venerdì 6 marzo 2020

LA RESISTIBILE ASCESA DEL BIOLOGICO

di LUIGI MARIANI


L'articolo è tratto da " I TEMPI DELLA TERRA" |n° 4|

Riso da agricoltura convenzionale (a sinistra) a confronto con riso da agricoltura biologica (a destra). Per quest'ultimo si noti la fortissima infestazione da malerbe che nella risicoltura biologica costituisce di norma il principale fattore di riduzione delle rese rispetto a quella convenzionale. Foto Flavio Barozzi ripresa a Confienza (PV) nell'ottobre 2018.


In principio era il bio

Fino al XVIII secolo l’agricoltura mondiale era tutta “biologica”, nel senso che gli unici concimi erano quelli organici (letame in primis) e i fitofarmaci erano quasi del tutto assenti. Ciò si traduceva in perdite produttive enormi e in rese praticamente immutate rispetto a quelle dell’epoca augustea. Nel XIX secolo il nostro quadro di conoscenze è stato totalmente rivoluzionato grazie all’opera di scienziati come De Saussure, Liebig, Lawes e Gilbert che hanno scoperto le basi della nutrizione vegetale e Gregory Mendel che ha svelato le leggi dell’ereditarietà dei caratteri. Ciò ha costituito le basi per affrontare il problema alimentare creatosi con l’esplosione demografica del XX secolo e che è stato risolto tramutando le scoperte scientifiche nella tecnologia della rivoluzione verde. In tale contesto fortemente innovativo si sono tuttavia sviluppate alcune agricolture “passatiste” (biologico, biodinamico, permacultura, ecc.) che mirano al ritorno a tecnologie “naturali”. Fra tali agricolture uno spazio di un certo rilievo è stato assunto dal biologico, che oggi produce il 2% del cibo a livello mondiale e che può essere definito come un Sistema agricolo integrato che mira alla sostenibilità, al miglioramento della fertilità del suolo e della diversità biologica e che, salvo eccezioni, proibisce i fitofarmaci di sintesi, i fertilizzanti di sintesi, gli organismi geneticamente modificati, gli antibiotici, gli ormoni della crescita (per maggiori approfondimenti si vedano ad esempio Treadwell et al., 2015; Martin, 2009 e Gold, 2016).


Alcuni dati sul biologico

A livello di superfici globali investite a biologico (figura 1) il contributo più rilevante viene dall’Australia (12.2 milioni di ha sui 37,4 globali) seguita da Europa e America Latina. Della superficie globale a biologico il 63% è investito a prati e pascoli (figura 2) che di biologico hanno poco o nulla nel senso che nessuna pratica agronomica specifica le distingue da quelle destinate al convenzionale. I principali produttori di bio in Europa sono la Spagna (1.7 milioni di ha) e l’Italia (1.2 milioni di ha).

Figura 1 – Ripartizione nei diversi continenti dell’agricoltura biologica.

 
Figura 2 – Ripartizione delle superfici globali ad agricoltura biologica.

In Italia il trend di crescita del biologico è trainato dalle superfici a foraggere che costituiscono il 51% del totale a biologico (figura 3). A ciò si aggiunge un 21% di oliveti, frutteti e vigneti nei quali non è da escludere che si nascondano vaste superfici abbandonate. Si noti inoltre che i produttori bio italiani non crescono da anni (erano 58mila nel 2001 e sono 57mila nel 2016) per cui le superfici aumentano nelle aziende che già praticano il biologico. Inoltre l’agricoltura biologica è pesantemente assistita con denaro pubblico nel senso che il 45% del reddito netto deriva da contributi comunitari contro il 31% delle aziende convenzionali (Mipaaft e Crea, Bioreport 2017-2018 – pag. 24).

Figura 3 - Andamento delle superfici a biologico. Si noti che la crescita è trainata dalle superfici a prato e pascolo il che ci porta a essere dipendenti dall’estero per cereali, frutta e verdura.

