiali allevati e macellati in proprio, quindi le uova fresche da utilizzare in cucina per le più svariate preparazioni. A differenza di oggi, con l’evoluzione delle normative sanitarie che non permettono più di impiegare, nella ristorazione, materie prime prive di tracciabilità e/o ottenute con processi ritenuti non pienamente sicuri dal punto di vista microbiologico, come è ad es. il caso dell’impiego –vietato- del burro ottenuto da panna non pastorizzata. Immagine da: Da Salarelli A. I Cantarelli, op. cit.,2013.


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Il miglior ritratto di quella che è stato universalmente riconosciuto, negli anni sessanta e settanta del novecento, uno dei massimi “templi” della ristorazione italiana, ce lo offre il giornalista Baldassare Molossi (1927-2003) nel capitolo del libro curato da Alberto Salarelli I Cantarelli. Storia e mito della cucina italiana (prima ed. 2013). Il Molossi, già direttore del quotidiano Gazzetta di Parma dal 1957 al 1992, dal 1983 delegato di Parma dell’Accademia Italiana della Cucina, in risposta a un lettore della Gazzetta che gli scriveva del come sarebbe interessante, il potere ricordare ai più giovani la nascita e lo sviluppo di quello che è stato un vero e proprio “mito” nel piccolo villaggio di Samboseto, nel comune di Busseto (lo stesso comune che diede i natali anche a Giuseppe Verdi e Giovannino Guareschi), nel cuore della operosa Bassa parmense, così scriveva:

