lunedì 19 ottobre 2015

L’EXPO delle soluzioni utopiche e delle contraddizioni sull’agricoltura

di Albero Guidorzi


La parola d’ordine dell’EXPO è “il cibo per tutti”. Chi non può essere d’accordo su un tale obiettivo? Solo che i “come fare” proposti vanno in senso contrario e non sono per nulla risolutivi; anzi sono molto demagogici se analizziamo chi sono gli 86 “ambasciatori”.

Expo, sul Decumano il grande mercato dello scenografo premio Oscar
Dante Ferretti. Casse di frutta, verdura e maiali finti! Foto - F. Marino
Cominciamo da chi ha proposto il tema, vale a dire l’Italia o meglio i sedicenti “maitres a prenser” che hanno influenzato, anzi direi coartato, i decisori politici. Come può un paese che ha portato la sua agricoltura allo sfascio ergersi a capofila di chi insegna a produrre cibo? Come può un paese che fa del suo produrre cibo solo un affare di specialità culinarie per ricconi sfondati e salutisti danarosi insegnare ai popoli in via di sviluppo e poveri, cioè dove vi sono ancora grandi sacche di povertà e di affamati, come produrre carboidrati, proteine e grassi a sufficienza? La fame si combatte prima con la disponibilità di queste sostanze, poi con la capacità di comprarle e solo tanto tempo dopo con i modi più salutari e di gusto di assemblarle.
Dicevo dello sfascio della nostra agricoltura, ma il cittadino comune sa che l’Italia importa più del 50% di ciò che mangia e il suo Made in Italy è fatto per una buona fetta da derrate importate, quindi non “made”? Sa che la nostra dipendenza alimentare dalle importazioni non è mai stata così elevata? Il cittadino comune sa inoltre che il tendere il più possibile all’autosufficienza alimentare è sempre stato uno dei pilastri delle strategie politiche di un paese? E a proposito del cibo per tutti, sa che noi, quale paese sviluppato, divenendo sempre più importatori di derrate alimentari concorriamo ad escludere popoli molto più affamati di noi dall’accesso al cibo conveniente per le loro tasche?
Possiamo proprio affermare che non siamo un “pulpito” da cui possa provenire una “predica” credibile.
Pomposamente all’EXPO si è stilata la “Carta di Milano” che è il documento programmatico sul diritto al cibo e che si fonda su quattro direttrici:
quali modelli economici e produttivi possano garantire uno sviluppo sostenibile in ambito economico e sociale quali tra i diversi tipi di agricoltura esistenti riusciranno a produrre una quantità sufficiente di cibo sano senza danneggiare le risorse idriche e la biodiversità quali siano le migliori pratiche e tecnologie per ridurre le disuguaglianze all'interno delle città, dove si sta concentrando la maggior parte della popolazione umana come riuscire a considerare il cibo non solo come mera fonte di nutrizione, ma anche come identità socio-culturale.
Ora senza entrare nel dettaglio dei quattro punti, perché porterebbe via troppo tempo, vorrei soffermarmi sulla seconda direttrice, dove le soluzioni date spaziano dalla “decrescita” nei paesi sviluppati, cioè laddove si produce cibo in abbondanza ed in sovrappiù, proponendo qui lo sviluppo di agricolture di tipo biologico o addirittura biodinamico notoriamente poco produttive, oppure dalla generalizzazione delle aziende agricole famigliari nei paesi in via di sviluppo, ed anche in Italia se si ascoltasse la Coldiretti.

