lunedì 16 marzo 2015

Autonomia alimentare, dipendenza, solidità dell’export

di Antonio Saltini



Dario Casati, economista agrario, già preside della Facoltà di agraria di Milano quindi prorettore dell’Ateneo della capitale lombarda, riconosciuta autorità sui dati dell’interscambio, valuta la nostra autosufficienza equivalente, oggi, all’80%, frutto felice della consistente caduta dei consumi alimentari, che hanno contenuto un disavanzo da decenni ondeggiante attorno al 75%. Sottolinea, peraltro, l’assoluto non-senso della comparazione del deficit di derrate agricole ai successi (passati) delle esportazioni alimentari, siccome i primi detengono un’autentica importanza strategica per gli equilibri di una società, i secondi sono soggetti a tutte le variazioni di moda e abitudini di consumo, cui le perle dell’export italiano aggiungono tare intrinseche praticamente irreparabili.
Chi scrive ricorda i decenni in cui il deficit “agroalimentare” sfidava quello petrolifero: un incubo. Poi le superspecialità italiche hanno pagato tutte le derrate che ci
annoiasse produrre: Petrini & c. ne hanno dedotto una filosofia storico-gastronomica, sfatata, nel 2014, rileva Luigi Mariani, per la prima volta, dai 7 miliardi di deficit dell’interscambio: anche i clienti più ricchi limitano, pare, le visite alle boutique italiane della Fifth Avenue.

Le nostre deficienze si concentrano sempre più sulle fondamentali derrate di base
, mentre il nostro export si impernia sui vini e su prosciutti e formaggi, che sempre più produciamo con materie prime di importazione. Mentre eravamo il paese dalle più elevate rese maidicole europee, quindi persino in grado di esportare, importiamo il 25% del mais e la quasi totalità della soia destinata al nostro bestiame, senza i quali il nostro allevamento sarebbe paralizzato. Il nostro mais è, peraltro, indifendibile dai patogeni. Tutti gli assessori delle regioni maidicole sanno, ma non riconoscono, che sono sempre più frequenti le annate in cui quantità immense debbono essere distrutte perché inquinate dai patogeni che potrebbero essere esorcizzati solo dalle varietà o.g.m. dotate di meccanismi di immunità.
Per sostituire il mais che destiniamo, qualche assessore dichiara vantaggiosamente, alla produzione elettrica, compriamo quanto serve a vacche e maiali da paesi che importano, secondo voci insistenti negli ambienti del trading, sementi o.g.m., ma garantiscono, certi dell’inconsistenza dei controlli, essere o.g.m. free. I prodotti che esportiamo sono, quindi, in parte larghissima ricavati da mais e soia o.g.m, e possiamo solo attendere il giorno in cui la multinazionale che voglia sottrarci il mercato estero del Parmigiano e del Parma finanzi la grande campagna mediatica contro “la grande menzogna italiana.

La “grande menzogna italiana” prevenuta, fino ad oggi, con i mezzi da repubblica del luna-park: nessun giornale ha voluto affrontare lo scandalo del mais inquinato a Parma, non è trascorso un anno, con decine di presidenti di caseificio inquisiti perchè i soci avevano somministrato alle proprie mucche il mais aziendale contenente tossine per qualche punto superiore alla normativa. Nel 2012 comprare falso mais o.g.m. free da paesi operanti all’ombra ci è costato, in media, 22 euro/quintale, contro i 20 $ (al tempo 14,7 €) del mais dichiaratamente o.g.m. di Chicago. La menzogna costava 7,3 € al quintale, una cifra tale da espellere dal mercato qualunque zootecnia. E’ comprensibile che allevatori costretti a svendere il mais aziendale a prezzo di trucioli forestali e ad acquistare falso o.g.m. free a prezzi astronomici abbia rischiato somministrando quello aziendale, fuori legge per pochi nanogrammi. Le manette, moralmente, sarebbero state da imporre all’assessore regionale del caso.