Caro amico,
grazie dello spunto che mi offre per parlare dei coniugi Peppino Cantarelli e Mirella Del Nevo, contitolari (lei in cucina, lui in sala) del mitico Ristorante Cantarelli. Mitico per una serie di ragioni che qui di seguito mi provo ad elencare. Intanto, il posto, molto suggestivo, sperduto com’era nel deserto della Bassa.
Per chi arrivava dall’autostrada, d’inverno in un mare di nebbia e d’estate con un’afa mozzafiato, era come entrare in una favola, in una magia.
Una costruzione anonima e grigia, un’insegna semplice. Superata la soglia (con il bancone delle cose di uso corrente a destra e, a sinistra, il frigorifero), si entrava nel regno delle fate. La toilette era fuori dell’uscio, in cortile.
Ma dentro, un’apparecchiatura di gran classe, con pochi tavoli in due salette separate e con i bicchieri adatti per ogni tipo di vino. La cucina era superba, ma il fiore all’occhiello di Peppino Cantarelli era la cantina.
Conteneva i migliori vini d’Italia e di Francia; gli Champagne più prestigiosi; e meravigliosi superalcolici. Ma in tavola serviva anche un vinello bianco frizzante, a prezzo onesto, che lui chiamava “il mio Champagnino” e che proveniva dalle botti dei fratelli Bergamaschi, a un tiro di schioppo da lì, dopo la curva.
Mentre la moglie Mirella era relegata ai fornelli, il buon Peppino aveva un modo affabile e seducente per trattare il cliente, che poi incantava con un culatello sublime, cui seguiva un perfetto Savarin di riso; e poi ancora: faraona al cartoccio, l’anatra al cognac, il tacchino alla crema, la lepre in salmì e via elencando.
Il nome di Cantarelli era famoso in Italia e nel mondo. Quelli che contano, i Vip, ci sono passati tutti. Io ci ho visto Guido Carli, Robert De Niro e tante altre stelle del cinema; ci sono stato a colazione con i celebri gastronomi francesi Gault e Millau, autori della guida che porta i loro nomi; e personalmente vi ho accompagnato Peppino De Filippo, il quale –ricordo- ordinò per il suo cane un filetto senza un filo di grasso.
Giovanni Ansaldo, all’epoca direttore del “Mattino” di Napoli, nel 1962 in visita a Parma, così me ne scrisse: “Caro Molossi, anche a me è spiaciuto di non poterla vedere. Ma non potevamo trattenerci. Verdi ci attendeva. O meglio pure ci attendevano i cappelletti in un posto di campagna che si chiama…si chiama…aspetti: si chiama Sambosè (…). Le focaccette, fritte sulla faccia del cliente e mangiate lì, straordinarie” (le “focaccette” erano probabilmente l’umile torta fritta).
Negli anni ’50 e ’60, grazie a Cantarelli in campagna, grazie all’”Aurora” della signora Margherita e allo “Stiliano” di Ettore Bonazzo, la cucina parmigiana era ai vertici della ristorazione italiana (…)”
Chiarisce al riguardo nello stesso libro il sociologo e giornalista Giorgio Triani, che il termine “mitico” riferito a Peppino Cantarelli (il quale si era schernito quando dopo un pranzo o una cena, si era sentito attribuirglielo), vada inteso nel senso vero del termine, non in quello abusato oggi. Ossia colui che appare dotato di qualità straordinarie o fornisca prestazioni eccellenti.
D’altra parte, chi altro è se non mitico un “oste di campagna” che di passaggio per Baccarat in occasione di un tour vitivinicolo, acquista un vagone ferroviario di bicchieri, caraffe e presse papiers di cristallo finissimo per il suo ristorante di Samboseto?
Oppure colui che se ne ritornò dalle tenute dei Rothschild, con una cassa di Chậteau Mouton-Imperial del 1961 pagata nel 1964 ben 48.500 lire, o dalle cantine portoghesi di Sandeman con oltre ottanta casse di Porto di annate comprese fra il 1820 e il 1937?
Mitico il ristorante Cantarelli di Samboseto lo è soprattutto perché non esiste più. Aggiunge sempre il prof. Triani: “come Greta Garbo si ritirò al culmine del successo, chiuse i battenti nel momento in cui la sua stella, o meglio le sue due stelle Michelin brillavano alte e splendenti (le tre stelle Michelin saranno assegnate in Italia dal 1986, n.d.r.).
Era il 31 dicembre 1982: Peppino e Mirella Cantarelli (lei in cucina, lui ai salumi e vini), uscivano volontariamente di scena dopo 35 anni di un lavoro comune iniziato nel 1948. Quando freschi sposi trasformarono uno spaccio, una salumeria dei genitori di lui in un ristorante”.
La storia dei giovani coniugi Cantarelli che subentrano alla mamma di lui signora Ines nella gestione della trattoria di famiglia, con la passione per i viaggi (considerando i mezzi e la viabilità di allora, dove non c’erano i navigatori gps di oggi!), dai quali tornavano con nuove idee (e nuovi prodotti da proporre in bottega, così come i pregiati vini e distillati anche per i clienti della trattoria), gli stage in Francia di Peppino fino ad allora considerata indiscusso centro della migliore enogastronomia mondiale, la lettura delle riviste di cucina da parte di Mirella, seguita da mesi e mesi di prove e variazioni sui piatti con il severo esame di entrambi…, fanno di questa gloriosa insegna, a tutti gli effetti, una start up ante litteram dell’intero panorama enogastronomico nazionale.