A quest’ultima soluzione poi si da l’ipocrita valenza di essere una forma di organizzazione agricola capace di sfamare il mondo. Queste sono le risposte più insensate che si potevano dare e ciò per due motivi: a) se le volessimo generalizzare nei paesi sviluppati, appunto per realizzare la decrescita, calerebbe talmente la disponibilità di cibo sul mercato che in poco tempo si passerebbe non ai 700 milioni di affamati attuali, ma nell’ordine dei miliardi, con conseguenze catastrofiche per il pianeta. Ricordo che solo la fame ha sempre convinto un uomo della “giustezza” di ucciderne un altro! Non è una soluzione, ma un compromesso temporaneo, quella di suddividere il frugale pasto con un altro se non sfama nessuno dei due.
Inoltre si vorrebbe giustificare la decrescita nella produzione di cibo per il fatto che vi sono milioni di persone, laddove si produce molto cibo, che mangiano troppo e male, come se quando si mangiava poco e male anche da noi lo stato di salute delle popolazioni fosse stato migliore di quello odierno. E’ un fatto di educazione alimentare che non ha nulla a che vedere con l’abbondanza del cibo a disposizione! Alla stessa stregua i maggiori sprechi di cibo sono a livello individuale e di nucleo famigliare e purtroppo sono irrecuperabili a differenza di quelli della ristorazione e della distribuzione, ma che si torna a ripetere non sono le quantità maggiori dello spreco. Quindi portare all’attenzione gli sprechi di cibo è solo populistico e non obiettivo, non solo ma a guardar bene i maggiori sprechi di materia prima per fabbricare cibo avvengono proprio nei luoghi dove manca.
Possibile che non si sia capaci di guardare alle cifre? Nel 1950 eravamo circa 2,5 miliardi sul pianeta e vi era oltre un miliardo di persone alla fame, Oggi siamo in 7 miliardi e le persone alla fame, secondo i dati ONU, sono un po’ più di 700 milioni. Ecco questo è il dato che ha fatto da molla per inventare le soluzioni anzidette, mentre a mio modesto avviso si dovevano analizzare i dati da un punto di vista diverso: innanzitutto che gli affamati dal 1950 ad oggi (vale a dire lasso di tempo della tanto vituperata rivoluzione verde) sono passati da un 40% circa di 70 anni fa ad un 10% di oggi. Certo sono ancora troppi anche perché poi vi è da considerare tutta la gradazione di alimentazione che ci sta in mezzo, vale a dire i 2 miliardi di sottonutriti. Tuttavia non può passare inosservato, come si tende infingardamente a fare da parte dei facitori di opinione attuali che popolano le tavole rotonde dell’EXPO, che l’agricoltura che abbiamo saputo organizzare e sviluppare ha sfamato 4,8 miliardi di persone che, assieme agli attuali affamati, si sono aggiunte ai 1,5 miliardi del 1900 che mangiavano. Dicevo all’inizio degli 86 ambasciatori dell’EXPO nominati, ebbene sapete quanti di coloro afferiscono al mondo dell’agricoltura? Sono “zero”. Vi sono per contro 25 persone dello sport, 21 dello spettacolo, 14 dell’arte culinaria (mia nonna ha sposato un vedovo con 5 figli solo perché aveva il granaio e la dispensa piena e non certo perché aveva una stufa o un camino) e 9 sono gli stilisti e poi così di seguito con conoscenze del tutto avulse dallo specifico settore agricolo.


Dobbiamo, però, andare a vedere come abbiamo fatto a sfamarli, perché anche questo dato è interessante per capire. Li abbiamo sfamati aumentando la produttività solo in certe parti del mondo che poi hanno venduto il cibo a chi non ne aveva. E’ un meccanismo perverso che ha molti lati negativi come ad esempio la messa fuori mercato delle agricolture meno produttive e l’uso del cibo come strumento di potere e di sopraffazione. E’ un meccanismo quindi che ci fa dire che non è ripetibile per ancora molto tempo in quanto, se da una parte l’aumento oltre misura della produttività sempre negli stessi ambienti non è sopportabile da quegli ecosistemi, dall’altra non vi è lungimiranza nel pensare che si possa perpetuare un sistema socio-politico dove da un lato stanno i venditori di cibo e dall’altro i compratori di cibo, e per giunta obbligati. Occorre che si sappia anche che la via dell’aumento della terra coltivabile è uno strumento ormai spuntato perché ben poco possiamo ricavarne. Per convincersi basta riflettere sul fatto che la popolazione dal 1950 ad oggi è passata da 2,5 a 7 miliardi (con 9 miliardi previsti per il 2050) mentre la superficie agricola è passata solo da 1,3 miliardi di ettari a 1,5 miliardi e per il 2050 è previsto solo un leggerissimo aumento. Da ciò risulta un dato incontestabile, val a dire che dai 5300 metri quadrati di terra agricola a disposizione di ogni abitante del pianeta del 1950 si è calati ai 2100 odierni che diverranno solo 1600 nel 2050. E questo con la FAO che ci ammonisce che che nel 2050 la disponibilità di cibo dovrà essere accresciuta del 55% rispetto ad oggi.

