domenica 2 agosto 2020

SOPHIE PUO' DIVENTARE EPISTEME? COME SUPERARE LE BARRIERE TRA PENSIERO UMANISTICO E QUELLO SCIENTIFICO.


di ATTILIO SCIENZA 





La dizione “le due culture” è entrata nell’argomentare culturale a seguito di un saggio di C. P. Snow scritto e successivamente rielaborato tra la fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60 del secolo scorso. Charles P. Snow, fisico e scrittore inglese, autore del famoso libro Death under Sail (1932), pubblica nel 1959 un libro dal titolo “Le due culture e la rivoluzione scientifica“.Questa espressione usata per la prima volta da C. Snow, in una lettura all’ Università di Cambridge nel maggio del 1959, accese alla fine degli anni Cinquanta una discussione infinita mettendo l’uno contro l’altro due personalità, che sino ad allora avevano abbastanza pacificamente convissuto, a volte addirittura collaborato, quella scientifica e quella artistico-letteraria. Dalle pagine iniziali del suo libro, Snow descrive, quindi, con stile provocatorio, letterati e scienziati dell’Università di Cambridge come rappresentanti di due “culture” contrapposte che non comunicano e si guardano con reciproca diffidenza ed incomprensione, qualche volta con ostilità e disprezzo. Gli uni hanno un’immagine stranamente distorta degli altri. Gli atteggiamenti sono così diversi che non c’è un terreno comune neppure per quanto riguarda le emozioni. Si trattava di malintesi o di accuse fondate? Snow era convinto che la vita intellettuale, nella società occidentale, si va sempre più spaccando in due gruppi contrapposti. Quando dice vita intellettuale, si riferisce anche a una larga parte della nostra vita pratica, perché era convinto che le due cose al livello più profondo possano venire distinte. I non-scienziati hanno una radicata impressione che gli scienziati siano animati da un ottimismo superficiale e non abbiano coscienza della condizione dell’uomo. D’altra parte, gli scienziati credono che i letterati siano totalmente privi di preveggenza. Come scrive C. Giunta, nel Domenicale del Sole 24 Ore del marzo 2013, da un lato quelli che leggono Amleto e dall’altro quelli che sanno quale è il secondo principio della termodinamica. 
La genia degli scienziati, che «ha il futuro nel sangue» e quella degli umanisti, i quali «pretendono che la cultura tradizionale costituisca la totalità della ‘cultura’, come se l’ordine naturale non esistesse» e, «per natura luddisti», «nutrono un particolare disinteresse per gli uomini loro fratelli». In realtà come le pagine di Snow dimostrano, le due culture come entità distinte non esistono necessariamente, nel senso che potrebbero benissimo non distinguersi, in quanto la percezione della loro separatezza è frutto di quella tendenza alla specializzazione dei saperi che ha interessato i sistemi educativi più avanzati determinando una polarizzazione che potrebbe essere evitata o riassorbita da un concetto più ampio e trasversale della cultura e della istruzione. Il diffondersi di associazioni mentali e lessicali che hanno delineato delle polarità concettuali molto rigide tra il blocco delle scienze naturali e quello delle scienze umane, quali razionalità vs irrazionalità, serietà vs inattendibilità, precisione vs approssimazione hanno favorito negli ultimi due secoli la divergenza di quelle che sono state definite indebitamente le “due culture “, trasformando la distinzione degli oggetti di studio, l’uomo ed i suoi prodotti mentali da una parte, la natura in generale e le “cose” dall’altro, in una distinzione dei metodi, fino agli orizzonti culturali. 

Perché scienza e società non si capiscono? 

