lunedì 5 novembre 2018

L’AGRICOLTURA DEVE DIVENIRE UNA BRANCA DELL’APICOLTURA?

di ALBERTO GUIDORZI e LUIGI MARIANI


PARTE 1 – CARABINIERI E APICOLTORI…




Ma non hanno altro da fare?  


Qualche giorno fa una notizia trasmessa al TG5 serale indicava che i carabinieri della forestale (ma proprio non hanno altro da fare?) hanno installato un alveare in pieno centro di Roma e la ragione addotta dalla giornalista è stata la seguente: “perché le api stanno meglio in città, in campagna sarebbero uccise dai pesticidi”.
 

Agricoltura e apicoltura

L’agricoltura in termini biologici è la simbiosi mutualistica fra uomo da un lato e piante coltivate e animali domestici dall’atro. Da questo punto di vista l’apicoltura è uno degli esempi più rilevanti in quanto l’ape è animale domestico per eccellenza (altro che simbolo di naturalità), essendo stata domesticata in oriente oltre 5000 anni orsono. Da allora l’ape domestica (Apis mellifera L.) svolge funzioni essenziali per l’uomo (produzione di miele e altri prodotti, impollinazione di molte piante erbacee ed arboree) mentre è dovere dell’uomo apicoltore garantire le condizioni che sono alla base della prosperità delle colonie (scelta di ambienti con un pabulum idoneo e con condizioni meteorologiche non proibitive, approvvigionamento di cibo per i mesi invernali, ecc.) In tal senso portare ad esempio una regina da un ambiente a clima oceanico con estate fresca e piovosa (clima di tipo Cfb di Koeppen e Geiger) a un ambiente a clima mediterraneo del sud Italia con estate caldo-arida (clima di tipo Csa di Koeppen e Geiger) può esporre a gravi insuccessi di cui si finisce a torto per incolpare il cambiamento climatico o i “pesticidi”, e ciò in onore al vecchio adagio secondo cui “la colpa è un bella ragazza ma nessuno la vuole mai per moglie”.
Volendo approfondire la questione si consideri che la simbiosi mutualistica fra agricoltore e ape si regge sul fatto che il 35% dell’alimentazione che l’agricoltore procura al prossimo dipende dagli insetti pronubi, ape in primis. Inoltre come attori importanti della fecondazione incrociata, i pronubi assicurano l’incremento della biodiversità. Purtroppo un’analisi superficiale delle problematiche legate alla salute dei pronubi e delle api in particolare, hanno diffuso la falsa idea che le api in tempi moderni rischino l’estinzione e che l’agricoltura ne sia la principale responsabile, quando invece non è per nulla vero che le api rischino l’estinzione ed anzi aumentano di numero mentre le cause di mortalità sono principalmente la fame e le malattie.
Ciò nonostante la propaganda ecologista ha avuto buon gioco a scegliere l’ape come testimone delle presunte nefandezze dell’agricoltura moderna. Infatti l’ape è entrata a far parte fin dall’antichità del simbolismo religioso in quanto il miele era cibo divino. Inoltre stando ai racconti mitologici il primo apicoltore greco, Aristeo, sarebbe stato testimone della prima moria delle api, totale e improvvisa. Solo che il mito pervenutoci ci dice anche che le api sono rinate uscendo dal corpo di un bue morto (la cosiddetta bugonia, di cui parla anche Virgilio nelle georgiche) e questo ci conferma la collocazione soprannaturale delle api fin dall’antichità. Nel mito, tra l’altro è facile ritrovare un parallelismo con l’attualità: oggi a parere di tutti i media le api sarebbero in “via di estinzione” mentre nella realtà “rinascono” miracolosamente nelle statistiche serie.

Le morie di api: cosa dicono le indagini più attendibili? 
 
Dai dati FAO innanzitutto risulta che le colonie di api sul pianeta sono 65 milioni e che questo numero è aumentato del 45% tra il 1961 ed il 2004 (Aizen e Harder, 2009). Certo è una valutazione a livello mondiale che può nascondere situazioni diverse a livello regionale ed infatti la l’indagine COLOSS ha mostrato che tra emisfero Nord e Sud vi sono delle marcate differenze di mortalità, più elevata in quello settentrionale, dove tuttavia il fenomeno è concomitante con la diminuzione degli operatori apicoli e conseguente diminuzione di alveari. Inoltre EPILOBEE ha mostrato che la mortalità all’uscita dell’inverno in Europa è molto superiore alle latitudini più settentrionali (23 - 33% di mortalità) che non in quelle meridionali (5 - 10%). Per inciso si consideri che l’uso dei neonicotinoidi (neonics) è maggiore al Sud che non al Nord, il che dovrebbe indurci a riflettere sul peso delle avversità atmosferiche nella mortalità. Le colonie sono aumentate in Asia, Africa e America del Sud; in Europa invece sono passate tra il 2005 ed il 2010 da 22,5 milioni di colonie a 24,1 milioni (+7%) (Breezer et al., 2014). In conclusione è destituito di fondamento il calo degli alveari sia a livello mondiale che europeo. 

Fig. 1 – In senso orario. In USA, dove tanto si è parlato di CCD (colony collapse disorder), si evidenzia che dopo una fase di calo a metà nel decennio precedente la produzione di miele è risalita. Successivamente sono indicati i dati FAO sull’andamento sempre in crescita del numero di alveari in Canada, nell’UE e nel mondo.



Ciò che manca sia in Francia sia in Italia sono piuttosto delle statistiche affidabili. Se osserviamo il fenomeno attraverso la produzione di miele abbiamo che quella mondiale è aumentata ( si attesta su 1,2 milioni di tonnellate) (Aizen e Harder, 2009). La Cina è divenuta il più grosso produttore mondiale con 367.000 t seguita dalla Turchia, Ucraina, USA e Argentina. Comunque la produzione di miele a livello internazionale paga il fatto che molti mieli sono adulterati dall’aggiunta di sciroppo zuccherino. Altro aspetto che incide sulla produzione è la più o meno ampia coltivazione di piante mellifere. Un caso emblematico è quello della Francia che tra il 1960 ed il 1980 produceva 20.000 t di miele, che poi man mano sono aumentate parallelamente all’incremento della superficie a girasole (pianta molto visitata dalle api) fino a raggiungere il culmine delle 35.000 t a metà degli anni ’90, appunto a seguito degli 1,2 milioni di ha coltivati a girasole. Successivamente, però, la superficie a girasole iniziò il declino fino a dimezzarsi intorno al 2010 e di pari passo calò la produzione di miele fino a toccare il minimo con meno di 15.000 t in concomitanza con il minimo della superficie raggiunta dalla composita.

Fig.2 Il grafico mostra la produzione di miele in t (linea nera) e in parallelo l’andamento delle superfici seminate a 
girasole in ettari (linea grigia)

In altri termini finì la manna per gli apicoltori e molti hanno dovuto abbandonare l’allevamento, solo che la notizia passata sui media è stata che le ragioni del calo delle produzioni di miele francese erano da ricercasi negli insetticidi usati in agricoltura ed in particolare i neonics, che era divenuta la categoria insetticida più usata. 




Alberto Guidorzi
Agronomo. Diplomato all' Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureato in Scienze Agrarie presso UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni presso la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.





Luigi Mariani
Docente di Storia dell' Agricoltura Università degli Studi di Milano-Disaa, condirettore del Museo Lombardo di Storia dell'Agricoltura di Sant'Angelo Lodigiano. E' stato anche Docente di Agrometeorologia e Agronomia nello stesso Ateneo e Presidente dell’Associazione Italiana di Agrometeorologia.





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