Quindi se vogliamo che nel 2050, quando saremo 9 miliardi di persone (per l’80% localizzate in Asia e Africa e per giunta spesso inurbate), non succeda il “finimondo”, abbiamo bisogno di progettare in tempi brevi una nuova organizzazione dell’agricoltura definendo anzitutto con chiarezza dove e come produrre il cibo. E qui ahimè sembra che la storia non ci abbia insegnato nulla.

Se percorriamo a grandi linee la storia dell’agricoltura evinciamo che

  1. la fase iniziale del “taglia e brucia”, l’unica possibile su un pianeta coperto da foreste, poteva tornare sullo stesso terreno solo dopo 50 anni pena la deforestazione, come in realtà è avvenuto e che è stato calcolato producesse in totale 10 q di “equivalente cereali” (0,2 q/ha) e poteva dare sostentamento alle 5 persone (2 q a persona) che servivano alla messa in coltura e successiva coltivazione; inoltre è la fase che è durata più a lungo e che ha determinato l’impatto ambientale maggiore;
  2. il post-deforestazione ha portato a “forme idroagricole” nelle vallate dei maggiori fiumi del pianeta (es: Tigri ed Eufrate) che hanno fatto salire la produzione di cibo ai livelli di 10 q/ha di equivalente cereale, permettendo così il sostentamento di 300 persone a kmq. Anche in questi casi tuttavia l’abuso dell’acqua portò piano piano ad una minore fertilità per aumento della salinità dei terreni;
  3. nella zone a clima temperato si instaurò invece un tipo di agricoltura che definiremo “sistema agrario ad incolto con attrezzatura leggera” fondato sulla coltivazione di cereali con sistema pluviale (incolto per 15 mesi, 9 mesi di cereali autunnali o incolto per 20-21 mesi e 3-4 mesi di cereale primaverile) e associato allo sfruttamento della pastorizia. In una zona temperato-calda a media piovosità per sfamare una famiglia di 5 persone occorreva disporre di 6 ettari di “ager” e di 9 ettari di “saltus”, da concimare durante l’incolto con gli animali allevati, ma che si nutrivano anche con almeno un ettaro di “silva”. In totale siamo di fronte ad una esigenza di superficie/famiglia di 16 ettari (6+9+1) ed ad una densità di popolazione sopportabile di 30 abitanti per kmq. Si tratta della tipica agricoltura romana che si stima producesse 3 q/ha di frumento come massimo. In climi più secchi le superfici dovevano raddoppiare rispetto ai valori sopra riportati. E’ un’agricoltura questa praticata nel Mediterraneo fino all’anno 1000 e che ha sostenuto la civiltà greco-romana;
  4. nella transizione fra alto e basso Medioevo assistiamo ad una agricoltura sempre ad incolto, ma cambia l’attrezzatura che da leggera diventa pesante, con la generalizzazione dell’aratro a vomere-versoio per infossare la cotica del saltus e uso del carro a ruote per procurare alimenti al bestiame necessario. E’ l’agricoltura delle zone temperate centro europee del Nordovest. La rotazione diventa triennale e non più biennale, la produzione aumenta (si raddoppia in equivalente cereale). Pertanto la densità di popolazione, immaginando un bisogno di terra di 9 ettari in totale (3 ha di terra arabile, 2,25 ha di prato falciabile e 3,5 ha di foresta) può arrivare a 55 abitanti per kmq. E’ però un tipo di agricoltura che esclude i climi più a nord (dove gli inverni sono troppo rigidi) e quelli mediterranei per la piovosità insufficiente. Comunque il dato di fatto è che all’aumento di popolazione di questo periodo non ha corrisposto un adeguato aumento di produzione agricola e quindi sono i secoli dove si annoverano le maggiori carestie e di conseguenza le maggiori epidemie;
  5. è solo con la prima rivoluzione dei tempi moderni che le carestie cominciano a calare, ma non certo a sparire. Essa è consistita nel trasformare l’incolto da luogo di vegetazione spontanea a luogo coltivato con semine di graminacee e leguminose foraggere. La rotazione divenne prima triennale e poi pluriennale per l’inserimento di leguminose da granella, rape e le nuove piante arrivateci dal Nuovo Mondo, In questo modo la rotazione triennale si trasformò in copertura dei campi con una produzione raccoglibile per 32 mesi;
  6. la seconda rivoluzione verde si fonda su questi pilastri:                               motorizzazione, meccanizzazione,  fertilizzazione minerale, protezione da malerbe/parassiti/patogeni, miglioramento genetico delle piante e specializzazione. Si tratta dell’agricoltura della seconda metà del secolo scorso e che ha contribuito a sfamare tutti gli abitanti del mondo sviluppato creando altresì i surplus produttivi che sono andati a sfamare parte dei popoli sottosviluppati, sebbene permanesse una larga fetta di sottonutrizione in molti paesi in via di sviluppo e persistesse la fame nei paesi più poveri. Se consideriamo per semplicità solo le aziende cerealicole, riscontriamo che queste sono passate dai 50 ettari ai 200 e le rese sono passate dai 5 ai 100 q/ha di equivalente cereale con una produzione lorda/lavoratore oscillante tra i 2500 ed i 20.000 q e dunque compresa tra le 25 e le 200 volte la produzione lorda/lavoratore dell’inizio del XX secolo (10 ha x 10 q/ha = 100 q).
Ora cosa si dovrebbe ricavare da questa estrema sintesi? L’agricoltura è riuscita a raggiungere le varie tappe che abbiamo visto solo nella misura in cui essa ha prodotto sia cibo per gli addetti, che cibo da porre sul mercato anche per poter finanziare la dotazione dell’azienda di innovazioni che per essere ripagate dovevano servire per coltivare più terra. In altri termini, quando l’azienda famigliare man mano è divenuta azienda capitalistica (intesa qui come golosa di capitali e non certo nell’accezione socio-politica corrente) allora si è prodotto più cibo.
Ecco, il fatto gravissimo è che in EXPO è passato il messaggio che si potranno sfamare 9 miliardi di persone con il ritorno all’azienda famigliare che come massimo può aspirare all’autosufficienza se gli eventi atmosferici non si mettono di traverso. Non dobbiamo dimenticare che un evento incombente è il cambiamento climatico (e smettiamo di dire che è solo colpa dell’uomo) che potrebbe spostare la produzione di cibo da un continente all’altro, privando l’uno e favorendo l’altro; qui se non corriamo ai ripari nel creare piante più adattabili ai cambiamenti, oltre alla carenza vi saranno da affrontare migrazioni bibliche. Ora, se quella delle aziende familiari non è una soluzione utopica io non so davvero come chiamarla. Certo, per certe aree geografiche il passaggio ad una maggior generalizzazione dell’azienda familiare sarà una tappa da percorrere, ma a queste aree si dovranno dare due possibilità:
  • escludere temporaneamente dalle regole della mondializzazione dei commerci le zone a preminente agricoltura famigliare, altrimenti la nostra sempre maggiore produttività per unità di superficie si rifletterà negativamente sui loro prezzi e quindi saranno disincentivati a produrre;