 
Il successo del biologico sulle nostre tavole

Le vendite al dettaglio di alimenti biologici sono aumentate costantemente dalla fine del XX secolo passando dai 20,39 miliardi di dollari del 2008 ai 45,21 del 2017 negli Stati Uniti e raggiungendo in Europa i 30 miliardi di euro nel 2015. Questo sviluppo avviene a fronte di prezzi di mercato sensibilmente superiori a quelli del cibo convenzionale (fino a più del doppio) e che si giustificano con i maggiori costi di produzione legati ad esempio al maggiore impiego di manodopera e con il fatto che il biologico produce dal 15 al 75% in meno del convenzionale a seconda della coltura considerata. Tale rilevantissimo calo di resa ha luogo soprattutto per tre ordini di moti:
  • l’utilizzo di varietà vegetali e razze animali “antiche” e pertanto scarsamente produttive; 
  • una nutrizione vegetale inadeguata specie per quanto riguarda l’azoto, in virtù del mancato uso dei concimi di sintesi. Ciò si traduce ad esempio nel fatto che l’azoto non può essere apportato al momento in cui si rivela più essenziale per determinare la quantità e qualità del prodotto, come nel caso del frumento in cui la resa e l’elevato tenore proteico dipendono da 2-3 concimazioni in copertura con concimi di sintesi (urea, nitrato d’ammonio o altri);  
  • una scarsa efficacia nel contrastare la competizione di parassiti, patogeni e malerbe legata alla mancata adozione di fitofarmaci di sintesi moderni.
Un approfondimento sulle scarse rese del biologico

La Francia è il maggior produttore europeo di frumento tenero, cereale chiave per la sicurezza alimentare globale e con riferimento a tale coltura vanta una validissima tradizione agronomica. In biologico, il frumento ha una resa media di 29 quintali per ettaro, contro i 73 quintali di quello convenzionale (Academie d’agriculture de France, 2017 – figura 4) e dati analoghi emergono per varie altre colture per la stessa Francia (INRA, 2013) per gli USA (Kniss et al., 2016) e per altri Paesi, come si può desumere dalla sintesi riportata in tabella 1 e tabella 2.
 
Figura 4 -  Rese del frumento tenero francese di agricoltura convenzionale (barre gialle - resa media per il periodo 2007-2015 di 73 q/ha) e biologica (barre verdi - resa media per il periodo 2008-2015 di 29 q/ha, pari al 68% in meno rispetto al convenzionale). (Fonte: Académie d’agriculture de France, 2017 – elaborazioni su dati SCEES, ONIGC, Agreste et FranceAgriMer).

Tabella 1 – Cali di resa in biologico rispetto al convenzionale secondo dati di pieno campo.

 
Tabella 2 – Rapporto fra i rendimenti in agricoltura biologica e convenzionale AB/AC a livello nazionale francese per alcune produzioni vegetali da varie fonti (INRA, 2013 – tabella 1 – pagina 25).


Non si può tuttavia trascurare che sulle minori rese del biologico esiste anche una bibliografia internazionale fondata su metanalisi di lavori scientifici spesso eseguiti su prove parcellari e che evidenzia cali di resa più ridotti. Più nello specifico Badgley et.al. (2007) analizzando i risultati di 293 lavori scientifici indicano una riduzione di resa media dell’8%, De Ponti et al. (2012) analizzando i risultati di 362 lavori scientifici indicano una riduzione di resa media del 20%, Muller et al. (2017) indicano riduzioni di resa dall’8 al 25% e infine Seufert & Ramankutty (2017) indicano riduzioni di resa dal 5 - 9% al 30 - 40% a seconda delle condizioni.
Si deve credere ai dati di pieno campo o ai dati di metanalisi? Da parte mia sono convinto che i dati parcellari (che sono l’ossatura su cui si reggono le metanalisi succitate) non siano rappresentativi del pieno campo nel senso che a livello parcellare i fattori negativi (malerbe, fitopatie, stress abiotici, nutrizione azotata insufficiente, ecc.) che in pieno campo cooperano a decurtare le rese non dispiegano mai appieno la loro varietà e potenza, in quanto gli sperimentatori hanno di norma l’obiettivo di mettere in luce unicamente la rilevanza dei trattamenti adottati, il che si ottiene impiegando la logica del “ceteris paribus” nei confronti degli altri fattori in gioco.
Tale tesi è confermata da Kravchenko et al. (2017) che giungono alle stesse conclusioni da me espresse operando sei anni di confronto fra biologico e convenzionale a tre diverse scale spaziali: 200 m² (parcelle), 1 ha (parcelloni) e appezzamenti con area compresa fra 6-36 ha (appezzamenti commerciali). L’ambiente di prova è un sito nel Sudovest dello stato del Michigan (Usa) con agricoltura non irrigua e le specie considerate sono state mais, soia e frumento in rotazione. Ad esempio le rese del mais nell'area di studio e nelle annate più favorevoli (piovosità buona nel periodo aprile-luglio) sono di 10 t/ha per il convenzionale contro 4 t/ha per il biologico (-60%) mentre nelle annate meno favorevoli (piovosità scarsa nel periodo aprile-luglio) le rese si attestano su 2 t/ha sia per il mais convenzionale sia per quello biologico.
Le conclusioni di Kravchenko et al. (2017) sono che le prove parcellari hanno rese simili a quelle di pieno campo per il convenzionale ma non per il biologico, il quale in pieno campo presenta in genere rese sensibilmente inferiori, con un effetto più rilevante per mais e soia, colture per le quali la gestione biologica è più soggetta alle condizioni meteorologiche avverse (periodi a piovosità persistente) che in varie annate impediscono una tempestiva esecuzione del diserbo meccanico in pieno campo con rilevanti perdite produttive dovute alla competizione delle malerbe.
La conclusione espressa dagli autori è pertanto che se il fine è quello di determinare il gap produttivo esistente fra biologico e convenzionale, un’attenzione molto più forte dovrebbe essere data alle sperimentazioni di pieno campo rispetto a quelle parcellari.

