martedì 19 maggio 2020

MALATTIE INFETTIVE: COLPA DELL'AZIONE DELL'UOMO SULLA NATURA?

di ALBERTO GUIDORZI

 

 



Premessa


Ricordo che mia nonna diceva: “la colpa è come una bellissima donna che nessuno, però, si piglia”. Oggi, in presenza del coronavirus, per l’ecologismo ideologico invece questo detto popolare mi sembra abbia ben individuato un colpevole nell’esistenza stessa dell’uomo perché sempre più lo si fa apparire come un corpo estraneo nell’equilibrio del pianeta. Infatti, avendo egli distrutto gli ambienti naturali per sopravvivere come specie, è additato come il maggior colpevole della pandemia del COVID-19. Il dilemma è: ma è proprio vero che i virus diventano pandemici per l’uomo se questo crea ambienti con meno biodiversità? Evidentemente partendo da questo presupposto poi se ne elencano le varie declinazioni che implicano l’azione umana come: modificatrice degli habitat naturali, consumatrice di carne e prodotti ricavati dagli animali selvatici, creatrice della mondializzazione dei trasporti e del commercio ecc.

In altri termini l’uomo avrebbe letteralmente deregolamentato il pianeta estendendo in modo permanente la sua azione predatrice sugli ecosistemi e di conseguenza, a detta di molti, la natura ci punisce, dando così a questa una valenza divina con spodestamento del Dio delle tre religioni monoteiste. Il contesto, poi, era troppo propizio perché Greenpeace e WWF non scagliassero i loro anatemi per i cambiamenti climatici, il non rispetto della natura, i modelli di consumo e di produzione. A questi organismi, che in pratica non sono altro che grandi organizzatori di questue di denaro e per ottenerlo non lesinano azioni di ricatto, ha prestato il fianco persino il Papa con le sue ultime uscite sulle stesse tematiche. A nessuno però è venuto in mente di segnalare in via prioritaria che sul pianeta siamo quasi 8 miliardi di persone e ben presto saremo 10 miliardi e con numeri di questa portata non è immaginabile un confinamento dell’uomo in nicchie ecologiche o lo diventa facendo però eugenetica. Non solo, ma i primi uomini agricoltori di 7-8 millenni fa sono stati proprio loro ad andare nelle foreste e praticare il “taglia e brucia”; ciò fu l’inizio della creazione delle zone di savana (favorite poi da innumerevoli cambiamenti climatici ciclici succedutesi in un senso o nell’altro e di cui l’uomo era incolpevole). Stante questa evoluzione storica dovremmo dunque prendercela addirittura con la specie umana fin dalla sua evoluzione da cacciatore ad agricoltore o addirittura fin dalla sua comparsa sul pianeta. È di questi giorni la notizia apparsa sulla rivista “nature” (Umberto Lombardo et al.)¹ che proprio nell’Amazzonia boliviana si è forse scoperta una nuova regione di domesticazione (yucca, manioca, zucca…) di inizio Olocene (10.000 anni fa). Ora domesticazione è sinonimo di coltivazione e conseguentemente di modifica degli habitat. Ma per i novelli “Savonarola” la colpa deve ricadere per forza solo sull’uomo moderno, dimenticando però che in un secolo la popolazione si è quadruplicata, mentre la superficie sferica del pianeta è rimasta immutata. Almeno a partire dell’uomo preistorico e fino alle popolazioni umane di inizio secolo XX ci si poteva permettere di continuare ad abitare comodamente in nicchie e lasciare stare il resto del pianeta con la sua biodiversità! La realtà di oggi è, invece, che la crescita demografica ha obbligato l’uomo a modellare antropicamente la superficie del pianeta; certo lo si poteva fare con più criterio e con meno egoismo, ma tant’è che siamo arrivati a questa realtà: 


Parallelamente, però, dobbiamo anche mostrare i progressi che si sono fatti in merito alla denutrizione, allo sviluppo delle malattie e alla speranza di vita proprio nei paesi in via di sviluppo:




 



Il diagramma, nel fotografare la realtà attuale ci mostra in tutta la sua evidenza che l’ulteriore attesa crescita di popolazione e se non vogliamo modificare la biodiversità naturale contenuta in quel 28% di superficie inutilizzata, dovremo sfamare i 10 miliardi di persone con quel misero 12% che abbiamo disponibile, anche perché ben poco di coltivabile vi è nel restante 60% di terre utilizzate, al massimo si potrà fare allevamento brado, ma anche qui vi è l’alt perché gli erbivori emettono metano e l’uomo deve orientarsi al vegetarianesimo. Mi sembra quindi che sia anacronistica l’ipotesi di diminuire quel 12% di terre coltivate per far aumentare il 28% di terre inutilizzate come auspicano i movimenti ambientalisti, mentre, al contrario, risulta chiaro che l’unica soluzione possibile sia quella di intensificare la produzione sulle terre coltivate. È una cosa che abbiamo già fatto, tra l’altro, per aver dovuto dare da mangiare ai 4,5 miliardi di persone che si sono aggiunti negli ultimi 70 anni, solo che lo abbiamo fatto in modo non adeguatamente sostenibile per l’ambiente, ma comunque “sostenibile” per chi come me ha fatto parte di quei 4,5 miliardi che sono sopravvissuti. Certo d’ora in poi dovremo affinare le tecniche per rendere l’intensificazione sostenibile per il pianeta.