L’ostilità o lo scetticismo verso la scienza, che i filosofi chiamano più bonariamente “critica della scienza”, ha accompagnato fin dalle origini la scienza moderna, con atteggiamenti disparati che vanno dalle fosche profezie sulla fine della civiltà e sull’inevitabile olocausto provocato dalla scienza, ai come “epoca organica” e comunitaria, all’esaltazione delle civiltà agricole primitive o del mondo magico e del sapere alchemico, spesso evocato anche ai nostri giorni. Sono veri e propri luoghi comuni che appaiono ciclicamente dagli anni Trenta dell’800 (epoca del rifiuto romantico della scienza newtoniana) fino alla rivolta contro la scienza del primo 900 ed all’antiscientismo ed antimodernismo della fine degli anni 60. Alla base di questi comportamenti vi è quello pseudo-umanistico della inumanità della scienza, fatta da individui pronti a vendersi alle multinazionali , schiavi inconsapevoli del Potere, o quello della difesa della fantasia e creatività che sarebbero estranee alla scienza incapace di intendere la complessità o ancora quella che considera la scienza come “impresa empia e luciferina ,come sete di dominio, violazione della natura innocente, diretta responsabile dello sfruttamento sociale e del dominio dell’uomo sull’uomo. E’ come se nel nostro mondo del benessere fosse presente una criptica forma di nostalgia per il mondo del malessere. 
Gli intellettuali hanno una forte propensione per l’ineffabile e nel corso del secolo scorso si sono spesso fatti sostenitori di regimi politici tra i piu’ abbietti: ma il pessimismo e la predicazione di una imminente apocalisse rendono bene in popolarità. L’ostilità verso la scienza, cosi’ intensamente propagandata rischia oggi di diventare un comune modo di pensare. I giovani soprattutto, credono al tramonto della civiltà, identificano la natura con l’innocenza, saldano assieme in una miscela non nuova, tradizionalismo di destra ed utopismo di sinistra. Popper nel 1972, benché aderisse allora ai principi del minimalismo, affermò in pieno accordo con la visione darwiniana che la scienza è” forse lo strumento più potente per l’adattamento biologico mai emerso nel corso dell’evoluzione organica”. Quasi un secolo prima Mendel affermava che la genetica era l’evoluzione nelle mani dell’uomo. Siamo appena usciti da un secolo che ha intrattenuto con la scienza quasi sempre un cattivo rapporto, anche se ciò era in apparenza paradossale. La potenza imprescindibile dell’accelerazione tecnologica ha creato scompensi e pericoli di massa i cui effetti e la cui eco emotiva sono difficili da assorbire nel breve periodo. La cascata di invenzioni e di scoperte hanno nella diffusione mediatica un ritmo pressoché quotidiano e mattina dopo mattina stanno sgretolando il muro sotto una valanga di colpi.
I risultati sembrano per ora solo parziali: ricombinazione di geni, genoma editing, cisgenesi, mappatura del genoma, nuove tecniche di fecondazione, produzione di cellule in vitro, nuovi prodotti di nanotecnologie e bioingenierie. Sul punto d’arrivo strategico vi è solo ormai una certezza quasi assoluta: d’improvviso ci troviamo dall’altra parte. Perchè allora in un momento in cui la scienza sembra raggiungere ogni giorno risultati più spettacolari, cresce il malumore nei suoi confronti? Nel passato uno degli esempi più eclatanti di questo fenomeno fu l’ostracismo verso gli OGM, ora la spaccatura si è creata sul fronte delle vaccinazioni. Nel mondo della tecnologia, l’antico non esiste, esiste il nuovo che è fecondo di spunti per il futuro ed esiste il vecchio che in genere è inutilizzabile ed inerte. La conseguenza è che il dialogo scientifico in molti campi della ricerca odierna non si svolge solo tra pari ma anche solo tra contemporanei, l’omologazione attenua anche le distanze geografiche rendendo il lavoro di un ricercatore di Milano quasi del tutto indistinguibile da uno di Davis. In questi ambienti la percezione della storia è collegabile ad un concetto di obsolescenza, come qualcosa di simile a ciò che il passato è nelle