venerdì 17 marzo 2017

Quali piante erbacee mangiavano i Romani - Prima parte


di Alberto Guidorzi
                                                                           
                                                                                                                              Riassunto
Questo lavoro illustra le principali specie erbacee (cereali, legumi, ortaggi, piante aromatiche), che erano alla base della dieta degli antichi romani.
La conclusione è che quantunque i romani antichi avessero una dieta molto vicina a quella oggi indicata come alla moda e molto sicura da parte dei media, la loro aspettativa di vita non superasse i 25 anni, che dovrebbe dare un più elevato livello di apprezzamento per gli oltre 80 anni di l'aspettativa di vita dei cittadini italiani d’oggi, nonostante la crescente diffidenza per il cibo di cui si nutrono. 

Abstract
This work analyses the main species of herbaceous crops (cereals, pulses, vegetables, aromatic plants) that were at the base of the diet of the ancient Romans.
The conclusion is that although the Romans had a diet very close to that today indicated as the most pure and safe by the vast majority of media and anchormen, their life expectancy did not exceed the 25 years, which should give an higher level of appreciation for the life expectancy of the present day Italian citizens which overcome 80 years despite the growing distrust of the food they eat.
Introduzione
In epoca antica e repubblicana i vegetali erano la base della alimentazione quotidiana dei Romani mentre l’alimentazione carnea aveva un ruolo secondario ed era almeno in parte legata ai sacrifici rituali di animali. Tuttavia con il passaggio dalla Repubblica all’Impero la frazione carnea della dieta aumentò specialmente nelle classi agiate e inurbate, mentre lo fu meno nelle classi plebee, anzi vi furono carni destinate all’aristocrazia (cacciagione e pesci) e carni mangiate dalla plebe (maiale). E’ in quest’epoca che si coniò la locuzione fruges et pecudes. I primi sono i prodotti della terra, mentre i secondi sono le carni di animali, compresi i pesci, selvatici o allevati. Non solo, ma se per i Romani la frugalità (vocabolo derivato da fruges appunto) è stata sinonimo di virtù, con il tempo essa è diventata sinonimo di rusticità campagnola e quasi di rozzezza; l’uomo civilizzato non poteva campare solo di fruges! Ah come noi discendenti attuali stiamo invertendo il concetto romano affermatosi con il tempo: oggi il vegano o addirittura il vegetaliano vorrebbe rappresentare l’elite rispetto a chi si nutre di pecudes che, invece, lo si vuol far diventare simbolo della totale insensibilità verso l’ambiente. Dobbiamo anche dire che il prandium e cena, i due pasti principali dei romani, rappresentavano i due modi di alimentarsi ed estrinsecavano la dicotomia tipicamente romana tra frugalità e sregolatezza, tra alimentazione e piacere, tra bisogni dello stomaco e bisogni della gola, tra “pranzo solitario riflessivo e convivialità; durante il secondo elemento della dicotomia predetta faceva la parte del leone la carne. Potremmo assumere a simbolo di questa dicotomia il confronto fra la descrizione che Petronio nel Satyricon ci offre della cena in casa del liberto Trimalcione e l’affermazione di Orazio nelle Odi “me pascunt olivae, me cichorea levesque malvae” (per me sono sufficienti un po’ di olive, della cicoria ed un po’ di malva).