Il giornalista e gastronomo Marco Guarnachelli Gotti (1932-2003), narra che il negozio di sale, tabacchi, vini e alimentari prevalesse nettamente sul modesto retrobottega culinario.
Tuttavia prosegue il Guarnaschelli Gotti, “l’intenditore che osservasse gli scaffali affollati del negozietto minimo e vedesse sbucare tra Sali, tabacchi e coppe il salmone affumicato di Barnetts, il whisky di malto di Bruchladdich, i paté di Strasburgo e le marmellate scozzesi (un piccolo Fortnum & Mason, è stato definito), capirebbe di trovarsi di fronte a qualcosa di insolito”.
Tuttavia la vocazione perfezionistica di Peppino viene riportato, iniziò a svilupparsi non soltanto con la raccolta stagionale dei migliori culatelli ma, cercando l’assoluto nei formaggi, nei prosciutti, nelle spalle cotte e crude e in questo sperduto angolo della Bassa parmense –siamo alla fine degli anni Quaranta! -, stupisce ancora oggi il pensare alla comparsa delle prime bottiglie di vino “dai nomi magici”: Chambertin, Musigny, Pomerol, Montrachet.
Peppino verso la fine degli anni Settanta, dopo i Cognac e gli Armagnac, affronta i Rhum, e piano piano seleziona e si assicura i migliori: i Barbancourt “Reserve du Domaine”, i rarissimi Reserve Veronelli, il fior fiore della produzione di Portorico, della Colombia, del Venezuela.
Va anche ricordato il perfezionamento, sempre a opera di Peppino, di due “vini della casa”: il “bianco secco da antipasto” (un taglio segreto con Riesling e Trebbiano) e la famosa Scorzamara, un lambrusco migliorato oggi denominato Scorzanera, perché il primo nome è nelle denominazioni della provincia di Mantova. In questo confermando che i grandi ristoratori non disdegnano per nessun motivo i prodotti del territorio nel quale operano.
Con la sua celebre lepre in salmì, Peppino era fermo nel consigliare un Barolo Pio Cesare o un Barale d’Alba.
Quindi se un cliente voleva bere bene senza dovere spendere un patrimonio, egli lo indirizzava verso un Corvo di Salaparuta anziché un Ravello Gran Caruso, vini di “corpo”, ben fruttati e degni sostituti dei vini francesi.
Tranne rare eccezioni, prima di Cantarelli nei ristoranti e trattorie del Paese la domanda di prammatica che si rivolgeva ai clienti era: bianco o rosso? Grazie anche alla “scuola” di Cantarelli invece, inizia a diffondersi e prendere piede la cultura di abbinare ai vari piatti i giusti vini, che non necessariamente debbano corrispondere ai più costosi.
Mentre gli anni Sessanta sono per Cantarelli quelli dell’affermazione, gli anni Settanta sono invece quelli del trionfo.
Nel ’61 Peppino compie il primo viaggio in Inghilterra cui ne seguiranno altri in Scozia; sarà lui il primo a fare conoscere in Italia il Glenlivet, portabandiera dei malti, quindi il Glenmorangie, il McCallan, il Cardhu, il Laprhroaig, il Bruchladdich.
Sono viaggi di assaggio e di istruzione: egli vi scopre le delizie di Barnetts, le sorprese del formaggio Stilton in un negozietto in Jeremy Street, e di quello impastato al porto di Fortnum & Mason.
Invece la signora Mirella alla domanda se non si fosse pentita del ritiro dai fornelli alla fine del 1982, ella rispondeva che tra il negozio da mandare avanti, la casa con i tre figli e l’alzarsi tutti i giorni alle 6 per lavorare fino a mezzanotte, quindi il passare a fare i conti, mentre il giorno di chiusura veniva dedicato a mettere tutto a posto, ebbene dopo 35 anni di onorata attività, avendo avuto grandi soddisfazioni, era giunto il momento di ritirarsi. Senza lasciare eredi.
A conclusione del trionfo, il ritiro, come per i campioni del mondo che si sanno amministrare.
Non si può non osservare a questo punto la grande differenza di Mirella Del Nevo Cantarelli -lei sempre dietro ai fornelli della sua trattoria-, con alcuni grandi chef stellati (Michelin e non) del giorno d’oggi, i quali sono spesso distanti dai loro fornelli perché impegnati in convegni, trasmissioni televisive e social, quand’anche addirittura nella gestione di più locali. Esseri ubiquitari che lasciano la responsabilità dei fornelli a pur bravissimi e fidati collaboratori, del cui nome però non compare traccia sullo “stellato” (di zeri, dopo il primo decimale) scontrino finale.
Confermando quanto detto in precedenza dal Molossi, Guarnaschelli Gotti riporta che il gastronomo francese Christian Millau, portato da Cantarelli da un gruppo di amici, dapprima dubbioso, si sciolse poi in entusiasmo per piatti quali il vitello ai carciofi e quello ai funghi. Ma sempre Mirella aggiunge che in quegli anni erano nati altre prelibatezze, quali il sufflè di lingua, la lingua alle olive e la lingua in salsa piccante.
Quindi la zuppa di cipolle gratinata, la faraona ripiena ai funghi, e poi le mousse: di prosciutto, di tonno, di pollo, alle mandorle. E i dessert? Torta di mandorle, mousse di cioccolata e poi un capolavoro, la torta fredda al croccante di mandorle.
Sono piatti sostanziosi (anche dal punto di vista calorico), quanto superbamente cucinati ed eccellenti al palato, di immediata comprensione e senza troppi “fronzoli”. Alcuni di questi piatti divenuti celebri quando non addirittura dei veri e propri must, sono a base di frattaglie (es. lingua, fegato) o cacciagione.