tecnologie: un magazzino di vecchi modelli inservibili. Così si interpreta l’antico principio della historia magistra vitae formulata da Cicerone nel “De oratore” ,intendendo che la storia più lontana non è riconducibile ai fatti del presente, è meno interessante ed è meno utile. Questo ha portato alla revisione dei programmi scolastici di storia della letteratura o dell’arte ed in prospettiva ad un loro raccorciamento prospettico. La sindrome che stiamo attraversando è il rovesciamento speculare di quello subito dall’antichità classica. Allora fu la tecnica a non avanzare rispetto al salto in avanti compiuto dagli altri saperi, la filosofia, il diritto, l’arte, l’idea della democrazia che hanno orientato la nostra civiltà. Oggi rischiamo di essere schiacciati da uno sbilanciamento inverso, una spinta tecnologica che non riesce a trovare un quadro culturale e sociale in grado di reggerne il peso. Ad un declinante prestigio della cultura intesa nel senso tradizionale, tanto umanistico quanto logico-matematico e delle scienze naturali, si accompagna sempre più il crescente prestigio di discipline tecniche e l’influenza di una classe dirigente culturalmente depauperata e sempre più suggestionata dai miti della tecnologia trionfante. Alla base di ciò l’affermazione di un modello che in questi anni, dal dopoguerra soprattutto, ha contrapposto alle scienze umane una ammucchiata tecnico- scientifica, sempre più tecnica e sempre meno scientifica, come è stata percepita da una parte della società. STEM education è l’acronimo di Science, Technology, Engeneering and Mathematics. Stem in inglese è il gambo dei fiori in senso concettuale, in senso linguistico, la radice e suggerisce qualcosa di essenziale, di necessario alla sussistenza. Attiva in tal modo una poderosa anfibologia, come la chiamano i linguisti. In effetti la sigla elaborata dalla National Science Fondation americana negli anni’90 per un programma dedicato al potenziamento di alcune materie scientifiche e tecnologiche nelle scuole che prevedeva in primis la formazione di 100.000 nuovi insegnanti nei campi delle scienze, tecnologia, ingegneria e della matematica per sostituire il corpo docente in vista dell’uscita di scena dei baby boomers impreparati a questi insegnamenti. In quegli anni F. Zukanai scriveva sul Washington Post “una educazione liberale, centrata sulle arti liberali nel senso delle discipline umanistiche è irrilevante, è l’istruzione tecnica la nuova frontiera “ed aggiungeva però “gli Stati Uniti hanno primeggiato in dinamismo economico, innovazione ed imprenditorialità grazie proprio a quel sistema educativo che ora vorremmo defenestrare “. Analogamente il governo giapponese nel 2015 ha annunciato in termini molto espliciti, l’intenzione di ridimensionare drasticamente le facoltà umanistiche, in favore di discipline che avrebbero meglio anticipato i bisogni della società. Posizione condivisa dall’Inghilterra che nel 2014 difendeva il STEM in quanto “apriva maggiori possibilità ai giovani e spalancava le porte ad ogni tipo di carriera.” Sarebbe illusorio pensare che il sacrificio della cultura umanistica sull’altare dell’urgenza del primato tecnologico sia la conseguenza immediata e logica dello sviluppo sociale dell’Occidente. In realtà tale sacrificio si concretizza anche nei regimi oscurantisti dei nostri giorni quali quelli delle teocrazie islamiche. Dalle difficoltà non si esce cercando di comprimere la forza della tecnica. L’unica strada è quella di un progressivo adeguamento alla nuova realtà, la fondazione di una antologia culturale, politica e morale dell’uomo tecnologico, che ci renda capaci di sostenere l’impatto del cambiamento ma le fonti maggiori di rischio sono i ritardi della politica e quelli dell’etica. La politica è in crisi perché sente che la vita le sfugge. E’ la tecnica a decidere senza mediazioni le forme della vita, è lei che determina la qualità dei nostri bisogni. La politica arranca dietro, non riesce a guidare una rivoluzione cui non sente di partecipare. 

