domenica 7 gennaio 2018

La parola ad un esperto in apicoltura

Traduzione di Alberto Guidorzi

Gerhard Liebig
Credo possa interessare ai lettori di Agrarian Sciences quanto ha detto l’esperto di apicoltura Gerhard Liebig (qui) in un’intervista il cui testo originale in lingua tedesca è disponibile  qui. L’articolo è stato riportato in lingua francese sul sito seppi.over-blog da cui l’ho tradotto.

Domanda: Sig. Gerhard Liebig da quanto tempo s’interessa alle api?

Risposta: Ho studiato biologia agricola dal 1970 al 1975. Ho fatto la tesi sugli afidi e dato che questi emettono la melata, molto ricercata dalle api per produrre miele, ho deciso di studiare anche le api. In particolare ho studiato l’evoluzione delle popolazioni di api. Ho fatto questo lavoro per 37 anni ed ho assistito alla campagna di colpevolizzazione delle piogge acide come distruttrici delle foreste. Sono divenuto anche apicoltore.


Domanda: Cosa ne pensa di quanti dicono che presto dovremo ricorrere all’impollinazione manuale perché avremo fatto scomparire tutti gli insetti pronubi comprese le api?

Risposta: Ecco l’esempio di una menzogna che ripetuta tante volte diventa verità. Essa è stata lanciata dal film: “le api e gli uomini” del 2012 (ndt: nel documentario si afferma che in Cina le api stanno scomparendo) ma in realtà la Cina esporta miele, la popolazione apicola è ben maggiore che negli USA, la produzione di mele dal 1990 è più che quintuplicata seppure la superficie agricola sia calata o rimasta costante. In realtà in Cina l’impollinazione manuale da parte dell’uomo è praticata come altrove, ma solo quando si tratta di creare nuove varietà più adatte all’esportazione.

Domanda: dunque a suo parere non esiste la mortalità delle api?

Risposta: Dipende da ciò a cui ci riferiamo. Ogni anno in una colonia d’api muoiono circa ¼ di milione di individui per cause naturali; in estate ne muoiono 2000 al giorno, in inverno la media è solo di 30. Tuttavia la colonia sopravvive perché come ovunque se ci sono delle morti ci sono anche delle nascite. In primavera nascono più api rispetto alle morti e quindi la colonia si espande mentre in inverno non vi sono nascite e quindi le colonie si contraggono n termini numerici. Quando tutte le api in inverno muoiono, il che avviene in tanti luoghi, si parla di “collasso delle colonie” che per i media diventa moria delle api generalizzata. In media in Germania circa il 10% delle colonie muoiono durante l’inverno e la fluttuazione presso gli apicoltori va da 0 al 100% ogni inverno. In questo dato però non vi è nulla di straordinario ed inoltre gli apicoltori che non subiscono perdite sono una maggioranza, ma silenziosa. Solo gli apicoltori danneggiati si lamentano ed hanno ascolto mediatico perché ormai vale il principio secondo cui “solo le cattive notizie fanno notizia” e quindi tutti sono obbligati a leggere che tutto va male in Germania. La verità è che le colonie di api in inverno muoiono solo se l’apicoltore non è professionale. La principale causa di perdita invernale è la protezione insufficiente contro l’acaro Varroa e quindi gli errori stanno proprio “dietro” all’alveare!

Domanda: Quando è arrivata la Varroa in Germania?

Risposta: La Varroa (un acaro) è arrivata nella Germania dell’Ovest intorno al 1970, quando si importarono colonie dal “Pakistan” (ndt: quando cioè anche in apicoltura si fece largo la volontà di intensificare la produzione di miele). Nella Germania dell’Est è invece arrivata dall’Europa orientale. Si deve considerare che in passato La varroa era esclusivamente un parassita dell’ape asiatica (ndt: Apis cerana) che è resistente e che in passato non aveva nessun contatto con l’ape europea e africana (Ndt: specie differenti dall’ape asiatica). Solo che fin dal primo contatto con l’ape nostrana il parassita ha cominciato a proliferare senza nessun controllo durante la stagione della riproduzione da marzo ad ottobre. Se la “varroasi” (nome della malattia quando la varroa diventa nociva) non è tenuta sotto controllo tutta la colonia si ammala, le colonie si depauperano e gli alveari si svuotano. Negli USA si è dato un nome al fenomeno, cioè “Colony Collapse Disorder” o CCD ossia sindrome del crollo delle colonie. La sindrome ha una soglia di nocività molto più bassa in autunno ed in inverno rispetto alla primavera-estate.

Domanda: Cosa può fare l’apicoltore per difendersi dalla varroa.