Organizzazione dell’agricoltura romana
Per avere un quadro più completo della dieta alla luce delle fonti di cibo occorre rifarsi all’organizzazione agricola classica che era impostata sull’ager o campo coltivato, sul saltus o area mantenuta incolta ed in parte in rotazione con l’ager e sull’hortus che inizialmente fu una dotazione del ceto popolare come ci conferma Plinio il quale scrive che era dall’orto che il popolo traeva gran parte delle provviste. Successivamente con l’urbanizzazione e il miglioramento delle vie di comunicazione si formarono orti specializzati come quelli di Ostia che rifornivano ad esempio di porri Roma o il litorale ravennate da cui arrivavano gli asparagi che tanto piacevano ad Augusto al punto da coniare il detto secondo cui i suoi ordini dovevano essere eseguiti tanto velocemente quanto il tempo di cottura degli asparagi. Infine esisteva la silva per la legna, la selvaggina e la raccolta di vegetali selvatici.
L’ager era destinato alle coltivazioni essenziali come il frumentum, che comprendeva tutti i cereali (orzo, miglio; farro, frumento duro ed anche tenero, con questi ultimi tre che spesso crescevano mescolati) e non solo, perché vi coltivavano anche ad esempio il sesamo i cui semi si mescolavano con l’impasto del pane ed anche dei legumina, ossia piante leguminose per ricavarne semi indispensabili alla dieta per le proteine che contenevano. I legumi conosciuti dai Romani erano principalmente la fava (faba), il pisello (pisum), la vecciola (vicia ervilia), la lenticchia (lens o lentilla), lupino (lupinus), il cece e la cicerchia (cicer). Anche il lino (linus) era coltivato per mangiarne i semi e per il tiglio. Apicio considerava una prelibatezza anche la farina di ghiande o gli (Trigonella foenum-graecum). Come ben si sa i Romani non conoscevano i fagioli che conosciamo noi oggi, per loro il phaseolus era la vigna unguiculata (detto anche oggi fagiolo dell’occhio) che era comunque esotica come lo erano il sesamo ed il miglio. Spesso i cereali erano mangiati sotto forma di puls (polente), come zuppe, di cui noi conserviamo ancora degli usi dati dalle zuppe di farro tipiche del nostro Appennino e oggi riportate in auge, oppure d’orzo (in Friuli ad esempio si mangiano ancora e si usa l’orzo perlato, cioè privato dei rivestimenti esterni), oppure torrefatti ed infine panificati ed a questo proposito forse essi ci superavano in tipi di pane. Infatti La civiltà greca, tramite i suoi contatti con l’Egitto, apprese la tecnologia del fare il pane e vi apportò sensibili miglioramenti. Quando poi dal secondo secolo a.C. la Grecia passò a far parte di Roma, il monopolio della panificazione nella città restò nelle mani degli immigrati greci che furono anche gli artefici di pani speciali. Nell’antica Grecia erano annoverati ben 70 tipi diversi di pane secondo la forma, tipo di cottura, ingredienti, tipo di cereale e uso che se ne faceva (cerimonie e culti). Già nel 363 a.C. lo scrittore greco Dinias pontifica sulla qualità del pane è dice tra l’altro che era stato perfezionato in Sicilia da Théarion. Nell’impasto i fornai greci residenti a Roma inserivano delle verdure e delle erbe aromatiche, delle spezie, e della frutta d’ogni sorta. A Roma esistevano i seguenti tipi di pane: panis cibarius (pane scuro e poco costoso), panis secondarius (pane integrale) panis autopyrus (pane scuro fatto con farina non setacciata), panis siligeneus (pane bianco di grano tenero), panis psirthicus, pane spugnoso, panis alexandrinus, pane cotto agli spiedi; panis picenus (pane cotto in un involucro d’argilla che si rompeva nell’atto del servirlo), panis bucellatus (pane biscottato), panis ostearus (adatto per accompagnare i pasti con le ostriche). Infine vi era la categoria dei pani inglobanti ingredienti diversi come il panis streptipcius, che era un impasto a cui si aggiungeva latte, olio, strutto e pepe ed era cotto sotto forma di fogli sottili, il panis artologalum che era una sfoglia di pane servita come antipasto, il panis adipatus che era condito con lardo e pancetta, cioè l’adipe del maiale, il panis testicius che era il pane piatto e di pronta preparazione consumato dai legionari nei loro trasferimenti e che sembra essere l’antenato della “piada” romagnola e perché no, anche della pizza. Il nutrimento simbolo del cittadino-soldato era il pane. Esisteva perfino il “pane da cani” (panis furfureus) che era di crusca (noi oggi di questo cibo per cani ne abbiamo fatto un elemento salutistico, forse Apicio riderà di noi…)) e il pane d’orzo che era il cibo degli schiavi.
Il saltus invece oltre ad essere luogo di pascolo e stanziamento notturno degli animali, era anche luogo di raccolta delle verdure: cyma in primavera (in massima parte crucifere selvatiche), caules in estate, autunno ed inverno, holus (foglie). Certamente il saltus era proprio della campagna e non della città ove invece vi erano gli hortus inseriti all’interno della recinzione delle case di abitazione.