Il destino comune delle due scienze: la ricerca della verità 

Le due culture hanno caratteristiche differenti: quella scientifica è obiettiva richiede verifica, progredisce, quella artistica è invece soggettiva ed è estranea al concetto di progresso. Si è molto insistito su queste differenze intrinseche, anche se in tempi solo recenti: queste due posizioni hanno in realtà più punti di contatto di quanto si pensi comunemente, a partire dallo scopo. Se la scienza è alla ricerca della verità, quello dell’arte è la ricerca della bellezza. Se partiamo dal significato greco della parola verità, alètheia, che Platone esemplifica con il passaggio dal tronco di un albero alla barca o al tavolo, è il tecnico che operando sulla natura arborea, porta fuori la barca o il tavolo dalla sua essenza naturale, per disporla in altri prodotti dai quali appare e si svela ciò che la tecnica chiama prodotto. In questa forza dispositiva che fa della natura un fondo disponibile, è custodita l’essenza produttiva della tecnica: l’albero viene tagliato come l’uva viene vinificata e le sue parti, come i nuovi costituenti del mosto, vengono congiunte in rapporti differenti dai precedenti e nascono così il tavolo, la barca, il vino. La natura lignea - come l’uva - è chiamata ad apparire in altro contesto e ad assumere un significato che non possedevano quando erano albero nel bosco o grappoli nel vigneto. Appare un nuovo composto che la natura prima dell’intervento tecnico non lasciava presagire, ma custodiva nella sua latenza. Quel passaggio dalla latenza alla non - latenza, in greco si chiama verità. La verità è l’obiettivo comune. Per Paul Klee infatti “l’arte non riproduce il visibile, ma lo rende visibile”, mentre per Eugenio Montale lo scopo esplicito della poesia è la scoperta della verità. 