 

I timori del consumatore

All’origine dell’accresciuto interesse del pubblico per il biologico, vi sono le preoccupazioni per gli impatti ambientali dell’agricoltura intensiva cui si uniscono le preoccupazioni per gli impatti sulla salute dei residui di fitofarmaci e del consumo di cibo prodotto con piante geneticamente modificate (Adamchak, 2019) e il preconcetto secondo cui il cibo biologico avrebbe caratteristiche organolettiche superiori a quello convenzionale.
Le preoccupazioni per gli impatti ambientali dell’agricoltura intensiva sono enfatizzate dal movimento ecologista che ha a mio avviso smarrito la visione quantitativa dei fenomeni con cui si confronta. Come non considerare infatti che l’adozione generalizzata di un’agricoltura che produce il 50% in meno porterebbe inevitabilmente a raddoppiare le terre coltivate? Tale fatto, del tutto intuitivo, emerge con grande evidenza in termini qualitativi da un lavoro scientifico del 2010 di Burney et al., i quali adottando strumenti modellistici, hanno analizzato le rese, l’occupazione di suolo e le emissioni di CO₂ equivalente dell’agricoltura attuale confrontandole con quelle di un’agricoltura tecnologicamente cristallizzata alle tecnologie del 1961 e che possiamo per livello di intensificazione equiparare a un’agricoltura biologica. Nello specifico gli autori evidenziano che per sopperire alle maggiori richieste della crescente popolazione mondiale l’agricoltura tecnologicamente ferma al 1961 avrebbe dovuto raddoppiare le terre coltivate (3,2 miliardi di ettari contro gli 1,5 dell’agricoltura attuale) e quadruplicare le emissioni di gas serra (6 GT ci Carbonio contro le 1,4 attuali) con un impatto ambientale del tutto insostenibile.
Fra gli elementi d’insostenibilità ambientale del biologico citiamo inoltre:

  • la mancanza di reali alternative all’uso del rame come fungicida, molecola con problemi di tossicità per l’uomo nettamente superiori a quelli, ad esempio, del glyphosate e con con rilevante impatto ambientale sul suolo e sugli ecosistemi acquatici (Ballabio et al., 2018); 
  • le emissioni di gas serra della zootecnia estensiva propugnata dai biologici e che secondo stime riferite agli USA sono triple rispetto a quelle della zootecnia intensiva (Capper et al., 2009); 
  • le più rilevanti emissioni di gas serra per unità di prodotto proprie del biologico ed evidenziate ad esempio da Searchinger et al. (2018) per pisello e frumento e da Bacenetti et al. (2017) per riso. 
Circa poi gli impatti sulla salute dei residui di fitofarmaci non ritengo che tale problema sia oggi rilevante nell’Unione Europea. Infatti l’analisi dei residui di fitofarmaci nei prodotti agricoli per il 2017 (EFSA, 2018) mostra che, su 30852 campioni analizzati nel 2017, 28912 (94%) da convenzionale e 1940 (6%) da biologico, 126 (6.5%) dei campioni biologici e 12857 (44.5%) dei convenzionali presentano residui di uno o più fitofarmaci. I residui individuati sono entro i limiti di legge per il 98.8% per il convenzionale e per il 99.8% per il biologico ed i campioni che superano i limiti sono spesso solo lievemente al di sopra dei limiti stessi. Si consideri infine che i limiti di legge sono stabiliti in modo molto prudenziale in quanto le dosi giornaliere massime tollerate nei nostri cibi (Acceptable Daily Intake ADI in mg/kg di peso) sono pari a 1 centesimo della dose risultata innocua negli esperimenti su animali (No-observed-adverse-effect level - NOEL).
Circa poi gli eventuali effetti negativi sul consumo di cibo prodotto con piante geneticamente modificate, la metanalisi condotta da Pellegrino et al. (2018) evidenzia che il consumo di mais geneticamente modificato è consigliabile sia per la più elevata qualità del prodotto che sia la minore esposizione dei consumatori alle micotossine. Tale conclusione è del resto confermata dal fatto che l’Unione Europea proibisce la coltivazione di colture OGM ma in modo ipocrita e dannoso per i nostri produttori agricoli e non ha mai limitato le importazioni di granella di mais e soia provenienti da colture OGM e che sono correntemente utilizzate nei nostri allevamenti.
Per quanto attiene poi alla qualità nutrizionale dei prodotti alimentari biologici, Dangour e collaboratori (2009) hanno condotto un’analisi sistematica degli studi pubblicati tra il 1958 e il 2008, concludendo che la qualità nutrizionale dei prodotti da agricoltura biologica non presenta differenze significative rispetto a quella dei prodotti da agricoltura convenzionale. Ciò è stato evidenziato per 10 sostanze nutritive e relativi componenti di rilevanza nutrizionale (fra cui la vitamina C, il magnesio e i composti fenolici). Si sono al contempo evidenziate tre eccezioni date dal livello di azoto (superiore negli alimenti convenzionali), dal fosforo e dall’acidità titolabile (entrambi superiori nei prodotti biologici). A tale riguardo si noti che Il più alto livello di azoto indica un maggiore tenore proteico nei prodotti da agricoltura convenzionale, che i più bassi livelli di fosforo indicano una minore disponibilità di quello che è un elemento chiave per la crescita e lo sviluppo delle ossa ed infine che la più elevata acidità titolabile indica un minor livello di maturazione. In sintesi dunque mentre i consumatori sono spesso convinti che gli alimenti biologici abbiano miglior gusto, colore e sapore (Williams, 2002), non vi sono prove convincenti a favore della superiorità dei prodotti biologici in termini di qualità organolettiche (EUFIC, 2013; Bourn, 2002; Kouba, 2003). Al riguardo si segnala anche che test sensoriali “ciechi” hanno mostrato poca o nessuna differenza tra alimenti biologici e convenzionali (Haglund, 1998; Jönsall, 2000).
In tema di qualità si evidenzia inoltre che il ritorno dei produttori biologici a varietà di frumento “antiche” implica uno scadimento qualitativo nelle caratteristiche tecnologiche che emerge da figura 5, da cui si coglie l’abisso in termini qualitativi esistenti fra varietà selezionate ai primi del ‘900 (Timilia e Russello) e le selezioni più recenti come Creso e Simeto. Di queste caratteristiche oltre che dell’omogeneità delle partite tiene conto l’industria agro-alimentare quando esegue gli acquisti di materia prima per pasta, pane e altri prodotti da forno, per cui indirizzare i produttori agricoli verso varietà “antiche” significa ignorare le esigenze dell’industria spingendola sempre più ad approvvigionarsi all’estero.


Figura 5 – Qualità del glutine espressa come indice alveografico Wa (de Vita et al., 2007).

Il paradosso della dipendenza del biologico dal convenzionale

La grande espansione del biologico a livello europeo e italiano, da anni spinta dall’azione lobbistica delle sue organizzazioni di produttori, potrebbe paradossalmente rivelarsi un problema per il biologico stesso, in virtù della sua strettissima dipendenza dall’agricoltura convenzionale. Ci si domanda infatti come farebbero i produttori bio in assenza di convenzionale:

  • a procurarsi la sostanza organica di origine animale (letame, pollina, cornunghia, ecc.) di cui abbisognano per concimare i propri campi e che viene oggi prodotta dagli allevamenti convenzionali grazie a mangimi OGM e a foraggi ottenuti con concimi di sintesi e fitofarmaci non ammessi in biologico;
  • ad affrontare l’assalto di parassiti e patogeni che oggi vengono abbattuti dall’agricoltura convenzionale grazie a tecniche di difesa razionali. Al riguardo si veda il caso dell’abbattimento dei livelli di infestazione di piralide negli USA che consegue all’uso di mais OGM di tipo BT e che si rivela favorevole ai produttori biologici, come evidenziato da Dively et al. (2018);
  • a procurarsi il piretro necessario per la difesa delle loro colture e che viene prodotto in paesi come la Tanzania con tecniche di agricoltura convenzionale.

Tali rapporti di dipendenza rendono a dir poco sgradevole la carica d’odio che le associazioni del biologico nutrono nei confronti dei loro colleghi che praticano l’agricoltura convenzionale e che traspare ad esempio dalla copertina dell’edizione 2018 del report di Federbio “Cambia la terra” (figura 6) in cui si accusa l’agricoltura convenzionale di inquinare l’economia e il pianeta trascurando il fatto che dal convenzionale dipende oggi il 98% della sicurezza alimentare globale.
Per inciso segnalo che per ragioni di coerenza rispetto alla propria scelta “naturale”, i produttori biologici non dovrebbero a mio avviso attingere a fitofarmaci prodotti dall’industria agrochimica con metodi che di naturale hanno ben poco (es. zolfo ottenuto da desolforazione dei carburanti o molecole a base di rame frutto di sintesi industriali).
Figura 6 – La copertina del rapporto Cambia la terra del 2018.