Classificazione botanica dei vegetali orticoli mangiati dai Romani intorno a I sec. d.C.

Vediamo di tracciarne una rassegna tenendo sempre conto che in questo contesto vale la massima del “beneficio d’inventario”.

RADICI
e BULBI 
Sappiamo che i romani mangiavano napus, cioè le rape (Brassica rapa var. rapa) e che esso era un cibo diffuso, infatti la sua conservabilità durante la stagione fredda ne faceva un alimento insostituibile per zuppe o per crudità mangiate con sale e olio (in-salata, modo di condire trasferito poi a tutte le verdure crude a cui aggiungevano anche l’aceto ed il garum di cui noi conserviamo il ricordo nella pasta d’acciughe). Non dimentichiamo che i 10 cromosomi di Brassica rapa unitamente ai 9 della B. oleracea sono alla base della filogenesi delle crucifere oggi coltivate. Altra brassicacea conosciuta e coltivata è il rafano (rafanus) nelle sue due forme bianca, ossia il “cren” (Armoracia rusticana), e nera (Rafanus sativus). Assieme a questa si coltivava la pastinaca (Pastinaca sativa) che i romani denominavano staphilinus o pastinaca e la carota, tanto cara all’imperatore Tiberio unitamente al Sisaro (Sium sisarum). Pastinaca e carota sono due Apiacee, come apiacea era quella che i romani chiamavano holus atrum, oggetto di raccolta spontanea e che oggi conosciamo come macerone o corinoli comune o prezzemolo alessandrino (Smyrnium olusatrum). In inverno queste tre apiacee servivano per fare zuppe.
Sicuramente, vista la crescita ubiquitaria, i romani conoscevano la ghianda di terra (Cyperus pallidus) mentre è incerto il fatto che coltivassero la salsefica (Tragopogon porrifolium), di cui, però, siciramente si nutrivano. Incerto è anche il fatto che mangiassero la barba di becco (Tragopogon pratensis), oppure la castagna di terra (Lathyrus tuberosus) tutte raccoglibili nel saltus o nella silva; come pure è incerto che mangiassero l’inula (Inula helenium), ma di certo la facevano macerare nel vino per ricavarne un bevanda eccitante, tanto è vero che ancora oggi fa parte delle erbe che compongono l’assenzio. Per quanto riguarda le piante ad effetto eccitante occorre citare una liliacea come il muscari (Muscari comosum, oggi noto come lampascione) i cui bulbi secondo Varrone, potevano essere: “cotti nell’acqua da coloro che volevano entrare nella porta dell’amore, oppure da includere nel pasto di nozze sotto forma di insalata con pinoli, rucola e pepe; appunto per il loro effetto afrodisiaco”. Note ai romani erano anche la cipolla e il porro, che erano comunque considerate specie esotiche. In particolare il porro era prediletto da Nerone.

GERMOGLI
In primavera era il periodo della raccolta dei germogli e dei capolini fiorali nel saltus o nella silva: l’asparago (aspragus e cornuda); i cavoli (cyma o quello che loro chiamavano “asparago di cavolo” che poi sono divenuti i nostri broccoli); il finocchio marino o spacca sassi (Crithmum maritimum e che i romani chiamavano isatis), ancora oggi usato nelle Marche come verdura che accompagna il pesce; il luppolo (Humulus lupulus, che i romani chiamavano Lupus salictarius o homulus), che noi mantovani chiamiamo “bruscandoli” (in dialetto “luartis”) e ci facciamo il risotto; l’orobanche (cynomorium come dicevano i Romani) che con varie specie parassitizza le leguminose e non solo) assomiglia molto all’asparago ed è ancora oggi consumato ad esempio nel barese ove prende il nome di “sporchia”. Non possimo poi dimenticare la cardogna comune o cardo giallo (Scolymus hispanicus) di cui ancora noi mangiamo i ricacci carnosi, le radici carnose e i fiori (e qui soprattutto per colorare i cibi scimiottando lo zafferano). Esso contiene inulina e le radici nei periodi di penurie erano torrefatte e macinate per farne infusi tipo caffè, in Algeria mangiano anche le nervature delle foglie private delle spine come accompagnamento al cous-cous. Da ricordare infine i giovani ricacci (perché la pianta sviluppata è velenosa) di Tamaro (Tamus communis) ed i giovani germogli di pungitopo ( Ruscus aculeatus) mangiati lessati come gli asparagi (successivamente, quando conoscemmo il caffé anche i semi di questa pianta furono torrefatti per farne infusi succedanei di questo). Per inciso ricordo che il nome di pungitopo deriva per il fatto che proprio i Romani mettevano rametti di pungitopo nelle dispense credendo che la loro spinosità allontanasse i topi...