Risposta: L’apicoltore deve trattare con acaricidi ogni anno i suoi alveari. (ndt : pesticidi dunque! Evidentemente essi non sono solo appannaggio degli agricoltori…. a meno sia stato stabilito che gli uni possano usarli per meriti acquisiti e gli altri no, appunto per demeriti assegnati loro. Da chi poi e con quale autorità?). Molti agricoltori usano acido formico e acido ossalico, che se usati dopo la raccolta del miele diminuiscono di molto la contaminazione del miele (Ndt: L’acido ossalico nel miele delle arnie trattate è presente mediamente in 300 mg/kg ossia se consideriamo la sua DL50 un uomo di 70 kg di peso dovrebbe ingerire 111 kg di miele per correre pericoli. Questo è quanto dicono gli apicoltori per difendersi a ragione dalla critiche eventuali. Vogliamo fare il paragone con il gliphosate trovato nel miele che tanta pubblicità negativa ha avuto? Ebbene la stessa persona di 70 kg per la DL50 del gliphosate dovrebbe ingerire 400 kg/giorno di miele! La DL50 dell’acido formico è 1100 mg/kg, cioè esattamente cinque volte più tossico del gliphosate. Dove è presente l’Aethina tumida - altro nuovo parassita delle api – si può usare il neonicotinoide con la più bassa DL50 e cioè il più tossico Fipronil, seppure contenuto in trappole immesse negli alveari).

Domanda: Lasciamo da parte per ora la varroa e dato che lei ha decine di anni di esperienza sulle api, queste sono oggi in condizioni peggiori del passato? Si dice che le api oggi sono più sensibili a causa dei pesticidi dell’agricoltura e per la mancanza di nutrimento.
 
Risposta: Questa è un altro falso che a forza d’insistere è divenuta realtà perché diffusa ad arte da Greenpeace con la brochure « Bye, Bye Biene? » (ndt: “addio api) e da altri in Germania; ciò ha portato a far dire in uno studio (ordinato dal gruppo parlamentare verde tedesco) dell’Università di Berlino che le api stavano meglio in città che non in campagna e ciò per colpa dell’agricoltura intensiva, delle sue monocolture, e dell’uso eccessivo di pesticidi. Il tutto è semplicemente falso! I dati infatti ci dicono che in Germania la produzione di miele per alveare non ha cessato di aumentare dalla fine della 2ª Guerra mondiale e ciò è concomitante principalmente con la continua estensione della coltivazione del colza anche se protetto con fitofarmaci. Ebbene il miele di colza è oggi migliore di 40 anni fa, cioè quando ho cominciato i miei studi a lungo termine.

Domanda: Una serie di studi mostrano che i neonicotinoidi disorientano le api. Se ci sono indicazioni che questi insetticidi nocciono alle api non sarebbe meglio abolire immediatamente questi principi attivi?

Risposta: Tutti questi risultati sono stati ottenuti sul terreno con api opportunamente equipaggiate, il che però non riflette per nulla le condizioni naturali. Si tratta di esperienze che impressionano il lettore inesperto per l’uso di strumentazioni “high-tech”, il che spesso si rivela solo fumo negli occhi: se si inserisce un congegno elettronico o un transponder sul dorso di un’ape per seguirne il volo, ciò cambia il suo comportamento. Se per di più poi queste api così imbrigliate sono nutrite ogni giorno con soluzioni di zucchero addizionate dei principi attivi di un insetticida, il loro comportamento anormale è ancora più pronunciato. In più vi è da discutere sulla dose dell’insetticida, in quanto spesso il principio attivo viene sovra dosato per avere un sicuro effetto tossico. Immaginiamo un campo di colza o di mais cresciuti da un seme conciato con un neonicotinoide. I campi sono visitati dalle api durante la fioritura per raccogliere nettare e polline, ma nessuno dice che la dose letale per le api era nel seme, mentre ormai nella pianta, (ndt: che ha una massa centinaia o migliaia aumentata rispetto al seme) la dose è divenuta subletale se non insignificante. Pertanto la raccolta di polline e di nettare non influenza per nulla la bottinatura e tanto meno lo sviluppo delle popolazioni. Ora tutto ciò è verificato dagli organi di controllo ogni volta che si procede all’approvazione di un fitofarmaco e dopo l’approvazione il controllo è continuato. Ebbene nelle prove che si eseguono risulta che le api bottinatrici tornano all’alveare per il 99% sia che visitino del colza o del mais cresciuti da sementi conciate con neonicotinoidi. D’altronde nelle prove “high-tech” di cui sopra il campione testimone di api rientra all’alveare per meno del 90%. Ora se questa è la normalità in studi del genere e il tasso anzidetto è trasferito a tutte le bottinatrici, un alveare sarebbe depauperato dopo una sola giornata di raccolta di nettare e polline. Per rendersene conto basta fare un semplice calcolo: è sufficiente che le 20.000 bottinatrici di una colonia di media grandezza facciano 10 voli andata e ritorno all’alveare in un giorno perché la colonia scompaia senza che nessun pesticida sia implicato. Infatti se se ne perde il 10% per ognuno dei 10 voli completi significa che alla fine del giorno non c’è più un’ape nell’alveare.
La protezione dei vegetali attraverso la concia delle sementi è pratica ecologicamente più appropriata rispetto all’aspersione in atmosfera. Di conseguenza non si dovrebbe colpevolizzare la concia delle sementi, ma estenderne l’uso.