Il lavoro vincente del marketing del biologico

Sulle aspettative e le ansie del consumatore ha giocato un sistema commerciale che in modo estremamente pragmatico ha colto nel biologico il mezzo per creare una nicchia di mercato a prezzi elevati in nome di una presunta superiorità in termini di qualità e salubrità. Sul pragmatismo del settore commerciale non mi sento di esprimere giudizi etici generali, in quanto in un’economia di mercato ognuno è libero di operare come meglio crede, ovviamente nel pieno rispetto delle leggi. Un giudizio etico specifico mi sento tuttavia di esprimerlo con riferimento all’operato della COOP, che essendo una cooperativa che ha molti consumatori fra i propri soci dovrebbe a mio avviso evitare di spingere i propri utenti a stili di consumo (biologico, vegano) che portano ad aggravi ingiustificati alle loro spese per l’acquisto di cibo oltre a possibili danni alla salute nel caso specifico delle diete vegane.

Il ruolo negativo giocato dai governi e il disegno di legge 988

Un ruolo importante nella crescita del settore biologico è stato fin qui giocato dai governi europei che nell’autosufficienza alimentare non vedono più un valore e una priorità, per cui tendono oggi a scaricare su altri Paesi l’onere della produzione di cibo, un po’ come in passato fu fatto con l’industria chimica. Si spiega così l’apparente paradosso per cui i governanti Europei da un lato protestano per la distruzione delle aree forestali in atto in varie parti del mondo (Brasile in primis) e dall’altro ignorano o peggio fingono di ignorare che se si riducono le rese puntando sul biologico sarà inevitabile che al nostro fabbisogno sopperiscano altri, come del resto accade da tempo con la soia transgenica necessaria per i nostri allevamenti di bestiame e che importiamo in ingenti quantità dal Brasile.
Con riferimento al concetto di promuovere l’agricoltura intensiva per proteggere il bosco, ben espresso dalla figura 7, si prega di riflettere anche sui dati in figura 8, che illustrano la stupefacente espansione del bosco in Italia dal 1910 al 2015 (+144%) per effetto dell’abbandono delle aree agricole più marginali in ambito collinare e montano.
Una cartina di tornasole della totale insensibilità dei nostri rappresentati al parlamento europeo ai temi dell’innovazione in agricoltura che si unisce a un’inveterata abitudine a cavalcare la tigre dell’ambientalismo più deteriore è stata rappresentata dalla mozione del capogruppo verde Maria Heubuch, approvata l’8 giugno 2016 a larghissima maggioranza (577 favorevoli, 24 contrari e 69 astenuti). Tale mozione ha bloccato i fondi per la New Alliance for Food Security and
Nutrition, creata in ambito G8 per stimolare l’innovazione tecnologica dell’agricoltura africana, impegnando altresì il parlamento europeo a limitare i finanziamenti futuri in Africa alle sole agricolture di sussistenza, con l’obiettivo di “evitare alle agricolture africane i disagi connessi all’innovazione tecnologica” (Mariani, 2016).

Figura 7 - L’eventuale diffusione a livello globale delle agricolture a basse rese porterebbe alla distruzione delle foreste e delle praterie naturali. E’ questo il futuro che vogliamo? La proposta non può essere che quella di un’agricoltura integrata che dia luogo a una intensificazione sostenibile sul piano economico, sociale e ambientale (fonte:https://www.chalmers.se/en/departments/see/news/Pages/Organic-food-worse-for-the-climate.aspx intervista al prof. Wirsenius della Chalmers University of Technology, Sweden in merito al lavoro scientifico di Searchinger et al. (2018)).


 
Figura 8 – All’affermarsi dell’agricoltura intensiva si deve l’enorme espansione che sta vivendo la superficie forestale in Italia aumentata dal 144% in 100 anni. I dati 1910-1985 provengono da Conti e Fagarazzi (2005) mentre i dati 1990-2015 provengono da  http://blog.zonageografia.scuola.com/2015/litalia-diventa-sempre-piu-verde-oltre-200-alberi-testa.