Perché abbiamo bisogno delle due culture per bere un buon vino 

Il suolo di un vigneto è un topos, un luogo fisico molto complesso, per le sue componenti fisiche, chimiche e biologiche che ne determinano il funzionamento e permettono la vita delle piante. L’analisi delle sue caratteristiche è dominio di molte discipline che vanno dalla chimica, all’idraulica, alla entomologia fino alla microbiologia. Un vigneto è anche un oggetto della speculazione estetica: il paesaggio, le sue strutture esplicite e latenti, la sua storia, l’azione dell’uomo sulle sue caratteristiche funzionali. Da un punto di vista concettuale il pensiero che è alla base dell’analisi di queste due realtà è molto diverso e nel tempo, l’utilizzo di strumenti di indagine appartenenti a campi della conoscenza molto lontani, ha creato una frattura tra i due, che ha fatto perdere quella visione unitaria essenziale, per la loro difesa e valorizzazione. Abbiamo bisogno delle due culture, quella umanistica e quella scientifica, per ridare una dimensione integrata alle funzioni complesse del suolo con quelle del paesaggio attraverso l’azione demiurgica dell’uomo. E’ necessaria una sintesi, che non è quella suggerita dai movimenti new age o dall’esoterismo magico steineriano, che ci consenta analizzare le problematiche di un luogo, di un vigneto, non per approcci separati, sviluppati dagli studi della chimica o della microbiologia, ma in un modo integrato per evitare che gli interventi colturali proposti, sortiscano effetti parziali perché rispondono solo in piccola parte ai problemi di un sistema molto complesso. 
In passato il ruolo della tecnica in viticoltura era molto limitato, non esistevano macchine che potevano sconvolgere gli orizzonti di un suolo con lo scasso o compattarlo con il loro peso, l’azienda agricola era a coltivazione promiscua, il letame garantiva quel apporto di sostanza organica che manteneva intatta nel tempo la necessaria fertilità chimica, fisica, microbiologica. Nella contemporaneità le esigenze della meccanizzazione e la progressiva perdita di sostanza organica nei suoli impongono delle strategie agronomiche coerenti al mantenimento della funzionalità dei suoli dei vigneti, sempre più degradati dagli effetti della monocoltura. La soluzione è nel mantenimento di un livello elevato di biodiversità dei suoli (complessità floristica, catene alimentari della microfauna, variabilità fungina ed enzimatica) e nel suo monitoraggio attraverso metodi di autovalutazione semplici da parte del viticoltore, come forma di verifica del proprio operato quotidiano. Nella lingua ebraica antica il termine adamat indica il suolo ed ha la stessa radice di adami, il nome del primo uomo. Nello stesso modo il nome delle prima donna hava (eva nella translitterazione) significa vivente o che genera la vita. La stessa metafora riecheggia nel nome latino di uomo homo che deriva da humu ed ha la stessa radice di umiltà. Da un punto di vista concettuale il pensiero che è alla base dell’analisi di questa complessità, ha perso nel tempo quella visione unitaria, necessaria per accogliere i progressi della ricerca scientifica. Il pensiero debole aristotelico e cosmico è stato sopraffatto da quello forte cartesiano e scientifico ed in seguito positivista, il quale con la scomposizione dell’insieme natura –cultura ha in modo irrimediabile fatto perdere unicità al rapporto vino - vigneto. In viticoltura per le forti componenti simboliche portate dal vino, il pensiero è ritornato unitario solo attraverso il concetto di terroir, mentre è ancora lontana la percezione che l’innovazione genetica attraverso la creazione di nuove varietà, possa essere il passo risolutivo verso una viticoltura totalmente sostenibile. Abbiamo bisogno delle due culture, per collocare in modo sostenibile, da tutti i punti di vista, il vitigno in relazione nell’ambiente dove è coltivato, per riportare la viticoltura a quella mitica “età dell’oro”, precedente alla cosiddetta” viticoltura moderna” del XX secolo.
Un esempio di questa incomprensione è rappresentato dalle antiche e nuove paure che aleggiano nell’opinione pubblica nei confronti delle scelte che deve fare la viticoltura moderna attraverso le Nbt (New Breeding Techniques), per ridurre l’impatto della chimica nella lotta ai parassiti e per contrastare gli effetti del cambiamento climatico. La mancanza di una sintesi culturale ha creato artificiosamente una contrapposizione nella produzione del vino, definito in modo alternativo naturale o artificiale. La distinzione tra naturale ed artificiale, tra ciò che è naturalmente divenuto e quello che invece è tecnicamente prodotto, è costitutiva della storia umana. Ancora oggi vi ricorriamo in quasi tutte le pratiche quotidiane. Ci stiamo muovendo verso una storia della vita orientata dall’intelligenza e non più dall’evoluzione, che comporta la totalizzazione della natura. Sostituire l’intelligenza all’evoluzione significa far cadere ogni barriera tra naturale ed antropico(artificiale). In realtà l’artificialità è intervenuta assai presto a modificare la naturalità della vita e la distinzione tra i due termini è molto meno intuitivo di quanto possa a prima vista sembrare. Una fascia di natura umanizzata dove natura ed artificio sono ormai indistinguibili, esiste da migliaia di anni sul Pianeta. Abbiamo cominciato da molto tempo a modificare attraverso selezioni ed incroci molte specie di vegetali ed animali. Quello che sta cambiando in modo esponenziale è l’efficienza, la rapidità d’effetto e l’intensità dei nostri interventi, non la loro qualità “teologica”. La questione riguarda il potere ,non la dottrina. L’alternativa che abbiamo di fronte non prevede di rimanere fermi. Il meccanismo psicologico che sottostà a tale conflitto viene definito “ragionamento motivato“, una particolare distorsione cognitiva che tende ad accettare l’aspetto negativo dei risultati della scienza i cui fatti vengono messi continuamente in discussione. Le cosiddette “radici” delle attitudini che non sono modificabili dalle prove scientifiche: ideologie, valori, visioni del mondo ma anche la necessità di salvaguardare identità personale o di gruppo, fino alle profonde paure, vere e proprie fobie. Solo una informazione precisa, aggiornata e diffusa può davvero guidarci verso il passaggio che ci aspetta e creare le premesse di quella riconciliazione con il futuro che è uno dei compiti più urgenti della nostra cultura. Schiavone (2007) chiama la “bioconvergenza” la nuova alleanza tra intelligenza umana e non biologica, per arrivare in una dimensione non più naturale, ma culturale dell’uomo. Il punto non è di operare distinzioni tra usi corretti o deviati del paradigma naturalistico bensì di lasciare affiorare l’origine ed il meccanismo culturale alla base della sua formazione, tenendo presente che l’ordine naturale è sempre stato rispetto ai suoi contenuti, un ordine provvisorio. La diffidenza romantica irrazionale nei confronti della tecnica, la tecnofobia, è ancora molto diffusa nell’opinione pubblica, soprattutto europea e nessuno vuole vestire i panni dell’apprendista stregone. 

