di ANNA SANDRUCCI
Le foreste coprono circa il 31% delle terre emerse, per un totale di 4,06 miliardi di ettari. Il 45% di tale superficie si concentra nella fascia tropicale. Dal 1990 il pianeta ha registrato una riduzione netta di 178 milioni di ettari di copertura forestale, un’estensione paragonabile a quella della Libia, con la maggior parte delle perdite localizzate proprio nelle regioni tropicali.
Tuttavia, tra il 1990 e il 2020, il tasso netto di perdita forestale a livello globale si è progressivamente ridotto per effetto di un calo della deforestazione in alcuni paesi e dell’espansione della superficie boschiva in altri grazie a programmi di riforestazione e processi di rigenerazione naturale (FAO, 2020). Le foreste tropicali custodiscono oltre la metà della biodiversità terrestre e svolgono un ruolo chiave nello stoccaggio del carbonio. Secondo le stime più recenti, a livello mondiale restano circa 1,77 miliardi di ettari di foreste tropicali, molte delle quali classificate come “primarie”: ecosistemi composti da specie autoctone, privi di segni evidenti di intervento umano e caratterizzati da processi ecologici ancora intatti (FAO, 2020). Nel 2024 la perdita di foreste tropicali primarie ha raggiunto i 6,73 milioni di ettari, un dato quasi doppio rispetto all’anno precedente.
La causa principale è riconducibile agli incendi, in larga parte di origine antropica. Le aree maggiormente colpite sono localizzate in Brasile, Bolivia, Repubblica Democratica del Congo e Indonesia (Goldman et al., 2025). Conversione agricola in Brasile e Bolivia In Brasile, come in gran parte degli altri paesi tropicali, la deforestazione è strettamente connessa all’espansione dell’agricoltura e dell’allevamento. In Amazzonia, la più estesa foresta pluviale del pianeta, l’abbattimento della vegetazione è dovuto principalmente alla creazione di pascoli per bovini. Sebbene interessi un’area decisamente più contenuta, anche la coltivazione della soia esercita un impatto crescente sull’ambiente amazzonico (MapBiomas, 2023).
L’espansione agricola nell’Amazzonia brasiliana ha subito un’accelerazione a partire dagli anni sessanta, raggiungendo un picco di deforestazione nel 2004. Negli anni seguenti l’introduzione di politiche ambientali più rigorose ha favorito una sensibile riduzione del fenomeno, proseguita fino al 2012. Dal 2013, tuttavia, i tassi di deforestazione hanno ripreso a crescere, con un’impennata durante il governo Bolsonaro. Dopo un temporaneo rallentamento, nel 2024 si è registrato un nuovo aumento delle superfici disboscate. Secondo il Global Forest Watch (Goldman et al., 2025), il Brasile è oggi il paese che maggiormente contribuisce alla perdita di foresta tropicale primaria a livello globale.
Negli ultimi anni anche la Bolivia è emersa come uno degli epicentri della deforestazione tropicale. Nel 2024 la perdita di foresta primaria ha registrato un incremento del 200% rispetto all’anno precedente, posizionando il paese al secondo posto su scala globale dopo il Brasile (Goldman et al., 2025). Le principali cause vanno ricercate nell’espansione dell’allevamento bovino e nella crescita delle colture industriali di soia, mais e canna da zucchero. Particolarmente critico è il ruolo degli incendi, spesso associati alla pratica del chaqueo (taglia e brucia). Si tratta di una tecnica tradizionale, diffusa con nomi diversi in tutta l’America Latina, utilizzata dalle comunità locali per creare campi o pascoli, anche temporanei, a scopo di sussistenza. Le origini del “taglia e brucia” (slash-andburn) sono antichissime: i primi indizi in Amazzonia risalgono all’Olocene iniziale (circa 10.000 anni fa), in concomitanza con l’espansione delle comunità umane. I segni di incendi di origine antropica si fanno più frequenti nel medio-tardo Olocene ma la diffusione su larga scala della pratica si afferma solo a partire dal I millennio d.C. La pratica del “taglia e brucia” lascia nel suolo e nei sedimenti indicatori chimici e e depositi di carbone, affiancati da frammenti ossei e, nei contesti più recenti, da resti ceramici, riconducibili all’attività umana (Arroyo-Kalin, 2012).