Eravamo, trent’anni addietro, il primo esportatore europeo di ortofrutta: oggi import ed export di ortaggi si confrontano attorno al valore equivalente di un miliardo, con un vantaggio di 100 milioni a favore dell’export. Una resistenza maggiore dimostra l’ortofrutta, seppure gli esperti più autorevoli, quali il prof. Sansavini, siano assolutamente pessimisti sul futuro, mancando, da anni, qualunque impegno per il rinnovamento tecnologico della gamma frutticola che proponiamo, sempre più inadeguata di fronte a quella dei produttori asiatici.

Per il latte l’autosufficienza nazionale equivale al 68%, in termini di latte liquido, del fabbisogno. E’ peraltro noto che parte cospicua del 32% importato viene illegalmente immesso anche nei prodotti tipici, che è quindi destinato ad entrare nel ciclone dello scandalo dell’”imbroglio italiano” che qualuno farà esplodere domani, dopodomani o il giorno dopo. Una signora che vanta i titoli di una delle maggiori acquirenti di specialità italiane, responsabile in Italia di uno dei giganti dell’agribusiness mondiale, mi assicurava, dieci anni addietro: “Tutti sanno che non siete più in grado di produrre le materie prime delle vostre produzioni di eccellenza, tanto meno di controllare quelle che importate. E tutti conosciamo il valore del business dei vostri salumi e formaggi sui mercati più ricchi. Aspettiamo solo che qualche grande società acquisti le apparecchiature a Parma, stipendi dieci agronomi senza lavoro in Italia e produca, nelle pianure sudamericane, prodotti identici, garantendo origine e genuinità della materia prima, a metà prezzo dei vostri.”

Concludo ricordando che nel 1979 pubblicai un profilo dell’agricoltura nazionale misurando il sbilancio del nostro interscambio agroalimentare in termini di ettari: siccome era in corso, da Palermo a Trento, la più furiosa, e incontrollata, occupazione dei campi aratri per erigervi ville, villini e villette, mi chiedevo quanto spazio sarebbe stato necessario per produrre sulla Penisola quanto importavamo dalle pianure francesi, nordamericane e argentine. Le importazioni corrispondevano a 4.300.000 ettari, contro esportazioni ricavate da 1.640.000 ettari (A. S., Processo all’agricoltura, Edagricole 1979, Presentazione di Giovanni Marcora). Per produrre quanto importiamo, oggi, tra difficolà crescenti, su mercati sempre più instabili e inaffidabili, quanta terra ci occorrerebbe? I tempi che mi sono stati consentiti per stilare questa nota non mi consentono di ripetere il computo analitico, ma siccome abbiamo accresciuto la nostra dipendenza in tutte le colture di pieno campo si deve reputare che il nostro deficit “territoriale” si sia alquanto esteso. Non produciamo più, ad esempio, zucchero, ci manca un quarto del mais, in certe annate il deficit di frumento da pane supera il 35% del fabbisogno. Luigi Mariani computa la superficie necessaria ai prodotti importati proponendo, come attuale, la cifra di 3,7 milioni di ettari: la medesima stimata da chi scrive nel 1979.


Non ha calcolato quanta terra impegnamo per esportare. Se la cifra corrispondesse alla realtà, si dovrebbe sottolineare, peraltro, che non avrebbe più senso contrapporle la superficie impiegata per i prodotti che esportiamo: la superficie maggiorre per i prodotti esportati è coperta da vigneti: dalla Valtellina all’Agrigentino un colle sassoso può produrre vino eccezionale, ma, il giorno che il vino non fosse più la primadonna del nostro export, l’alternativa non sarebbe che il pascolo di qualche manipolo di capre: pochi litri di latte. Personalmente non mi sorprenderebbe che, a un esame assolutamente dettagliato mancasse un milione ulteriore di ettari: mentre, per assicurarsi i voti dei fans di Petrini e Vandana Shiva, gli assessori all’agricoltura continuavano a proclamare menzogne per nascondere l’esistenza di mais immuni ai parassiti produttori di tossine mortali (ma, sfortunatamente, o.g.m.), i loro colleghi all’urbanizzazione hanno continunato, molto più concretamente, a firmare “varianti” che convertivano pianure intere in distese di capannoni per industrie che l’anno seguente sarebbero fuggite in Cina o in Turchia.




Antonio Saltini
Docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e vita. E' autore della Storia delle Scienze Agrarie opera in 7 volumi.
www.itempidellaterra.com




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