A sinistra alcuni dei mitici piatti fotografati nel 1966 per l’articolo di P.M.Paoletti sulla rivista Panorama (riportato nel testo): si notano tra gli altri il Savarin di riso, l’anatra all’arancia, la padellata di maiale nella teglia di cotto, i tortelli alla parmigiana e due bottiglie di Château francesi. A destra Peppino intento nella sua bottega ad affettare il culatello. Da Salarelli A. I Cantarelli, op. cit.,2013).

 

Le frattaglie identificate come cibo povero, oggigiorno ingrediente di ricette ormai dimenticate, pur interessanti sotto il profilo gustativo e nutrizionale come ci ricorda il prof. Giovanni Ballarini dell’Università di Parma, furono elevate dai Cantarelli all’alta gastronomia.
Ben lungi il menù di Cantarelli da quelle “esperienze sensoriali” e dai piatti dai nomi altisonanti (numerosi e dispensati in sequenza), con rimandi francesizzanti, ottimamente impiattati ma se considerati singolarmente di sostanza abbastanza modesta, che vengono attualmente proposti in alcuni ristoranti stellati.
Quando si ha a che fare con il cibo, la forma si vorrebbe che fosse anche sostanza.
Non sfugge nemmeno all’osservazione del lettore che attualmente nella proposta dei ristoranti (e pizzerie) d’Italia, non mancano praticamente mai secondi piatti dai tagli pregiati quali filetto e tagliata.
Invece Cantarelli era arrivato a raggiungere l’olimpo della gastronomia con le due stelle Michelin, si può affermare anche grazie alla proposta delle frattaglie in menù. Oggigiorno sono praticamente sparite dall’offerta ristorativa (non mancano ovviamente lodevoli eccezioni), in quanto il consumatore esige tagli più “fini”, quanto più costosi.
Per arrivare a vedere la fiorentina di “Chianina” cucinata e servita in piazza nelle sagre paesane, come quella patronale della vicina Fidenza (Pr) in anni recenti, ovviamente “innaffiata” dai blasonati rossi DOC o DOCG. Si è così passati dalla mistica della “ricerca dei cibi genuini e perduti” di Mario Soldati e Luigi Veronelli, all’edonismo consumistico dei tempi attuali, ma viene da pensare che anche Corrado Tedeschi del Partito Nettista Italiano, quello che nel programma elettorale del 1953 prometteva 450 grammi di bistecca pro-capite al giorno, di fronte a tanta abbondanza rimarrebbe comunque impressionato.