Stato delle malattie infettive moderne


Prima di tutto, la cosa che non si comprende è perché si vuol passare sotto silenzio che le malattie infettive sono enormemente diminuite nell’ultimo secolo, seppure siano aumentati di un considerevole numero gli agenti infettivi scoperti (ben 335)? Ma vi è di più, il 60% di questi agenti come Marburg, Ebola, HIV, Sars, coronavirus del Medioriente ecc. ci vengono proprio dalla fauna che vive laddove vi è maggiore biodiversità, mentre o sono divenute endemiche o sono stati sradicati tanti altri flagelli che hanno provocato milioni di morti nel passato. Certo se questi agenti infettivi nuovi fossero rimasti confinati non saremmo incorsi nella Sars, nel Mers o nel Covid, ma qui ritorniamo sul precedente discorso, che se la popolazione continua ad aumentare o invadiamo nuovi spazi oppure dobbiamo aumentare la produttività di quel 12% tramite proprio il controllo o l’eradicazione dei parassiti e/o concorrenti vegetali e animali delle coltivazioni. Uno studio della NASA² ci dice che potremmo risparmiare addirittura circa il 50% di quel 12% se limitassimo la coltivazione ai terreni più produttivi e se riuscissimo a raccogliere le potenzialità produttive già raggiunte; contemporaneamente si possono ricavare benefici ambientali sia nelle terre intensificate e tanto più in quelle libere per la ricomposizione di habitat. Se poi scorriamo la storia risulta evidente che nessuna delle grandi pandemie come la peste, il colera ed il vaiolo hanno atteso l’industrializzazione o la perdita di biodivesità e tanto meno il cambiamento climatico o l’allevamento industriale per scatenarsi. Lo hanno fatto quando l’ambiente era molto meno modificato di oggi. Insomma è evidente il gioco sporco di molti che ora cercano giustificazioni a posteriori delle loro battaglie anteriori alla pandemia.

Ma cos’è veramente questa benedetta biodiversità?

In un libro di Alain Pavé³ vi è l’interrogativo se la biodiversità possa essere un concetto statico, ossia fare il censimento della biodiversità in un dato momento e adoprarsi per mantenerla stabile. Sembrerebbe che questa sia l’idea che va per la maggiore oggi, solo che mi piacerebbe sapere, dato che di questa biodiversità fa parte anche l’uomo, se dobbiamo forse applicare anche alla specie umana il concetto di stabilità. Il Papa condivide questa prospettiva? Non solo, ma vi è da stabilire quale uomo conserviamo e con quali strumenti tecnologici? Alain Pavé alla fine, però, dimostra che la biodiversità non può altro che essere un concetto dinamico, anche quando non vi era la presenza dell’uomo, e che l’equilibrio tra le specie è sempre stato instabile. A proposito, però, di perdita di biodiversità con cui riempiono le loro elucubrazioni i guru dell’ambientalismo, bisogna dire che spesso le raccontano troppo grosse in fatto di estinzione. Infatti di frequente inducono artatamente nell’errore il lettore non precisando se trattasi della sparizione di specie o di individui della stessa specie; si gioca sull’equivoco e si legge che “in 40 anni è sparito il 58% dei vertebrati”, ma un conto è recepire (come spesso fa l’individuo sensibile, ma ignorante della problematica) che è sparito il 58% delle specie di vertebrati ed un altro conto è “che sono spariti il 58% degli effettivi distribuiti tra le varie specie di vertebrati”. Ecco che allora se interpretiamo i dati come specie scomparse la verità è che negli ultimi 4 secoli sono sparite 780 specie (evidentemente le meno adatte a sopravvivere) dei 5 milioni di specie stimate esistere sulla terra. Tuttavia, non avendole mai contate con precisione il dato è sempre stimato per difetto e a questo proposito si riporta una tabella che la dice lunga sulle nostre conoscenze in merito.


 

Ora se una specie è scomparsa non si potrà più rifare, ma se una specie è diminuita di effettivi, finché non scompare può essere destinata a rifarsi al mutare delle condizioni, anzi essendo rimasti i più adatti all’ambiente cambiato la loro diminuzione avrà un trend di scomparsa di gran lunga più lento di prima. Altro fatto che non può essere tralasciato è che la biodiversità la si deve valutare per lunghissimi periodi e non sul trascorrere di qualche generazione umana. Infatti dal Cambriano (circa 550 milioni di anni fa) vi sono state cinque grandi estinzioni di massa e ogni volta la vita sul pianeta e la relativa biodiversità (molto cambiata tra l’altro) si è ripresa più bella di prima. Se poi ci si limita alle sole specie marine più conosciute, in quanto appunto esse lasciano delle tracce nei sedimenti, le specie di oggi sono 5 volte più numerose che all’inizio del Giurassico (150 milioni di anni fa). Se poi osserviamo nel corto periodo, come ad esempio 2000 anni, la diminuzione e/o l’aumento degli individui di una specie, si nota che queste variazioni sono repentine, erratiche e imprevedibili. Un esempio ci è dato dl numero delle sardine al largo della California che in un dato momento degli ultimi due millenni le popolazioni sono variate da 1 a 8 (Ferrières et Cazelle 1999) e in questo esempio non possiamo invocare la pesca sfrenata.