Ancora oggi il fuoco rappresenta il mezzo più semplice ed economico per disboscare, soprattutto nelle aree isolate e prive di infrastrutture ma comporta un elevato rischio di incendi fuori controllo. Allevamento bovino da carne Con circa 238,6 milioni di capi, il Brasile vanta il secondo patrimonio bovino al mondo, subito dopo l’India (Istituto Brasiliero de Geografia e Estatistica, 2024). La maggior parte degli animali viene allevata in sistemi estensivi a bassa densità, dove restano fino alla macellazione (età media 3- 4 anni): tali condizioni, oltre a ridurre l’efficienza d’uso del suolo e ad accelerare il degrado dei pascoli, implicano anche emissioni elevate di metano per unità di carne prodotta (Skidmore et al., 2022). Negli ultimi decenni l’uso crescente dei feedlot - sistemi in allevamento confinato basati sull’impiego di razioni a base di cereali, soia, foraggi e sottoprodotti - ha permesso di ridurre l’età alla macellazione soprattutto nei comparti orientati all’export (Nunes et al., 2024). L’allevamento bovino da carne in Brasile è per lo più in mano a piccoli e medi produttori, ma la filiera dalla macellazione fino all’esportazione è dominata da grandi gruppi industriali come JBS, Marfrig e Minerva (Sevilla et al., 2025).
Circa l’80% del bestiame brasiliano appartiene alla razza zebuina Nelore (Bos indicus Linneus, 1758) derivata dal bovino indiano Ongole. Introdotta in Brasile tra la fine dell’ottocento e gli anni sessanta del novecento, questa razza si è affermata per la sua rusticità, la resistenza ai parassiti e la capacità di adattarsi ai climi tropicali, fattori che la rendono ideale per l’allevamento brado su pascoli marginali (Maiorano et al., 2022). Attualmente il Brasile è il secondo produttore e il primo esportatore mondiale di carne bovina, e contribuisce per circa un quarto al commercio globale. Il suo principale mercato di sbocco è la Cina, mentre l’Unione Europea rappresenta un mercato rilevante soprattutto per le carni di alta qualità (Aqino, 2024). Anche la Bolivia, sebbene con numeri ben inferiori rispetto al Brasile, sta registrando una rapida crescita del patrimonio bovino da carne. L’allevamento continua a essere prevalentemente estensivo ma negli ultimi anni si è osservato un progressivo aumento dell’impiego dei feedlot, in particolare per soddisfare la crescente domanda dei mercati internazionali. In Bolivia si allevano principalmente razze zebuine, come Nelore e Brahman, accanto a popolazioni di bovini creoli. La razza Brahman è stata selezionata negli Stati Uniti nei primi decenni del XX secolo da bovini importati dall'India e dal Brasile. Esistono due tipi distinti di bovini Brahman: il Brahman Rosso e il Brahman Grigio.
Riconosciuta ufficialmente nel 1924, è apprezzata per la sua resistenza al calore, la longevità e l’adattabilità ai climi tropicali, ed è oggi diffusa in molte regioni dell’America Latina. I bovini creoli, anch’essi diffusi in tutta l’America Latina, discendono invece dagli animali introdotti dai colonizzatori spagnoli e portoghesi a partire dal XVI secolo. Prima dell’arrivo di Colombo, infatti, i bovini erano assenti nel continente americano. La loro diffusione seguì le rotte della colonizzazione spagnola, attraverso le Antille verso il Messico e il Sud America, mentre i portoghesi introdussero il bestiame lungo la costa del Brasile. A partire dal XX secolo, le razze zebuine di origine indiana sono state incrociate con le popolazioni locali, dando origine alle attuali razze creole sudamericane, adattate alle condizioni ambientali e alle esigenze produttive della regione (Ginja et al., 2019).
