venerdì 18 febbraio 2022

LIEVITO “MAMMIFERO ONORARIO”

sopravvissuto alla disfatta bieticola nazionale e insensibile alle sirene del biologico

 

GIANLUIGI MAZZOLARI  

 


 

Onore a chi ha coniato il simpatico accostamento, a richiamo della preziosa completezza metabolica del lievito¹ e a riconoscimento dei suoi indiscussi meriti acquisiti in tanti anni a fianco dell’umanità. Oltre che, secondo Katchroo et al. (2015), pur essendo il lievito e l'uomo separati da circa un miliardo di anni di storia evolutiva e per quanto diversi siano i rispettivi genomi, molti dei loro geni sono decisamente simili (2015).
Di lievito si parla molto, sovente a (s)proposito; tutti sanno a cosa serve quando ad esempio si produce pane e finisce lì; un po' come “luce” che si apprezza quando manca perché si va a sbattere.
La sua produzione industriale, datata poco più di due secoli nel nord Europa ed un secolo in Italia, è strettamente connessa allo sviluppo della coltura della barbabietola da zucchero (in altri areali la si assocerebbe alla canna). Il legame è rappresentato dalla quota di zucchero non convenientemente estraibile che, unitamente ad altre “impurità”, fanno del melasso la fonte primaria di nutrienti per i nostri microrganismi.
La barbabietola ha influito anche sulla produzione di alcool etilico, strettamente correlato al lievito e, in questo caso, è stata arbitro della sua ascesa e decadenza unitamente alla fiscalità.
Proponendoci in questa sede di parlare di lievito, ometteremmo il consueto didascalico paragrafo introduttivo di botanica sistematica che Wikipedia da par suo ben assolve, privilegiando lo status merceologico che nel tempo ne ha caratterizzato l’evoluzione, in attesa del capitolo tutto da scrivere sulle sue applicazioni future che, siamo convinti, sarà assai corposo.
Ci limitiamo a riportare come i lieviti, “categoria non-tassonomica di funghi definita secondo criteri morfologici e fisiologici”², siano ampiamente diffusi in natura. Si rinvengono su foglie, fiori e soprattutto frutti, sulla pelle, sulle piume e anche nel tratto alimentare degli animali erbivori; alcuni tipi sono comunemente associati agli insetti e il suolo è un importante serbatoio in cui i lieviti possono sopravvivere durante periodi sfavorevoli (Deák, 2007).
Questi habitat naturali rappresentano un importante serbatoio di biodiversità con cui la produzione alimentare deve fare i conti, non sempre trovandovi giovamento, in un serrato confronto fra “ecologia microbiologica” e “microbiologia alimentare”, non necessariamente sempre in simbiosi (Fleet, 1999).

Il lievito come il maiale: non si butta via niente!

Risvolti scientifici evocati dal primo, detto popolare inerente il secondo: sta di fatto che, ..… con tutto il rispetto per il porco che, generosamente, ha sempre dato il meglio di sé (con gratitudine!), per il lievito la frontiera biotecnologica appare un percorso ricco di risorse (in)esplorate.
Non che fino ad ora il lievito non abbia dato prova di aver inciso sulle attività umane, non solo a partire dai tempi di Pasteur (1857) quando, a quasi due secoli dalla prima visualizzazione al microscopio (Leeuwenhoeck, Delft 1680)³, fu svelata la funzione dei lieviti nel processo di fermentazione ma molto, molto tempo prima.
Testimonianze conosciute di pane lievitato provengono dall'Antico Egitto nel 1300-1500 a.C. (Samuel, 1996), da cui le ricorrenti narrazioni del Nilo che, straripando, bagnò le farine dando il via alla lievitazione. 
 

 


È possibile che la conoscenza dei metodi di fermentazione e cottura sia passata dall'Egitto e da Babilonia all'antica Grecia e alle antiche culture ebraiche (Frey, 1930). Dalla Grecia il sapere passò a Roma, dove si impastava a mano invece che con i piedi e Plinio il Vecchio, nel diciottesimo libro della Naturalis historia, riporta che fino al tempo della guerra contro Perseo re di Macedonia, iniziata nel 171 a.C., a Roma non esistevano i fornai. 
 