Il dovere dei ricercatori: spiegare la scienza 

Perché il valore della scienza non viene spiegato in termini adeguati? Il fatto che ufficialmente la scienza venga considerata in modo negativo e criminalistico rende assai difficile spiegarne il valore. Mentre qualche tempo fa gli scienziati esprimevano con franchezza le loro idee, ora è loro consentito fare qualche professione di fede, veemente quanto imbarazzata, magari alla radio la domenica mattina, perchè queste esternazioni possono essere professionalmente dannose e non ben accette dall’opinione pubblica. Non estranei sono i mezzi di comunicazione di massa, che spesso disinformano più che informare, alla ricerca della notizia clamorosa che omologa le piante transgeniche ai frequenti rischi alimentari, al monopolio nella ricerca delle multinazionali, alla perdita di biodiversità, con toni catastrofici. Anche l’Università ha le sue colpe, in quanto ha sottovalutato il ruolo della cosiddetta terza missione, quella della divulgazione, che dovrebbe affiancare e rendere esplicite le altre due, quella della ricerca e della formazione superiore. L’innovazione genetica è sempre stata accolta con molta circospezione dalla viticoltura europea. Basti ricordare le battaglie appassionanti condotte in Francia ed in Italia sull’innesto e sugli ibridi soprattutto tra il 1800 ed il 1900. E’ verosimile che nei prossimi anni avremo a disposizione i risultati dei programmi di miglioramento genetico delle resistenze che molti Paesi europei, tra cui l’Italia, attualmente il Paese leader, stanno sviluppando: l’impatto sulla produzione e sul consumatore sarà paragonabile a quello che è avvenuto 150 anni fa con l’arrivo della fillossera. Ci aspetta una vera innovazione culturale sulla quale possiamo riflettere senza pregiudizi per trovare una risposta convincente a tutti i dubbi che ci poniamo quotidianamente e spesso risolti dalla ricerca. L’Italia è in preda ad un incantesimo ideologico che esalta il passato dal quale siamo fortunatamente usciti grazie alla sofferenza ed al lavoro delle generazioni che ci hanno preceduto. Si vuol far credere che si possa costruire una prospettiva economica alla nostra viticoltura sulla nostalgia e sull’esoterismo. La ricchezza di un Paese ed il suo benessere dipendono da molte circostanze ma due sono imprescindibili: la libertà individuale e lo sviluppo scientifico. Investire nella scienza e scommettere sull’innovazione implicano la volontà di pensare per il futuro ed il futuro è la viticoltura integrata, dove gli aspetti cruciali della sostenibilità (il mantenimento della biodiversità tellurica, la riduzione della chimica nella lotta ai parassiti, le applicazioni della viticoltura di precisione, il miglioramento genetico per le resistenze) sono affrontati con successo. Tra le poche conseguenze positive, forse l’unica, della pandemia Covid-19 c’è una rinnovata attenzione nei confronti del sapere e della scienza. La rete, i social hanno aperto una nuova prospettiva, quella di poter parlare di argomenti scientifici senza averne le competenze. Non è più il tempo degli imbonitori che raccattando qualche dato qui e là su internet, escono con teorie alternative promettendo risultati miracolosi. Di fonte ad un problema così grande le persone vogliono capire si rivolgono agli scienziati. La chiave per affrontare con successo le sfide del nostro tempo è investire nell’intelligenza delle persone, nell’educazione. Anche perché nessun scienziato ha in tasca tutte le risposte ed il suo primo imperativo dovrebbe essere quello socratico, ”sapere di non sapere”. Nell’ aprile del 2020, sull’onda del Covid-19 l’Università di Yale ha proposto un nuovo corso on - line dal titolo “Capire la ricerca medica: il tuo amico su Facebook non ha ragione “. Nel giro di qualche ora gli iscritti erano oltre 10.000.Tanta voglia di capire quindi, ma non solo. Il successo del corso esprime probabilmente un rinnovato interesse per la scienza, una domanda di empowerment, affinare cioè gli strumenti di spirito critico, ridurre la distanza tra le tabelle con numeri e grafici, saper guardare oltre quella cattiva scienza amplificata ogni giorno dal social media. La scienza sembra uscire bene da questo periodo di emergenza sanitaria, il linguaggio è stato prevalentemente tecnico e l competenze sono tornate al centro dopo in passato recente di post verità, di ultra semplificazione ed irrisione degli esperti. La situazione di emergenza ha scomposto la percezione della scienza a più livelli: la scienza è indispensabile per capire la malattia, è utile per sapere come utilizzare i mezzi di prevenzione, la scienza che impara, gli esperti rimandano al metodo scientifico, lento, fatto di osservazioni e tentativi. 
Nel frattempo il rapporto tra scienza e politica si è intensificato anche se l’inclusione della scienza nel processo politico non è ancora un passaggio naturale. Perchè si esita a tirare dentro la scienza? Difficile pensare che questo sia solo il risultato di linguaggi distanti. Qualcosa di nuovo si è comunque messo in moto, la consapevolezza di quanto sia necessario un nuovo paradigma di comunicazione sui temi scientifico, la necessità di adottare pedagogie innovative per rafforzare le conoscenze e le competenze di tutti, nessuno escluso. C’è anche una espressione, peraltro poco usata, la serendipità che lega intimamente da un punto di vista concettuale ed anche metodologico le due culture, attraverso il ruolo svolto dall’intuizione. Perchè la serendipità è la matrice delle due culture? Se l’intuizione o la serendipity è la fuga, un volo che porta il poeta in un paese incantato ed il poema è il resoconto del viaggio di ritorno con il tesoro, secondo Garcia Lorca, il catalogare ed il raccontare, è fatica dura, anche per la cultura scientifica, l’intuizione, l’invenzione è il primum movens, senza il quale non ci sarà prodotto scientifico di valore. Ma la strada da questo primum movens al prodotto finale è faticosa, come il viaggio del poeta dal paese fatato. Il resto è fatica e sudore, inspiritation and perspiration. Non è forse una serenditipy la scoperta del CRISPR-Cas 9, proteina utilizzata dai batteri per difendersi dai virus e che è oggi utilizzata con successo nel genome editing per tagliare i filamenti del DNA che si vogliono modificare? 