Alberto Guidorzi

Agronomo. Diplomato all' Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureato in Scienze Agrarie presso UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni presso la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana


 

10 commenti:

  1. Sui germogli mi permetto di ricordare quanto ho scritto in un precedente post:

    https://agrariansciences.blogspot.it/2017/01/la-cucina-tossica-di-una-volta-i.html#more

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sergio subito dopo il tuo commento avevo postato un mio commento, che vedo non essere comparso, ed in cui dicevo che purtroppo il tuo articolo mi era sfuggito e quindi mi scusavo per non averti citato. Tuttavia la notizia sui germogli che ho dato proviene da altra fonte.

      Elimina
  2. Buongiorno, scrivo per segnalare una svista, cito dall'introduzione: oggi il vegano o addirittura il vegetaliano vorrebbe rappresentare l’elite rispetto a chi si nutre di pecudes etc. dalla costruzione della frase si evincerebbe che le parole vegano e vegetaliano abbiano un diverso significato, quando in realtà sono sinonimi. Penso che l'autore intendesse usare vegetariano in luogo di vegano, la frase suonerebbe quindi: oggi il vegetariano o addirittura il vegetaliano vorrebbe rappresentare l’elite rispetto a chi si nutre di pecudes etc. riappropriandosi di senso compiuto. Colgo l'occasione per porgere i miei complimenti per gli ottimi spunti di riflessione, cordialità. Sandro Fracasso

    RispondiElimina
  3. Grazie del commento, ma vorrei precisare che vegetaliano è una categoria ancora più radicale dei vegetariani.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Infatti lo è, ma è anche sinonimo di vegano. Ciò che non torna nella frase dell'introduzione è l'uso di vegano contrapposto a vegetaliano, dato che sono a tutti gli effetti sinonimi. Mentre il vegetariano assume anche prodotti di derivazione animale (uova e latticini ad esempio) il vegano (o vegetaliano) no.

      Elimina
    2. Esiste una agricoltura vegetaliana che offre cibo ai vegetaliani appunto. La differenza sta che il vegetaliano si preoccupa anche del come è coltivato il vegetale. Un esempio: in agricoltura vegetaliana un parassita "lo si invita ad uscire dal campo con dolcezza e con altrettanta delicatezza si prende il parassita ed eventualmente lo si depone fuori dal campo coltivato.....".

      Elimina
    3. Se può interessare ecco chi sono i vegetaliani: http://www.olioofficina.it/societa/cultura/le-mode-della-pancia-piena.htm

      Elimina
    4. Secondo me la categoria più estrema in campo alimentare sono gli ortoressici, molto dei quali non sanno di esserlo e tendenzialmente sono i vegani e i vegetariani ad esserne maggiormente colpiti.

      Elimina
  4. Caro Alberto grazie per l'ennesimo accurato ed interessante articolo.

    Così si autodefiniscono i vari veg-qualcosa: http://www.oilmix.it/analisialimentari/carni/vegani.php
    Così come Treccani ci riporta il significato di vegetaliano:vegetaliano agg. e s. m. (f. -a) [der. di vegetale2, sul modello di vegetariano]. – 1. agg. Relativo o conforme al vegetalismo: seguire una dieta v., costituita da cibi di natura rigorosamente vegetale. 2. Che o chi segue le indicazioni alimentari del vegetalismo: ho un figlio v.; è un convinto v.; è una v. a oltranza.
    Sembrerebbe entrambi d'accordo con il signor Sandro.

    RispondiElimina
  5. Piero è vero quello che dici e sinceramente non ho mai capito perchè l'anoressia sia considerata una malattia e l'ortoressia non ancora.

    RispondiElimina

Printfriendly