La metamorfosi dei tempi che cambiano, con il culatello che non è solo quello “supremo” ostinatamente ricercato e premiato tutti gli anni dall’Arciconfraternita presso la Rocca del principe Meli Lupi di Soragna, quanto servito ai severi giudici in uniforme da cavaliere su vassoi d’argento con riccioli di burro, ma anche quello proposto sulla pizza.
Si assiste al fenomeno della massificazione o banalizzazione di quelle specialità territoriali che una volta erano appannaggio dei ricchi.
Il giornalista e scrittore Pier Maria Paoletti (1924-1995), in un articolo pubblicato su Panorama (nel febbraio 1966), dal titolo eloquente: “Cantarelli”, nel tratteggiare la storia della mitica trattoria osservava che ai primi clienti capitati lì per caso, piacque moltissimo l’idea di bere vini francesi in una osteria di campagna.
Così la fama del locale, senza alcuna campagna pubblicitaria, senza un’insegna, si diffuse poco a poco col sistema più penetrante (ed economico) della testimonianza diretta.
È il figlio Fernando Cantarelli a rievocare nel volume di Salarelli alcuni clienti della trattoria.
L’industriale Pietro Barilla aveva un tavolo sempre riservato (e portò in trattoria per diverse sere gli americani della Grace durante la fase di cessione del pacchetto di maggioranza alla sua azienda), quindi Montezemolo e Agnelli.
Delle attrici ricorda Silvana Pampanini a Franca Valeri, come la grande soprano Renata Tebaldi (fu memorabile nella storia del canto lirico la “competizione” con Maria Callas, con accese “tifoserie” di melomani e critici musicali a favore dell’una oppure dell’altra cantante, a parità di opera lirica interpretata, n.d.a.).
Tra gli scrittori Mario Soldati, che con il suo reportage fece conoscere Samboseto in tutta Italia, Cesare Zavattini, Giuseppe Ungaretti e Giovannino Guareschi (il celebre autore di don Camillo e Peppone, del Mondo Piccolo, era infatti della vicina Roncole Verdi).
Indimenticabile nella storia della trattoria, a metà degli anni Settanta, il periodo in cui il regista Bernardo Bertolucci girava il film Novecento nella limitrofa campagna di Roncole, presso la corte dell’azienda Le Piacentine. L’intera troupe passerà un intero anno presso i tavoli di Cantarelli: capitavano senza orari (la troupe arrivava quando le riprese erano terminate) e senza limiti: una portata dietro l’altra, piatti sbafati, riordinati e sbafati, confida il figlio di Peppino e Mirella.
Donald Shuterland e Laura Betti avevano scoperto, quasi per caso, una vera passione per il fegato di vitello agli aromi.
Quindi Dominique Sanda, Gérard Depardieu che curiosava in cucina chiedendo come si fa questo e come si fa quello…
Se “la cucina italiana non esiste”, riprendendo il titolo del libro (2024) di Alberto Grandi e Daniele Soffiati, che senso ha ripercorrere l’epopea di Cantarelli?
Ha senso eccome, invece.
I due autori introducono il fenomeno dell’invenzione della tradizione, con la narrazione sulle mitiche origini dei nostri presunti piatti tipici, facendosi sempre più integralista, intransigente e ottusa.
La cucina italiana, come tutte le cucine del mondo è frutto di incroci e contaminazioni. Così come l’identità a tavola tende a variare attraverso il tempo, contestualmente ai cambiamenti sociali, economici e culturali.
Appare quindi totalmente falso lo storytelling, come a volta capita di leggere sui giornali o riviste, che in Italia ogni piatto abbia origini centenarie se non millenarie, spesso e volentieri riconducibili ai nostri artisti, poeti, santi e navigatori.
Pertanto concludono Grandi e Soffiati, la nostra tradizione culinaria è in larga parte un’invenzione recente.
Risulta a questo punto opportuno ritornare all’esempio dei Cantarelli; il loro capolavoro esemplare e paradigmatico fu il Savarin di riso. Il Savarin (dal nome del celebre cuoco francese Anthelme Brillat Savarin), è uno stampo circolare con cupola arrotondata e un buco al centro –corrispondente all’utensile che si usa per il dolce a ciambella-. Mirella trovò la ricetta su una rivista di cucina e ne rimase colpita, ma tutto questo ovviamente non bastava.
Passarono molti mesi, spiega il giornalista Enrico Chierici ne I Cantarelli e con Peppino (che per la sua competente pignoleria era soprannominato “il chimico”, ma anche per la capacità di analizzare e indicare una soluzione), nei quali furono proposte numerose varianti e al riguardo ci furono molte discussioni, ma alla fine “il chimico” esigeva che il risultato fosse esemplare. Era, come riporta Guarnaschelli Gotti il 1960/61.
Verso il 1968 l’anitra al vino rosso, ma riporta Mirella, “più o meno in questo periodo nasce lo sformato di riso giallo coi piselli e funghi, i cappelletti alla panna, i gnocchetti al gorgonzola, le sfogliatelle di ricotta in forno”.
Anche l’anatra all’arancia, altro piatto must della celebre trattoria, rimanda direttamente alla cucina francese, con l’antenato canard à l’orange.
Osservano non a caso Grandi e Soffiati, che il tratto distintivo della cucina italiana di oggi è l’innovazione, non la tradizione. Risulta quindi essere “una cucina molto più giovane di quanto non si creda, il caso, più unico che raro, di un soggetto che vuole apparire più vecchio di quanto non sia in realtà”.
La cucina italiana negli ultimi decenni e dopo il boom economico, ha conosciuto un’evoluzione straordinaria che continua ancora oggi.
Il boom economico ha rappresentato la vera rottura con un passato caratterizzato da un modello alimentare povero, dove soprattutto al Nord il cibo imperante sulla tavola attorniata da bocche numerose era essenzialmente la polenta. Le migliorate condizioni economiche dell’Italia hanno permesso al modello alimentare italiano di arricchirsi e diversificarsi.
È l’Italia della trasmissione Carosello (1957-1977) trasmessa dalla RAI, che diffondeva -e imponeva-nuovi modelli alimentari e nuovi ingredienti, che venivano progressivamente incorporati nella cucina degli italiani. Il racconto e la realtà si sostenevano a vicenda.
Non ha senso, quindi, ammalarsi di gastroregionalismo o addirittura -come fosse una nuova religione laica- di gastronazionalismo, per dirla con Michele Fino, autore con Anna Claudia Cecconi del libro “Gastronazionalismo” (2021).
Pertanto il gusto italiano come lo si intende oggi, si forma nel ventennio che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta del secolo scorso, che corrisponde al periodo d’oro dell’economia italiana.
Per creare un gusto e un piacere quotidiano dello stare a tavola, per prima cosa servono gli ingredienti quindi i soldi per acquistarli.
In quel ventennio il benessere aumenta, le industrie agroalimentari propongono sempre nuovi prodotti, i supermercati si diffondono, le mode americane prendono piede, il turismo diventa di massa e così via.
Osserva Alberto Salarelli che “la cucina italiana di quel tempo, e cioè di quando i Cantarelli iniziarono la propria attività, era una cucina che stava progressivamente “sregionalizzandosi”: il linguaggio gastronomico della nazione non veniva formandosi dalle peculiarità locali (come aveva fatto Artusi) ma sulla base delle esigenze dell’industria alimentare, impegnata nella creazione di una platea di consumatori il più possibile omogenea dal Trentino alla Sicilia.
Il 1954 è l’anno dei “maccaroni” di Nando Mericoni (l’indimenticabile protagonista del film Un americano a Roma di Steno): la pasta conclude il suo percorso di italianizzazione iniziato cento anni prima e anche il risotto sta progredendo velocemente in tal senso.
In quel medesimo anno nasce L’Accademia Italiana della Cucina, accolita di intellettuali capitanati dal giornalista Orio Vergani nel segno di una riscoperta dei piatti caratteristici e tradizionali contro la progressiva standardizzazione del gusto italico.
I Cantarelli erano fin da subito sintonizzati su questa lunghezza d’onda”.
Tuttavia osserva sempre il Salarelli, “la cucina dei Cantarelli riuscì a sfuggire dai rischi della dittatura dei piatti tipici, veicolatori di pratiche gastronomiche fortemente reazionarie, tese cioè all’idealizzazione di usi e costumi spesso inventati di sana pianta, grazie ad una propensione, che divenne sempre più spiccata nel corso degli anni, verso la ricerca e la sperimentazione”.
Peppino e Mirella per questo non caddero negli equivoci delle nuove cucine, pur cogliendone gli stimoli d’innovazione e cambiamento; si tenga presente gli stessi critici gastronomici Gault e Millau (gli autori della celebre guida), che pure visitarono Cantarelli –lo si riportava in precedenza-, dettarono nel 1973 il decalogo della nouvelle cuisine.
Osservano quindi Grandi e Soffiati come gran parte della nostra gastronomia e dei nostri leggendari prodotti alimentari, siano nati dopo il boom economico. É stato riportato nelle righe precedenti come molti dei favolosi piatti che componevano il menù di Cantarelli, siano stati creati proprio in quel periodo.



