Come fare per superare la disciplinarietà : il ruolo della formazione e della divulgazione 

Silviero Sansavini, nel 2018 in un convegno organizzato dall’Accademia Nazionale delle Scienze, detta dei XL, affronta in modo magistrale le radici della contrapposizione in una lettura dal titolo “Per una sola cultura senza egemonie”, proponendo in quella che chiama la “riconciliazione”, la necessità della interdisciplinarietà delle “Humanities”. Il testo partendo da Snow, offre alcuni spunti di discussione sulle cause di questo confronto tra i diversi sapere, che definisce chiuso ed indica in quella che lui chiama la terza cultura una proposta di sintesi che trova nella interdisciplinarietà e trasversalità, la soluzione del conflitto, partendo dall’integrazione dei curricula d’insegnamento umanistico-scientifici. Anche Giulio Giorello andava oltre le barriere tra i saperi, lontano dallo scientismo più rigido, sostenitore come era del carattere fondamentalmente plurale della ricerca. Se ammettiamo che il compito dell’istruzione avanzata non è quello di insegnare cose utili ma di formare e selezionare uomini intelligenti e capaci di comprendere la realtà nel senso più ampio, tutte le gerarchie fondate sui bisogni e le utilità o gli utili immediati non hanno senso. Se Le due culture di Snow apparteneva al genere difficilissimo del pamphlet, dove L’obiettivo di Snow era un calembour sintetizzabile in alcuni giochi di parole : ‘Le scienze dure sono più importanti delle scienze umane’ o nella frase ‘La cultura scientifica dovrebbe essere apprezzata più di quanto non si faccia di solito’ o ‘Solo le scienze applicate ci possono salvare’, Le tre culture di Jerome Kagan appartiene invece al genere ‘saggio di sintesi’, uno di quei libri che vengono scritti verso la fine della vita da studiosi che hanno dato contributi importanti all’interno della loro disciplina, ma hanno letto molto anche al di fuori di quei confini, e ora vogliono provare a comunicare a un pubblico più ampio la loro visione del mondo, dove la terza cultura è quella delle scienze sociali ,necessarie per coprire il gap che separa la faglia tra le due culture. In una parola la famosa parola interdisciplinarietà, cioè la saggia raccomandazione di studiare un oggetto, un’epoca, un problema, facendovi convergere tecniche diverse, elaborate in campi di sapere diversi, in sostanza significa “ricerca di qualità”. Si tratta allora di creare degli studiosi capaci di ricercare la qualità, attraverso occasioni d’incontro tra specialisti di discipline diverse. Ma queste occasioni si creano all’interno di ottime università, popolate da ottimi docenti e da ottimi studenti: la ricerca di alto livello nasce su questo terreno, non altrove. Sul fronte della formazione, questo significa che, prima di promuovere collaborazioni tra esperti di discipline diverse e la scrittura di libri in équipe, l’università dovrebbe continuare a curarsi della buona salute delle singole discipline e della buona qualità degli studiosi che le professano. A questo proposito Piero Angela ritiene molto attuale e vivo il problema soprattutto in Italia, dove la scuola tende a separare nettamente i due ambiti di studio e le modalità con cui gli individui vengono formati, rimangono molto simili a quelle del tempo in cui Snow scriveva. Concludeva citando una frase di Toraldo Di Francia, “non bisogna fare soltanto una tecnologia a misura d’uomo ma anche uomini ed intellettuali a misura di tecnologia “. 

Tratto da " I Tempi della Terra" |n° 6|              

ATTILIO SCIENZA 

Professore ordinario di Viticoltura presso l'Università degli Studi di Milano. Già Direttore generale dell'Istituto Agrario di S. Michele all'Adige. E' Accademico ordinario dell'Accademia Italiana della Vite e del Vino e Socio Corrispondente dell'Accademia dei Georgofili  


2 commenti:

  1. ottimo!!!
    come fare per divulgare in modo efficacie queste idee?
    io intanto mando il link ad amici interessati
    grazie
    Antonio

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