Un ulteriore tassello di tale quadro assai poco edificante è costituito dal Disegno di Legge 988Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico”, approvato dalla Camera l’11 dicembre 2018 e attualmente in discussione in Senato. L'idea di fondo cui si ispira il DDL è quella di porre il bio (biologico e biodinamico) al centro del sistema agro-alimentare italiano e come tale ci pare la più genuina espressione della lobby bio, che dal DDL si attende ulteriori fondi per proseguire nelle sue attività.

L’idea di mettere il bio al centro del sistema agroalimentare italiano è irrazionale e antistorica in quanto:

  1. non esiste alcun settore economico (tantomeno l'agricoltura) che possa aspirare a un reale sviluppo ripiegandosi su tecnologie dei primi del '900 (ve li immaginate produttori di auto o imprese edili che realizzassero i loro prodotti con le tecnologie di fine ‘800? Che garanzie di sicurezza potrebbero mai dare ai loro clienti?). Ecco, in agricoltura il biologico ripropone tecnologie di fine ‘800 mentre il biodinamico ripropone tecniche a base magica già avversate 2000 anni orsono dal più grande agronomo romano Lucio Giunio Moderato Columella;
  2. si confondono nicchie (filiere per cibo a prezzi elevati destinati a elites urbane con buone capacità di spesa) con il core business del sistema agricolo-alimentare italiano (produzione di cibo di qualità e a prezzi contenuti; materie prime di qualità e in partite di dimensioni adeguate alle grandi filiere produttive del made in Italy - prosciutti, formaggi, pasta, ecc. che mai e poi mai dovrebbero dipendere dall'estero per la materia prima);
  3. il bio è insostenibile per ragioni ecologiche a livello globale e seri dubbi sussistono anche a livello aziendale (in quanto dipende dall’agricoltura convenzionale - cui vorrebbe "fare le scarpe" - per la sostanza organica e i nutrienti);
  4. si perpetua l’idea che il bio grazie alle molte inefficienze che lo caratterizzano, arriva sul mercato con prodotti che a parità di qualità presentano prezzi assai più elevati di quelli da agricoltura convenzionale – possa godere di sussidi pubblici aggiuntivi come premio per tale inefficienza;
  5. si dimentica che l’agricoltura di riferimento per coniugare rese elevate, qualità alta e sostenibilità è costituita oggi dall’agricoltura integrata, la quale coniuga le migliori tecnologie nell’ambito della genetica (specie e varietà in grado di offrire le migliori performance sul piano quali-quantitativo) e delle tecniche colturali (tecniche di agricoltura conservativa, difesa integrata, fitofarmaci a basso impatto ambientale, ecc.);
  6. si dimentica che puntare su agricolture scarsamente produttive come quelle bio è un lusso che non può permettersi un paese che nonostante disponga di 13 milioni di ettari di superficie agricola utile, presenta livelli di autosufficienza alimentare in scostate calo: già oggi copriamo solo il 70% del nostro fabbisogno e ad esempio importiamo il 50% del frumento per la pasta e il pane e il 50% dei mangimi zootecnici che sono necessari a produrre alcuni dei nostri maggiori generi da esportazione (i due formaggi grana e i due prosciutti crudi di San Daniele e Parma);
  7. si mettono in discussione i fondamenti razionali del nostro sistema sementiero (registro varietale e certificazione), peraltro propri dei sistemi sementieri di tutte le agricolture evolute, introducendo concetti come quelli della "selezione partecipata" e cioè un meccanismo che applicato in modo inconscio per millenni non ha portato alcun benefico (nel 1910 in Italia il frumento tenero aveva una produttività di 10 quintali per ettaro contro i 60 odierni);
  8. si mette in discussione il sistema di formazione agraria universitaria (che senso ha nel XXI secolo definire percorsi formativi fondati su tecnologie di fine’800 o a base magica?);
  9. si introduce un sistema di entità partecipative confliggenti e concorrenti con altre previste dal nostro ordinamento (Area vasta - ex Provincie, Comunità Montane, ecc.).
Si tratta di un disegno di legge fortemente voluto dai partiti oggi al governo e nei confronti del quale l’opposizione degli altri gruppi parlamentari è stata fin qui assai poco incisiva, per cui la sua approvazione dovrebbe essere a questo punto nell’ordine delle cose, il che costituirà uno dei tanti vulnus a un’economia nazionale che non viaggia certo a gonfie vele.