 

 

 


Bibliografia

Ballarini G. Frattaglie bovine e nutrizione umana. Ruminantia, 06/07/2021. Disponibile su: https://www.ruminantia.it/frattaglie-bovine-e-nutrizione-umana/
Ballarini G. La Cucina Riscoperta. Ricette di frattaglie e carni dimenticate. Accademia Italiana della Cucina, Delegazioni della provincia di Parma, Gazzetta di Parma Editore, Parma, 2013.
Grandi A., Soffiati D. La cucina italiana non esiste. Bugie e falsi miti sui prodotti e i piatti cosidetti tipici. Mondadori, Milano, 2024.
Grandi A. Denominazione di Origine Inventata. Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani. Mondadori, Milano, 2018.
Padovani C, Padovani G. Italia Buon Paese. Blu Edizioni, Stargrafica, San Mauro (Torino), 2011.
Salarelli A. (a cura di). I Cantarelli. Storia e mito della cucina italiana. Accademia Italiana della Cucina, Delegazioni della provincia di Parma, Gazzetta di Parma Editore, Parma, 2013.

Video
Trattoria Cantarelli 1957-Mario Soldati.flv https://www.youtube.com/watch?v=WnlpPRw1md






Alessandro Cantarelli
Agronomo. Ha lavorato nelle associazioni professionali agricole e nella formazione professionale in agricoltura. Dal 2005 lavora presso il Servizio Territoriale Agricoltura, Caccia e Pesca di Parma e Piacenza della Regione Emilia Romagna.
   


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