Domanda: Qual è la sorte delle cugine selvatiche dell’ape domestica?

Risposta: Trovo strano anche questo argomento: esistono pochissimi studi sulla presenza e la densità delle api selvatiche. Il periodo d’oro della ricerca sulle api selvatiche rimonta a circa vent’anni fa. Ad inizio secolo sono state scoperte più api selvatiche di quanto si sia fatto prima e anche di dopo. Gli specialisti di allora sono ora in pensione, per cui il declino regolarmente segnalato di specie di api selvatiche può essere dato dal fatto che vi sono sempre meno persone che riconoscono le varie specie. Solamente coloro che le cercano le trovano e se non si cercano non si trovano. Questa corrente di pensiero è funzionale anche alla deplorata diminuzione di biodiversità; molti guardano solo laddove vedono confortato il loro credere ed anzi lo fanno per trovare conforto alla loro tesi. Alcuni difensori dell’ambiente ed esperti di api selvatiche sono del parere che queste soffrono della concorrenza dell’ape domestica e considerano lo sviluppo attuale dell’apicoltura (numero di apicoltori e numero di colonie in crescita costante) in modo molto critico. Ciò dovrebbe essere maggiormente meditato dagli apicoltori che dicono di praticare un’apicoltura ecologica e pertanto pretendono di essere i migliori. Questi potete trovarli da Demeter e da Bioland

Domanda: Lei si è già stato criticato per la sua posizione e c’è chi la considera una specie di “negazionista della moria delle api”

Risposta: E’ vero, ciò mi è stato rinfacciato e ancora lo fanno. Capita quando si va controcorrente rispetto al pensiero dominante. E’ normale, se questi la pensano differentemente da me ma non sono in grado di apportare argomenti a sostegno delle loro tesi, non possono far altro che usare lo strumento della polemica. Insinuino pure che sono un venduto a qualche impresa chimico-farmaceutica.

Domanda : Per i media la moria delle api è spesso ritenuta come un fatto sicuro e provato, recentemente (inizio dicembre) è stata data come implicita nel dibattito su “hart aber fair” (duro ma giusto). Che ne pensa di ciò?

Risposta: Il ripetere con costanza un falso non è che lo faccia diventare vero; rimane solo una ripetizione. Ho visto la trasmissione due volte, la prima in diretta, e la seconda in differita. La seconda volta l’ho anche registrata. Ne voglio ricavare un film combinandola con altri reportages sulla moria delle api (faccio la raccolta di queste trasmissioni fin dal 2006) per documentare come le cose si sono svolte fino ad ora e rilevarne le conseguenze. La fine di questo progetto è previsto per l’anno 2020. In una emissione diffusa in “Fhoenix” da Bayerischer Rundfunk dal titolo “Das Sterben der Biernen” (la morte delle api) si era predetto che non ci sarebbero più state api nel 2020; il documentario era stato realizzato nel 2010. Nell’aprile 2006 in “Bild am Sonntag” si riportava la seguente citazione attribuita al presidente dell’associazione apicoltori professionali tedesca: “l’agonia dell’ape domestica e dell’apicoltura in Germania è già cominciata” . In quel momento l’ape domestica era considerata da Bild am Sonntag come la quarta specie domestica più importante. Essa invece ora è passata al terzo posto come numerosità (Ndt: e non è che le specie che precedevano l’ape siano diminuite di numero). In questo articolo, si può ugualmente trovare ciò che viene messo in bocca di Einstein sulle api e che viene ora riportato da molti commentatori, mentre si sa che si tratta di una citazione assurda e che non è mai uscita dalla bocca dello scienziato.
Nel frattempo ho anche letto 1.604 commenti estratti dal libro d’oro del programma “hart aber fair” durante e dopo la trasmissione e sto valutandoli. Ma per fare ciò occorrerà un po’ più di tempo.