Gli strumenti culturali per contrastare l’ascesa del biologico 

 
Nel corso degli ultimi 150 anni la nostra cultura agronomica ha prodotto una messe enorme di strumenti interpretativi atti a porre in luce l’importanza dell’innovazione in agricoltura. Interessante a tale proposito è l’esempio offerto da Camillo Benso Conte di Cavour, il quale fra il 1840 e il 1860 fu pioniere nell’uso dei concimi di sintesi e dei fitofarmaci in viticoltura. Mi preme inoltre portare all’attenzione dei lettori la riflessione che fece nel 1901 Jean Jaurès, esponente del partito socialista francese di cui sarà poi segretario, sul periodico L’Umanitè. Di tale riflessione sono peraltro venuto a conoscenza leggendo l’encomiabile testo di Jean de Kervasdoué “Ils ont perdu la raison” (1914) che costituisce a mio avviso il più incisivo “J’accuse” contro il biologico e la deriva antitecnologica che a partire dagli anni ’90 del XX secolo ha incredibilmente colto il mondo politico francese, specie quello di stampo più progressista. Scriveva Jaurès: “Le cosiddette produzioni naturali non sono per la maggior parte - almeno quelle che soddisfano i bisogni dell'uomo – opera spontanea della natura. Né il grano né la vite esisterebbero se alcuni uomini, grandi geni sconosciuti, non li avessero lentamente selezionati da graminacee e viti selvatiche. È l'uomo che ha intuito in poveri semi tremanti nel vento dei prati il futuro tesoro di grano. È l'uomo che ha forzato la linfa della terra a condensare la sua sostanza più fine e saporita nel chicco di grano o a gonfiare il chicco delle uve. Gli uomini smemorati oggi confrontano quello che chiamano vino naturale con il vino artificiale, le creazioni della natura con le combinazioni di chimica. Non c'è vino naturale, non c'è grano naturale. Pane e vino sono un prodotto del genio dell'uomo.”
Un ulteriore contributo ci viene dal bel libro del 1930 “La politica granaria di Roma antica” dell’agronomo Alberto Oliva nella cui introduzione l’autore delinea i pilastri della rivoluzione verde scrivendo in particolare che “La tecnica moderna, in confronto a quella antica, assieme a molti mezzi tecnici nuovi e perfezionati, ne dispone di due poderosi per risolvere in pieno il problema granario mondiale: razze a prodigiosa capacità produttiva ed azoto a buon mercato ricavato industrialmente dalla miniera inesauribile dell'aria”. Tale brano ci rimanda al processo di sintesi dell’ammoniaca a partire dall’azoto atmosferico (processo di Haber-Bosch – 1908) che è una delle più grandi invenzioni del XX secolo (Erisman et al., 2008) in quanto oggi soddisfa il 48% del fabbisogno proteico globale dell’umanità (Smil, 2002). Peraltro secondo recenti analisi condotte in ambito FAO l'obiezione, avanzata dai sostenitori del biologico, secondo cui per evitare il ricorso ai concimi azotati di sintesi basterebbe ridurre l’allevamento del bestiame destinando direttamente all'alimentazione umana le proteine ad esso destinate, dev’essere valutata alla luce del fatto che l'86% degli alimenti zootecnici è costituito oggi da sostanze inadatte all'alimentazione umana (foraggi, paglie, sottoprodotti alimentari, scarti di processi agro-industriali, ecc.) e che per produrre 1 kg di carne senza ossa ricca di proteine con valore biologico elevatissimo occorrono circa 2,8 kg di alimento utilizzabile anche dall'uomo per i poligastrici e 3,6 per i monogastrici (Mottet et al., 2017). Gli stessi autori pongono in luce che la zootecnia a livello globale consuma sì il 33% dei cereali ma produce il 25% delle proteine e il 18% delle calorie delle diete umane.
L’approccio sistemico e razionale alla gestione delle colture è altresì presente nei testi di Agronomia che hanno formato intere generazioni di agronomi. Fra i tanti segnalo il testo di agronomia di Francesco Bonciarelli (1978) che è stato il mio testo di riferimento all’università e che con estrema chiarezza evidenzia il ruolo chiave dell’innovazione nell’agricoltura moderna.
Occorrerebbe allora domandarsi per quali ragioni sia stato tanto debole il contrasto offerto dal mondo agronomico italiano all’espansione di un’agricoltura palesemente inefficiente e per di più afflitta
da elementi pseudoscientifici preoccupanti, fra cui l’uso dei farmaci omeopatici in zootecnia o il rifiuto dei concimi di sintesi fondato sul fatto che la molecola d’urea prodotta dalla pancia di un mammifero è buona e quella del tutto indistinguibile prodotta dal processo Haber Bosch è cattiva e renderebbe sterili i suoli. Tali elementi pseudoscientifici raggiungono peraltro il loro apogeo in quella branca del biologico che è nota come agricoltura biodinamica, al quale basa il ripristino della fertilità su sabbie e concimi attivati da non meglio precisate “energie cosmiche” e distribuiti in dosi omeopatiche (Kutschera 2016).