  • far godere loro delle innovazioni necessarie in modo che l’agricoltura di quelle zone evolva nel senso sopraddetto e possa permettere man mano di sostentare il flusso di popolazione che obbligatoriamente si inurberà. Perché obbligatoriamente? Per il semplice fatto che la terra diverrà insufficiente anche per far mangiare chi la lavora e quindi espellerà addetti, ma che dovranno pur sempre mangiare pur risiedendo nelle metropoli.
Ma la nostra storia recente non ci ha insegnato nulla? Quante riforme agrarie abbiamo messo in atto nel secolo scorso in Italia? Ebbene andiamo a vedere cosa sono divenute: esse sono state la manna caduta dal cielo per la generazione che aveva patito la fame ed aveva ricevuto il podere, ma sono poi divenute la “prigione” per la generazione successiva, che immancabilmente ha abbandonato l’unità poderale, artificiosamente costruita a misura famigliare.
Inoltre si vorrebbe “vendere” la tesi che l’azienda familiare è l’unica forma di agricoltura sostenibile, quando invece le deviazioni di oggi sono solo il frutto di una applicazione troppo egoistica delle innovazioni e non certo di un passaggio obbligato. In futuro infatti si potrà benissimo fare un’agricoltura produttiva e sostenibile alla cui base sarà come sempre l’innovazione tecnologica, il cui finanziamento deriverà dai surplus derivanti dalla vendita dei prodotti sul libero mercato.
E qui si può concludere rammentando che il cibo non diverrà solo una mera fonte di nutrizione ma anche un segno d’identità socio-culturale nella misura in cui nella “dispensa” ve ne sarà a sufficienza.

 

Alberto Guidorzi
Agronomo. Diplomato all' Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureto in Scienze Agrarie presso UCSC Piacenza.  Ha lavorato per tre anni presso la nota azienda sementiera francese
Florimond Desprez  come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente   ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.

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