     
Alcuni reperti archeologici in Cina di bevande fermentate sono datati 7.000 anni a.C. (Sicard et al., 2011), a conferma di come il connubio lievito/uomo sia anticipato di parecchi millenni, durante l’evoluzione dei nostri antenati da cacciatori-raccoglitori ad agricoltori, da nomadi a stanziali.

Oppure addirittura precedentemente quando i primi ominidi, già un milione di anni fa, probabilmente fermentavano i frutti usando lieviti (Dunn et al., 2020).
Rinvenimenti archeologici in Giordania di resti carbonizzati di impasto di cereali, datano 14.000 anni, 4.000 anni prima dell'emergere dello stile di vita agricolo neolitico (Amaia Arranz-Otaegui et al., 2018). 
 
Tuttavia, recenti prove genomiche suggeriscono che il classico lievito per birra e pane (Saccharomyces cerevisiae) abbia avuto origine in Cina, prima di spostarsi a ovest 16.000 - 14.000 anni a.C. attraverso la rotta che sarebbe diventata la Via della Seta. Ciò potrebbe significare che le fermentazioni avvenute al di fuori dell'Asia prima di tale datazione dipendessero probabilmente da specie di lievito non Saccharomyces (Wang et al., 2012; Lahue et al., 2020).
Nel corso della storia nuove specie del genere “Saccharomyces sensu stricto” si sono evolute, in associazione alle attività umane, attraverso l'ibridazione interspecifica o la poliploidizzazione. Inoltre, in S. cerevisiae, è possibile che i processi di fermentazione abbiano esercitato un ruolo determinante nel favorire la differenziazione dei gruppi genetici (Sicard et al., 2011). 
Etimologicamente lievito esprime crescita, leggerezza, sofficità, evocando situazioni sostanzialmente positive: se c’è lievito si mangia pane e si beve vino, senza lievito in occasioni di riti religiosi, si beve qualcos’altro che vino non è ed entrambe le situazioni non sono associate a momenti di festa.
Ma il lievito non è solo pane, birra e vino, il lievito è un organismo modello per le ricerche di genetica e biologia molecolare - il primo genoma eucariota a essere sequenziato è Saccharomyces cerevisiae (Goffeau et al., 1996), oltre che una fonte preziosa di principi nutritivi e un serbatoio inesauribile di principi attivi nutrizionali e farmaceutici: per l’appunto, nulla è da buttare!
Cimentiamoci (indegnamente) in un contributo alla sua conoscenza!

Preistoria del lievito: è nato prima il pane azzimo o il pane lievitato?

La domanda, grazie alle argomentazioni, da cui abbiamo ampiamente attinto, di Forni e Marcone (2001), ci consente di risalire alle primordiali pratiche alimentari dei nostri antenati ove il processo fermentativo si accompagna allo sviluppo dell’agricoltura dal mesolitico al neolitico.
  • In una prima fase, la raccolta dei grani selvatici avveniva da terra e verosimilmente dopo un incendio, provocato o spontaneo che fosse. I grani di allora si caratterizzavano per scalarità di maturazione: le prime spighe mature, aprendosi, facevano cadere le spighette che, penetrando nel terreno, assicuravano la riproduzione per l’anno successivo. Quando ai culmi rinsecchiti delle piante che già avevano perso le spighe si aggiungevano le rimanenti piante prossime al disseccamento e sopravvenivano gli incendi, rimanevano sul terreno, abbrustolite (quindi con amido digeribile), un buon numero di spighe da raccogliere e mangiare, dopo averle sfregate tra le mani per allontanare facilmente le glumelle.
  • In tempi successivi, con l’instaurarsi della mietitura e della macinazione, si avviò un drastico cambiamento non solo nella tecnica di raccolta dei cereali, ma anche nel loro utilizzo alimentare. Questo sfociò nella produzione del pane e della birra e, solo successivamente, si concretizzerà la domesticazione dei fruttiferi a moltiplicazione vegetativa (propaggine e talea), fra cui la vite, da cui la produzione di vino. 

Pane, birra, vino: tali in quanto opera delle trasformazioni biochimiche del lievito!

Come presumibilmente si innescava la fermentazione?