Domanda: Qual è l’impressione che ha tratto su questi commenti fino ad ora?

Risposta : La maggioranza dei commenti è formulata in maniera emozionale e polemica, reiterano il ragionare dominante per cui l’agricoltura intensiva è da colpevolizzare in quanto produttrice di disastri e inoltre si dice che il crollo dell’ecosistema è imminente. Questa opinione è stata anche emessa da quattro partecipanti al panel di “hart aber fair” in modo duro ed ingiusto, vale a dire il moderatore e tre dei cinque invitati: l’apicoltore, il giornalista scientifico ed il politico del partito dei verdi. Nel libro d’oro, gli spettatori che hanno commentato l’argomento, sia sulla moria delle api che sulla scomparsa di tutti gli insetti, hanno dato in alcuni casi prova di competenza e considerato la problematica in modo differenziato. Questi pareri differenziati avrebbero dovuto anche trovare spazio al momento della preparazione della trasmissione. Ciò non è stato fatto e si può dunque supporre che i produttori della trasmissione siano stati guidati dal principio che domina l’azione di molti giornalisti: la menzogna semplice è più facile da trasmettere all’uditorio che la verità complicata. Infatti, è stata una trasmissione di successo. 

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Alberto Guidorzi
Agronomo. Diplomato all' Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureato in Scienze Agrarie presso UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni presso la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.



 

8 commenti:

  1. E’ interessante questo punto di vista, come spesso accade per chi sfida il mainstream. Negare tout court le difficoltà del settore apistico, però, è secondo me bastiancontrarismo a prescindere. Penso che l’apicoltura abbia dinamiche in parte molto locali, che definiscono la differenza tra una cattiva e una buona annata. Le considerazioni che seguono derivano da alcuni colloqui con apicoltori esperti, e sono valide solo per la mia zona (pianura del Friuli Venezia Giulia) e li intendo come spunti che traggo da chi ne sa più di me, su cui mi piacerebbe discutere.

    Una dinamica comune e particolarmente grave è la varroa, per varie ragioni:1) A detta di molti apicoltori, la varroa oggi è molto più impattante, perché diffonde virosi e sono queste a danneggiare le famiglie ancora più del parassita in sé. Lo stesso numero di varroe è oggi devastante mentre probabilmente non lo era 15 anni fa 2) i trattamenti sono efficaci solo sulle varroe che infestano api adulte, perché quando la varroa è dentro la celletta chiusa e parassitizza la larva, non viene raggiunta da nessun principio attivo. Il susseguirsi di inverni miti (parlo del Nordest, che conosco) fa sì che non si raggiungano le condizioni in cui la regina smette di deporre. Per cui la stagione comincia con famiglie “sporche” e il blocco di covata dev’essere indotto durante la stagione (es. isolando la regina, o con altre tecniche) che rendono la famiglia meno preparata al momento delle fioriture principali che generalmente si concludono entro giugno. Diversi apicoltori, visto il ripetersi di annate insoddisfacenti per il raccolto e vista la domanda di mercato dovuta alla perdita di famiglie (che secondo me è superiore in certe zone al fisiologico 10% che riporta il signore dell’intervista) si orientano sulla produzione di “nuclei” (cioè piccole famiglie da sviluppare nella stagione favorevole) che poi vengono anche esportati.

    Riguardo all’utilità delle colture “industriali” per l’apicoltura, mi vengono in mente due considerazioni. Il colza fiorisce in concomitanza alla robinia (volgarmente “acacia”) per cui il miele più pregiato di molte regioni viene “contaminato” da nettare di qualità organolettica meno apprezzata. Secondariamente, c’è stata recentemente dalle nostre parti una certa diffusione del girasole, con gli apicoltori che ci riponevano grandi aspettative. Aspettative poi deluse. La considerazione che molti fanno è che essendo la produzione di nettare uno “spreco” di fotosintetati, probabilmente viene sacrificata durante la selezione, che (com’è ovvio) ha altri criteri. Senza contare che le principali colture del nostro Paese (mais, soia, frumento, vite, ecc) hanno tutt’al più interesse per il polline.