Coltivazione della soia A livello globale la produzione di soia è quadruplicata rispetto al 1980. Circa il 70% di questa crescita è imputabile all’espansione delle superfici coltivate mentre il restante 30% è dovuto all’aumento delle rese. Attualmente oltre la metà della produzione mondiale proviene dal Sud America, dove, a partire dal 2000 le superfici coltivate sono aumentate del 160% in Brasile e del 57% in Argentina (Song et al., 2021). Il Brasile è oggi il principale produttore ed esportatore mondiale di soia. Nel 2023 ha prodotto oltre 156 milioni di tonnellate di soia, di cui più della metà destinata all’esportazione sotto forma di semi, farina e olio, principalmente verso Cina e Unione Europea. Dal 2000 a oggi, le importazioni cinesi di soia brasiliana sono aumentate di venti volte, spinte dalla crescente domanda di mangimi legata all’espansione dei consumi di carne. Le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina potrebbero consolidare ulteriormente questa dipendenza, incentivando l’espansione agricola in Sud America e aumentando la pressione sugli ecosistemi forestali (Valdes et al., 2023). In Amazzonia le coltivazioni di soia occupano attualmente meno del 7% delle aree disboscate, ma giocano comunque un ruolo significativo nella trasformazione del paesaggio agricolo. Tra il 2001 e il 2019 la superficie coltivata a soia nella regione è passata da 0,4 a 4,6 milioni di ettari. Circa un terzo di questa espansione ha interessato foreste primarie ancora presenti nel 2001, un altro 17% altre coperture forestali, e il restante 51% pascoli già disboscati. Questo andamento rivela un chiaro meccanismo di sostituzione: la soia si insedia nei pascoli già consolidati, mentre l’allevamento bovino si spinge verso nuove aree da convertire (MapBiomas Collection 8, 2023).
Tendenze simili si riscontrano anche nella regione boliviana della Chiquitania, dove nel 2019 il 25% dei nuovi campi di soia ha occupato foresta primaria umida, il 37% altre tipologie forestali e il 38% pascoli preesistenti (Song et al., 2021). Land sharing o land sparing? Due visioni a confronto Negli ultimi anni, il dibattito su come conciliare la produzione agricola con la conservazione dell’ambiente si è incentrato sull’alternativa tra land sharing e land sparing (Palan et al., 2011) . Il primo approccio integra le attività agricole con la conservazione dell’ambiente naturale all’interno dello stesso paesaggio, mediante pratiche estensive a basso impatto. Il secondo propone invece di concentrare la produzione su superfici più contenute ma altamente produttive, destinando ampie aree alla conservazione integrale degli ecosistemi. Nei biomi tropicali, particolarmente ricchi di biodiversità, il modello del land sparing sembra offrire risultati più efficaci.
È difficile, infatti, immaginare che specie come giaguari, tapiri o primati possano convivere stabilmente con attività agricole o zootecniche, anche se gestite con metodi meno intensivi. Molti di questi animali richiedono infatti habitat estesi e con limitata presenza umana. Quando supportato da una governance solida e da politiche ambientali coerenti l’approccio land sparing consente di tutelare porzioni continue di foresta primaria, contribuendo al contenimento dell’espansione della frontiera agricola. In Mato Grosso, ad esempio, l’intensificazione delle coltivazioni, resa possibile anche dall’introduzione del doppio raccolto annuale, ha favorito una riduzione della deforestazione locale nel breve periodo (Song et al., 2021). La risposta europea Dal 30 dicembre 2025 entrerà in vigore il Regolamento (UE) 2023/1115, volto a contrastare la deforestazione “importata” (UE, 2023). In base alla nuova normativa soia, carne bovina, olio di palma, cacao, caffè, legno e i rispettivi derivati potranno essere commercializzati nell’Unione Europea solo se non associati a deforestazione avvenuta dopo il 31 dicembre 2020. Il regolamento si applica anche ai prodotti trasformati, come cuoio e cioccolato. Anche specialità italiane come la Bresaola della Valtellina IGP, se realizzate con carne bovina importata, rientrano nelle disposizioni previste dalla normativa. Il regolamento europeo rappresenta un passo importante verso filiere agroalimentari più trasparenti e sostenibili. Tuttavia, secondo alcuni osservatori, la misura resta parziale e potenzialmente sbilanciata. In primo luogo rischia di essere resa poco efficace dal fenomeno della deforestazione “indiretta”: animali provenienti da aree disboscate illegalmente vengono trasferiti in allevamenti ufficiali prima della vendita, eludendo i controlli formali (West et al., 2022).
Inoltre, se da un lato garantisce ai consumatori europei prodotti non legati alla deforestazione, dall’altro rischia di spingere i prodotti più impattanti verso mercati con requisiti ambientali meno stringenti. Di conseguenza l’impatto ambientale si sposta altrove, senza una reale riduzione complessiva. Contrastare efficacemente la deforestazione globale richiede azioni coordinate tra paesi produttori e paesi importatori, regole condivise, meccanismi di incentivazione positiva in un quadro di cooperazione internazionale. In assenza di un approccio globale, si rischia di alimentare un commercio “a due velocità”: prodotti sostenibili per i mercati più ricchi e più impattanti per gli altri.
Articolo uscito in origine su: www.spigolatureagronomiche.it
Nessun commento:
Posta un commento