lunedì 3 febbraio 2020

PROCESSO ALLA CHIMICA: I CAPI D'ACCUSA

da "L’ORRORE DELLA CHIMICA: DOTTRINE E FEDI DELLE AGRICOLTURE ALTERNATIVE"

Storia delle Scienze Agrarie, vol. VII, CAP. 18 

 

di ANTONIO SALTINI

 

 

Se il rigetto della chimica che accomuna gli alfieri delle agricolture “alternative” non costituisce, generalmente, che espressione di un orrore incapace, per mancanza di competenze scientifiche, di articolarsi in argomentazioni quantitative, propone l’eccezione più significativa il volume con cui offre il proprio contributo a fondare la filosofia della nuova agricoltura Claude Aubert¹,
un agronomo dalla significativa esperienza applicativa, critico di notevole acume di tutta la pubblicistica chimica nella sfera agraria, autore di un volume, L’agriculture biologique, stampato nel 1977, cui la lucidità espositiva assicura il successo attestato dalla pluralità delle edizioni. A differenza dei proclami contro la chimica della maggioranza dei paladini di una nuova agricoltura, generalmente vibranti saggi di retorica antiscientifica, il volume di Aubert propone contro la chimica un’autentica arringa, articolata in capi d’accusa consistenti ciascuno di una serie di argomentazioni fondate sui risultati di ricerche eseguite nei laboratori di un novero cospicuo di paesi. Nell’ordine, dopo un’introduzione sulla qualità biologica degli alimenti, il primo capitolo di quell’arringa raccoglie gli elementi di colpa a carico di antiparassitari, insetticidi e diserbanti, il secondo quelli a carico dei fertilizzanti, il terzo quelli a carico delle creature della nuova genetica vegetale, sementi di piante annuali e varietà di specie frutticole, e quelli che imporrebbero i pericoli rappresentati dagli animali modificati dalle moderne metodologie di selezione.
Nel primo capitolo l’agronomo francese illustra i risultati di una ricerca condotta, nel proprio paese, sulla presenza di residui degli insetticidi della famiglia dei clorurati organici, quindi il D.D.T. e le molecole similari, nel latte delle mucche e in quello delle donne, risultati senza dubbio inquietanti, siccome il latte umano sarebbe risultato contaminato da un tenore di D.D.T. quarantacinque volte maggiore di quello rivelato dalle analisi nel latte vaccino, da percentuali relative maggiori, seppure i valori assoluti siano inferiori, di tutte le altre molecole della famiglia. L’esito dell’indagine, alla stampa del volume già privo di interesse per la proscrizione, dalle campagne europee, dei clorurati organici, avrebbe imposto di individuare la ragione per la quale sarebbe risultata maggiore la quantità di insetticidi nel latte delle donne, che ingeriscono solo alcuni cibi trattati con clorurati, che in quello delle mucche, che vivono nell’ambiente dove si realizzano le irrorazioni antiparassitarie: anziché ricercare una spiegazione del risultato sorprendente, Aubert proclama l’impossibilità di proporre qualsiasi spiegazione plausibile. L’opzione rivela un proposito sottile: postulare l’impossibilità di spiegare equivale ad asserire l’incapacità della chimica di seguire le traslocazioni degli insetticidi nella successione delle trasformazioni alimentari, un’incapacità, che, fosse positivamente dimostrata, imporrebbe, per cogenza logica, il bando di ogni molecola antiparassitaria, entità inafferrabile in grado di colpire chi e dove nessuno strumento scientifico consentirebbe di supporre. Fondato su dati analitici attendibili, il sillogismo contro la chimica è acuto e suadente: un sofisma dall’indiscutibile potere persuasivo.
Ma l’argomento più suggestivo con cui Aubert motiva la propria arringa è il commento ai risultati dell’antica ricerca con cui due chimici dal nome russo avrebbero dimostrato, operando, tra il 1925 e il 1940, in un laboratorio elvetico, che le molecole organiche “artificiali, dotate di poteri tossici in dosi quantificabili all’analisi, come risulta tossico il composto del mercurio assunto quale esempio, manifesterebbero il medesimo potere in dosi omeopatiche, fino alla trentesima diluizione decimale, un’entità al di là di ogni possibilità di identificazione analitica. Gli antiparassitari esprimerebbero la propria tossicità, quindi, a qualsiasi dose fossero ingeriti, anche in tracce irrilevabili all’analisi. Il rilievo sperimentale è tale, anch’esso, da imporre il bando di qualunque molecola antiparassitaria: un esperimento condotto, negli anni Trenta, da due chimici assolutamente ignoti agli annali della scienza non è sufficiente, peraltro, a smentire il principio capitale della tossicologia, che stabilisce che è sempre la dose a determinare la tossicità di una sostanza. Per ogni sostanza nociva la chimica stabilisce, cioè, la soglia al di sotto della quale anche il veleno più potente può essere tollerato dall’organismo. Aubert, che conosce il postulato, sostiene che esso varrebbe solo per le molecole naturali, non per quelle la cui struttura sia creazione dell’uomo. Analizzata secondo la logica della scienza, l’asserzione si rivela il più brillante paradosso chimico. Come ogni paradosso, misurato nelle proprie conseguenze, conduce nella sfera dell’assurdo: fosse fondato, l’umanità non sarebbe solo costretta, come postula Aubert, ad abbandonare l’impiego delle molecole antiparassitarie, dovrebbe rinunciare a tutti i prodotti della chimica, dalla benzina all’inchiostro tipografico, dai coloranti all’intera gamma dei medicinali, in assoluta maggioranza costituiti da molecole create in laboratorio. Non esiste, infatti, farmaco che, elevando le dosi, non possa convertirsi in veleno: ma se la sostanza tossica ad una dose elevata lo è altrettanto a dosi infinitesime, essendo probabilmente rare le molecole di sintesi per le quali non esista dose nociva, il consorzio umano non potrebbe ricercare la salvezza che nel ritorno al regime di caccia e raccolta dell’età paleolitica 