Scontato è che un grano umido o un impasto di grani macinati e acqua non sono matrici stabili, stante la presenza epifitica e nel pulviscolo atmosferico di microrganismi fra cui lieviti.
Nel primo caso gli enzimi attivati dal processo di germinazione trasformano l’amido in zuccheri semplici solubili, utilizzabili sia per la germinazione sia per la fermentazione.
Nel secondo caso entrano in gioco gli enzimi salivari della pratica ampiamente documentata della masticazione del cibo da somministrare ai neonati ed agli infanti pre-dentatura (chi scrive non esclude di averne usufruito!).
Va da sé che le due matrici, qualora conservate per l’utilizzo successivo, rappresentavano un substrato ideale per lo sviluppo di lieviti ed altri microrganismi che potevano sfociare nella fermentazione e, se non tempestivamente sottoposte a cottura, a putrefazione.
Agli occhi di un primitivo non poteva essere percepita la separazione dei due processi, “fermentazione” e il suo opposto microbiologico “putrefazione”, ed è infatti significativo che la fermentazione venisse interpretata come segno di degrado del cibo, testimoniata dall’obbligo religioso di consumare pane azzimo in particolare nei riti connessi alla purificazione.

(Per sette giorni mangerai azzimi. Nel settimo giorno vi sarà una festa in onore del Signore. Nei sette giorni si mangeranno azzimi e non compaia presso di te niente di lievitato; non ci sia presso di te lievito entro tutti i tuoi confini. Antico Testamento, 2 Esodo, cap.13).

Non solo la cottura, comunque, fa da confine fra fermentazione e putrefazione ma pure l’alcool, metabolita della fermentazione stessa: birra e vino docent.
È quindi verosimile che il lievito abbia condiviso l’origine di pane e birra, accomunati dalle stesse materie prime e divisi dalle loro proporzioni: se più farina che acqua e si lasciava fermentare si otteneva pane; se più acqua che farina, dopo la fermentazione si otteneva birra.
A questo punto, per completezza alla domanda iniziale, si potrebbe rispondere che la cottura quale passaggio inderogabile per un “panefermentato depone a favore di un vantaggio temporale rispetto a un “pane” non fermentato la cui cottura non rappresentava una prerogativa di conservabilità.

Da Forni G., Marcone A., Storia dell’Agricoltura Italiana. L’età antica, 1) Preistoria, Accademia dei Georgofili, 2001, pp.50-55.

(…) Un alimento dei neonati e degli infanti ancora privi di dentatura, integrativo dell’allattamento, era, come lo è tuttora presso le popolazioni primitive di tutti i continenti, il biascicaticcio di cereali, cioè grani masticati e rigurgitati. Ma i neonati raramente mangiano tutta la pappa e poiché le civiltà preistoriche come quelle attuali del terzo mondo differivano dalle attuali civiltà dei consumi, la pappa che non era mangiata subito, veniva conservata. Bisogna tener presente che la ptialina (l’enzima contenuto nella saliva) scinde l’amido, polisaccaride insolubile dei cereali, in zuccheri semplici, solubili, fermentescibili e poiché l’ambiente, in particolare il pulviscolo atmosferico e la superficie di frutti e spighe, sono pervasi da saccaromiceti, batteri lattici ed altri agenti della fermentazione, la pappa conservata in breve tempo, nel clima subtropicale del Mediterraneo, rapidamente iniziava appunto a fermentare. Cioè la pappa «lievitava», in quanto si formavano nell’impasto bolle di biossido di carbonio. Processo questo di ieri, ma che frequentemente si ripete ancor oggi.
(…) Esiste un’importante amplissima documentazione circa l’uso molto diffuso tra le popolazioni proto-agricole, cioè pre-aratorie, di tutti i continenti (Eurasia, Africa, America, Oceania) di produrre bevande fermentate (tipo birra, chicha ecc.) con cereali masticati e quindi insalivati, cui si è aggiunta un’abbondante quantità di acqua. Si tratta di bevande alcoliche, in quanto i lieviti trasformano gli zuccheri in biossido di carbonio ed alcol. È chiaro che in questo caso si evita la cottura, che farebbe rapidamente evaporare anche l’alcol. Interessantissima è l’incisione riportata dall’esploratore milanese G. Benzoni nel resoconto dei suoi viaggi in America Centrale (Venezia 1565) che raffigura una indigena mentre sputa in un recipiente del mais masticato e insalivato.
(…) Per bloccare la fermentazione e impedire la degradazione della pappa, cioè dell’impasto, il mezzo più istintivo ed immediato era la cottura. Questa poteva aver luogo anche prima che venissero inventati i recipienti ceramici, perché anche negli otri in pelle o di vescica d’animale in uso dal Paleolitico si poteva cuocere, inserendo nella pappa pietre roventi. Più semplicemente, secondo un uso tuttora praticato dai Beduini, si poneva della pappa densa o della pasta, in ogni caso fermentate, direttamente sulle braci semispente o sulle pietre roventi. Ecco quindi che le pappe fermentate (che minacciavano di imputridire), lievitate, cotte, costituirono il primo pane.