L’attualità e le prospettive dell’agricoltura

L’agricoltura convenzionale sta cambiando paradigma portandosi sempre più verso l’idea di un’intensificazione sostenibile che trova espressione nel concetto di agricoltura integrata, intesa come l’agricoltura che integra le migliori innovazioni nei settori della genetica e delle tecniche colturali al fine di ottenere produttività elevata e alta qualità in un contesto di sostenibilità (economica, sociale e ambientale). Tale transizione è oggi inevitabile se vogliamo essere in grado di nutrire una popolazione mondiale che nel 2050 raggiungerà i 10 miliardi (United Nations, 2018), sempre più inurbati in sterminate megalopoli (figura 9). 
Figura 9 - Le 10 città più popolose del mondo (fonte: Wikipedia).

Al riguardo si ricorda infatti che già oggi le megalopoli con oltre i 10 milioni di abitanti sono 47 mentre nel 1945 erano solo due, che le metropoli con almeno 1 milione di abitanti sono 500 e concentrano oggi due miliardi di persone (1/4 della popolazione mondiale) e che la popolazione rurale è ferma da 20 anni a 3,3 miliardi di individui. Tali fenomeni attualmente in atto faranno sì che l’agricoltura del 2050 sarà a mio avviso caratterizzata da:
  • enormi progressi nei settori della genetica vegetale e animale e delle tecniche colturali;  
  • efficienza sempre maggiore: oggi nutriamo 7,5 miliardi di abitanti su 1,5 miliardi di ha di arativi (0,2 ha per abitante) mentre nel 2050 avremo 10 miliardi di abitanti che si alimenteranno, se tutto va bene, sempre su 1,5 miliardi di ha (0.15 ha per abitante);  
  • apparati logistici (magazzini, trasporti, ecc.) sempre più complessi per rifornire con tempestività città sempre più vaste e labirintiche;  
  • filiere che vedranno la produzione agricola integrata in modo sempre più stretto con le altre componenti del sistema produttivo agricolo-alimentare;
  •  nicchie importanti per prodotti di elite (biologico incluso);
  •  enormi opportunità per prodotti certificati e tracciabili;  
  • tantissima inventiva (alghe, colture protette, idroponiche, itticoltura, ecc.);
  •  necessità di una professionalità sempre maggiore (basta pensare a cosa significa già oggi guidare un trattore o una mietitrebbia allo stato dell’arte, con GPS e tantissima elettronica di bordo);  
  • competizione sempre più acerrima che non si vincerà certo erigendo barriere commerciali giganti.
A fronte di tale ripensamento generalizzato in atto nell’agricoltura convenzionale, l’agricoltura biologica rimane ancorata agli schemi che l’hanno guidata fin dalle origini ed in particolare non pare in alcun modo cogliere le potenzialità insite nelle biotecnologie e che si sostanziano nello slogan “meno chimica e più genetica”. Ciò la condanna sul piano tecnologico alla più assoluta marginalità cui tuttavia si sottrae grazie agli argomenti che abbiamo in precedenza enucleato (azione di lobby, marketing che gioca sulle paure e le ansie del consumatore, insensibilità della classe politica alle ragioni dell’innovazione e agli scenari di lungo periodo).

Conclusioni

In modo molto sintetico credo si possa dedurre l’insostenibilità di un’agricoltura globale fondata sul biologico, in analogia con quanto ha concluso lo European Parliamentary Research Service nel suo recentissimo documento del marzo 2019 dal titolo “Farming without plant protection products. Can we grow without using herbicides, fungicides and insecticides?” in cui si conclude, fra l’altro, che “it is clear that organic farming, and its implementation in agro-ecology, is often not the best choice”.
Un ritorno al passato sarebbe oggi più che mai disastroso per l’agricoltura mondiale, tanto in termini ecologici, tanto in termini di sicurezza alimentare. Pertanto l’agricoltura è oggi chiamata ad una massiccia innovazione, specie nelle aree ancora afflitte da diffusa arretratezza e scarsissima produttività. Su questo il ruolo dei ricercatori, dei tecnici e degli agricoltori è e sarà fondamentale: davanti a noi ci sono un futuro di prosperità e un mondo libero dall'insicurezza alimentare a condizione di conservare la fiducia nell’innovazione.




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LUIGI MARIANI

Agronomo libero professionista, condirettore del Museo Lombardo di Storia dell’Agricoltura e vicepresidente della Società Agraria di Lombardia. Presso la Facoltà di Agraria di Milano insegna Storia dell’Agricoltura dopo essere stato docente a contratto di Agrometeorologia e Agronomia generale.





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