Sono meno sottilmente seducenti le argomentazioni genetica animale. Contro le prime Aubert raccoglie una doviziosa messe di prove che dimostrerebbero che le varietà vegetali frutto della selezione più recente produrrebbero quantità di sostanza secca percentualmente inferiori a alle varietà tradizionali, e che presenterebbero tenori minori di aminoacidi essenziali e di vitamine, il rilievo di un dato notorio, che perde ogni significato appena si verifichi che tenori percentuali di sostanza secca, di aminoacidi e di vitamine, inferiori a quelli delle piante tradizionali possono coniugarsi a rendimenti ettariali tanto maggiori da tradursi in produzioni di sostanza secca, di aminoacidi e vitamine per unità di superficie ampiamente maggiori. Lo straordinario balzo dei consumi medi della popolazione europea, un balzo che ha determinato tanto il mutamento quantitativo quanto quello qualitativo della dieta, consistente nel consumo di quantità maggiori di cereali, carne, latticini e ortaggi, ragione dell’ingente incremento dell’ingestione di aminoacidi e di vitamine, non sarebbe stato possibile senza l’incremento prodigioso dei rendimenti ettariali, che in Europa ha alimentato la crescita della popolazione consentendo, insieme, l’abbandono di superfici agrarie immense, destinate alla riforestazione o convertite in autostrade, aeroporti, aree industriali e residenziali. Se il rilievo di carenze e anomalie delle creature della selezione varietale, per i mais ibridi sdegnata denuncia, non sarebbe stato privo di fondatezza nelle condizioni dell’agricoltura della prima metà del secolo, è del tutto gratuito alla data della redazione del volume, risulterà risibile nei lustri successivi, quando le cariossidi di mais non saranno che uno degli ingredienti di una miscela di cui sarà controllato il tenore di ogni aminoacido, di ogni vitamina. Mentre sarà proprio grazie alle procedure di manipolazione del genoma che gli istituti che apprestano le sementi per i paesi dall’agricoltura più povera potranno inserire nel corredo di un ceppo di mais, una pianta originariamente povera di aminoacidi essenziali e di microelementi metallici, gli enzimi che consentano l’accumulo, nella cariosside, degli aminoacidi e degli elementi metallici necessari a ovviarne le carenza nelle regioni in cui la povertà del loro contenuto nelle varietà tradizionali, unica fonte alimentare della popolazione, si traduca in irreparabili deficienze della dieta umana. Assicurando, con le proprie creature, la soluzione delle carenze nutrizionali  provocate dal consumo delle varietà tradizionali, la genetica dimostrerà la nocività alimentare delle varietà tradizionali, i benefici del consumo di quelle prodotte in laboratorio: la verità è l’esatto contrario dell’immaginosa imputazione di Claude Aubert. 
Ancora più semplicistici appaiono i rilievi dell’agronomo francese contro i prodotti della selezione animale, quelle linee di polli, suini e bovini nel cui organismo Aubert denuncia alterazioni biologiche tanto radicali da farne entità incapaci di sopravvivere senza il costante ricorso alla veterinaria, un’osservazione non priva di apparente fondamento, siccome il perseguimento della produttività più intensa induce gli allevatori a evitare agli animali il più banale stato patologico, anche la sofferenza subclinica, che viene proposta da Aubert per bandire l’oleografico confronto tra lo stato sanitario degli animali degli allevamenti moderni e quello degli animali del passato, che colloca in un nuovo Eden in cui le bestie che attorniano i progenitori felici della stirpe umana avrebbero vissuto senza conoscere le malattie contagiose che hanno decimato, nei secoli, greggi e mandrie, i vermi pullulanti nel corpo di pecore e suini allevati fino all’alba del Novecento, tubercolosi e brucellosi endemiche tra le vacche rinchiuse in stalle malsane e costrette al faticoso tragitto della monticazione. Nell’alone dell’utopia zootecnica anche latticini e insaccati del tempo dei nonni assurgono a quintessenza di sapidità e di salubrità, come può immaginare solo chi ignori le condizioni igieniche delle produzioni rurali di un tempo, la pluralità di muffe e parassiti che pullulavano negli alimenti, nel caso degli insaccati le spore portatrici di verminosi mortali. 

¹Claude Aubert, fondatore di Terre Vivante, prenderà parte al 36° convegno internazionale sulla biodinamica.




Laureato in Giurisprudenza e in Scienze Agrarie, Antonio Saltini ha iniziato la propria avventura giornalistica al glorioso (seppure decaduto) Giornale di agricoltura dell'editrice romana Reda. Trasferitosi alle Edagricole, è stato direttore di Genio rurale, anch'essa testata storica della cultura agronomica nazionale, quindi, a fianco di Luigi Perdisa, allora arbitro della pubblicistica agraria italiana, vicedirettore di Terra e Vita, dividendosi tra la puntuale analisi della politica agricola romana, negli anni '70 e '80 particolarmente turbinosa, e le numerose missioni di studio delle agricolture estere. Ha concluso la propria parabola tornando, quale docente di Storia dell'agricoltura, all'amata Facoltà milanese. La sua opera maggiore è costituita dalla Storia delle scienze agrarie, sette volumi sulla letteratura agronomica dell'Occidente, attualmente tradotta in inglese con il titolo di Agrarian Sciences in the West.





Nessun commento:

Posta un commento

Printfriendly