    Sull’interferenza dei principi attivi utilizzati in agricoltura, si sospettano gli interventi contro scafoideo su vite. Recentemente anche la soia richiede trattamenti insetticidi in fase riempimento grani contro la cimice asiatica (in questo caso principi persistenti perché la cimice continua a reinfestare). Purtroppo, spesso gli insetticidi vengono distribuiti senza il prescritto previo sfalcio della flora spontanea presente (mi riferisco ai vigneti, soprattutto) perché tanto poi nessuno controlla, le morie vengono scoperte tempo dopo, è molto costoso (analisi dei residui) ed è difficile stabilire delle responsabilità. Spesso ( a fine estate, per esempio) la flora presente nei coltivi (che magari ricevono irrigazione) è tutto quello che c’è da bottinare e quindi i pronubi vi si concentrano. I cattivi usi dei prodotti non sono imputabili al prodotto, ovviamente, ciononostante si tratta di un problema esistente (visto che l'agricoltura, pur migliorando, sconta ancora situazioni di poca qualificazione professionale).

    (continua)
    Andrej

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  2. Infine, mi sembra poco cauto dire che “se una certa specie di ape selvatica non si trova più, è solo a causa della mancanza di studiosi”. Non so quante zone d’Italia possano vantare uno storico di monitoraggi ripetuti nel tempo che dimostrino che è tutto a posto (non è in tal caso possibile né questo, né il contrario).

    Onestamente, per quel che ho sentito, penso che cercare di sostenere semplicemente che va tutto bene, l’agricoltura ” intensiva” è un ottimo ambiente per le api e non serve preoccuparsi, sia semplicistico, e può magari essere vero per certe zone della Germania o dell’Italia, e non vero a distanza di 50 km. Vedo una situazione complessa, dove sono in atto cambiamenti, con impatti diversificati su scala locale e tanti chiaroscuri.

    Come considerazione finale: si deve ammettere che i fatturati dell’agricoltura (e relativi fornitori) sono molto maggiori di quelli dell’apicoltura, ed è comprensibile che all’agricoltura si diano certe priorità, certo che senza semplificazioni, catastrofismi, anticatastrofismi e ideologie varie, si potrebbero allenare i portatori d'interesse a discutere con competenza sugli aspetti tecnici e scovare il diavolo nei dettagli. Certo servirebbe una regia pubblica che sappia di cosa si sta parlando...

    Andrej

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  3. Andrej hai detto cose sensatissime e frutto di esperienze sul campo. In sintesi occorre accostare buona agricoltura anche in funzione degli insetti pronubi e buona apicoltura. Spesso anche buona agricoltura e buona apicoltura non vanno parallelamente (hai citato certe piante coltivate nettarifere solo di conseguenza. Ecco che io sono sempre stato del parere che le due branche devono trovare forme di aiuto reciproco ed una di queste è di riservare parte delle aziende agricole per la semina praticata dall'uomo di specie selvatiche mellifere e non lasciare che queste si diffondano per disseminazione spontanea. Perchè un agricoltore o più agricoltori non devono diventare anche apicoltore e divenire allevatore/coltivatore di api?

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  4. Dimenticavo di dire che resta il fatto che la disinfezione del seme con i neonicotinoidi è un sistema molto più rispettoso delle api dell'aspersione nell'aria degli stessi principi attivi o di altri.

    Quindi l'uso dei neonicotinoidi nella concia non nuoce alle api e la richiesta di abolire i neonicotinoidi nelle concia delle sementi è una fandonia venduta a dei disinformati che la bevono come verità.

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  5. A proposito dei neonicotinoidi, mi ricordo che a suo tempo si diceva che venivano trasportati dalla polvere che si creava durante la semina. Anche se fosse vero, forse molto si risolve sfalciando le capezzagne. Ciò però è una spesa:e l'agricoltore è disposto a sostenerla in nome dell'ambiente, specie se non ha controlli da temere?

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    1. Andrj

      Vedo solo ora il tuo commento. Il problema non esiste più in quanto tutte le seminatrici di precisione sono dotate di aspiratori e quindi le particelle polverose che si staccano dai semi conciati non vengono emesse all'esterno. Indipendentemente dal fatto che le polveri erano in grandissima parte di terreno ed in minimissima parte contenevano residui di neonicotinoidi. Tuttavia gli agricoltori pur di conservare la possibilità di seminare semi conciati ha preferito sobbarcarsi anche questo costo.

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  6. Il PSR sloveno peraltro prevede un contributo per chi semina essenze mellifere (tipo phacelia e il grano saraceno che può essere anche trebbiato) mi sembra una cosa interessante.

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  7. Andrej

    Anzi è questo che si deve fare, perchè volenti o nolenti agricoltora e apicoltura devono convivere. Infatti le cause di diminuzione delle colonie dopo l'inverno sono Malttie prima di tutto, insufficiente alimentazione e poi vengono gli evenutali avvelenamenti (sempre però se si fa buona e rispettosa agricoltura)

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