COVID, agricoltura e alimentazione

È bastato un semplice confinamento in Europa per far scattare l’accaparramento e determinare qualche penuria di prodotto sugli scaffali e soprattutto rincari non indifferenti che hanno messo fuori gioco dal disporre di cibo settori di popolazione che prima non erano mai andati alle mense di carità. Tuttavia la stragrande maggioranza di noi europei ha osservato dall’alto il fenomeno perché si sapeva che era una questione di rifornimenti non tempestivi e comunque i rincari li potevamo sopportare. Vogliamo analizzare invece cosa è capitato a livello planetario e quali scenari hanno portato alla luce: subito Russia e Ucraina hanno contingentato le esportazioni di grano, la stessa cosa hanno fatto altri due paesi esportatori di riso (Vietnam e Tailandia). Ciò ha fatto ad esempio riflettere la Francia e la sua popolazione si è subito consolata osservando che comunque la loro agricoltura li rendeva autosufficienti ed ha cominciato a vedere con altri occhi gli agricoltori, noi italiani invece, che la riflessione francese la dovevamo fare molto prima di loro, non abbiamo minimamente elaborato che siamo gravemente deficitari di grano duro e tenero, di mais, di soia ecc. non lo siamo nel riso, ma solo perché ne consumiamo poco (tuttavia l’accaparramento ha svuotato subito gli scaffali del riso anche in Europa). Abbiamo le cantine piene di vino, ma per contro ci siamo accorti che è grazie alla manodopera straniera se frutta e verdura arrivano puntualmente sulle nostre tavole e se questa manca il prodotto non si raccoglie. Sicuramente non abbiamo per nulla analizzato in questo frangente il commercio mondiale delle derrate e non ci siamo resi conto che in condizioni normali solo il 15% della produzione mondiale di derrate è disponibile sui mercati, non solo, ma che la tanto vituperata mondializzazione dei commerci se non funzionasse in situazioni come questa neppure quel 15% sarebbe disponibile (altro che fine della mondializzazione!). Guardiamo ad esempio il riso che è la derrata che nutre Asia e Africa, cioè circa la metà della popolazione mondiale. Ne produciamo 500 Mt (di grano se ne producono 750) e sul mercato di disponibile vi è solo il 9% (45 Mt per giunta controllato da sole 3 o 4 nazioni), il 91% del riso è autoconsumato e quindi è indisponibile. Si rifletta anche che la produzione di riso da inizio XXI sec. cioè in 20, anni è aumentata del 25% mantenendo sempre uguale la superficie di 165 milioni di ha seminata. Pensate se oggi mancassero queste 100 Mt di riso in quali situazioni sociali il pianeta si troverebbe, eppure l’aumento di produzione è additato da molte ONG come Greenpeace o WWF, un vero e proprio scempio fatto al pianeta. Vogliamo trasferire il ragionamento al frumento? La cosa ci riguarda da vicino perché se non riforniamo di pane il Nord Africa e tanti altri paesi con questi confinanti abbiamo la rivoluzione in casa. La pace sociale è sempre passata per le tavole e per gli stomaci! Qualcuno può pensare che sia un’esagerazione ciò che ho paventato, ma allora mi deve spiegare perché il PAM (il Programma Alimentare Mondiale) 10 giorni fa ha evocato una catastrofe alimentare legata al COVID con circa 265 milioni (il doppio) di gente che entra in carestia prima della fine dell’anno. Ben inteso questi si aggiungerebbero agli 850 milioni che già esistono perché il PAM si limita a prendersi in carico solo i paesi toccati dalla guerra e dall’insicurezza alimentare conseguente. Se la sola Francia valuta che 8 milioni di suoi cittadini nel 2020 avranno bisogno dell’aiuto alimentare a causa delle conseguenze economiche del Covid, il dato del PAM non è una stima esagerata.





¹« Early Holocene crop cultivation and landscape modification in Amazonia »,Umberto Lombardo, José Iriarte, Lautaro Hilbert, Javier Ruiz-Pérez, José M. Capriles & Heinz Veit
² https://www.nature.com/articles/s41893-020-0505-x 
³ Alain Pavé, Comprendre la biodiversité, vrais problèmes et idées fausses, Le Seuil , 2019



Alberto Guidorzi
Agronomo. Diplomato all'Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureato in Scienze Agrarie presso l'UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni per la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana. 




 

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