Non è vero quindi che il pane azimo ha preceduto il pane lievitato, ma è vero l’opposto, in quanto il primo esigeva particolari accorgimenti (la cottura immediata della pappa ad impasto appena fatto). Il pane azimo, la galletta hanno preceduto il lievitato solo se si considera pane, almeno in nuce, la spiga immatura abbrustolita.

Storia del lievito da Pasteur ai nostri giorni 

La parola “lievito”, “gist” dal tardo inglese antico (Barnhart, 1995), fu associata alla fermentazione a partire dal 1859 ad opera di H. van den Broek, Utrecht, quando così vennero denominate le cellule vegetative che si replicavano nei mezzi di fermentazione (Barnett, 2000; Sicard et al.,2011).
Fino al XVIII secolo pane e birra hanno condiviso il percorso per l’utilizzo del lievito: per la birra si recuperava il lievito della precedente lavorazione, utilizzato pure per il pane. Trattavasi di schiuma o di feccia, raccolti dalle fermentazioni e venivano venduti, a volte pressati, direttamente dai birrifici a fornai e casalinghe.
Questo almeno nei paesi nord europei mentre nei paesi mediterranei, più wine oriented, giocoforza era predominante l’impiego di paste di riporto/pre-fermentazioni, sourdough starter, che tanta dedizione richiedevano agli operatori (venti ore al giorno per “coltivare gli impasti”!).
Anche se Plinio il vecchio riporta in Naturalis historia l’impiego di mosto d’uva quale inoculo di lievito.
Nel 1780 apparve in Olanda, per opera di "Gist en Spiritusfabriek", che poi sarebbe diventata Royal Gist-Brocades N.V., il primo lievito industriale, in forma liquida, espressamente dedicato alla panificazione. Il processo di produzione, denominato “processo olandese” testimonia l’inizio della produzione industriale del lievito.
Dall'Olanda, il processo è passato in Germania: apparve ad Hannover intorno al 1800. Nel 1825 Tebbenhof produsse per la prima volta un lievito compresso in blocchi. È ancora in questa forma che viene venduto al giorno d'oggi anche se solo nel 1867 fu sviluppato il filtro-pressa che migliorò notevolmente il processo industriale.
Sempre nel 1867 il “processo olandese” viene sostituito dal “processo viennese”, imprimendo una svolta importante alla produzione del lievito.
Nello stabilimento di Mautner vedeva infatti la luce l’innovazione basata sull’affioramento del lievito a mezzo dell’anidride carbonica generata durante la fermentazione, in modo che in superficie potesse essere agevolmente raccolto, manualmente prima, mediante separatori centrifughi successivamente (Berlino 1892). L’innovazione consisteva inoltre nella possibilità del lavaggio dopo la filtrazione e successivamente il lievito veniva compresso in presse a coclea o in filtro-presse per diminuire il contenuto in acqua e, in vari formati, commercializzato. Va da sé che gli aspetti qualitativi, stante il lavaggio delle cellule e la successiva deidratazione con sistema fisico, ne uscivano enormemente migliorati.
Sullo stesso processo nasceranno stabilimenti in Francia: Springer (1872), Lesaffre e Bonduelle a seguire, e nei vari stati nord europei, fino alla prima guerra mondiale quando saranno applicate nuove metodiche produttive che proseguiranno fino ai giorni nostri (cfr. Confederation of European Yeast Producers).
In tale lasso di tempo la tecnologia avanza e il 1883 sancisce la definitiva separazione del percorso comune pane-birra, quando Emil Christian Hansen, nella Carlsberg Laboratory in Copenhagen, introdusse nella produzione di birra la “coltura pura” basata su due principi: purezza batteriologica durante la semina iniziale e la stessa purezza durante il processo di produzione (Ling, 1909).
È finalizzata a quest’ultimo obiettivo la graduale sostituzione del legno delle vasche, prima con metallo smaltato, poi con rame negli anni '20 ed infine con acciaio inox.
Il lievito in “coltura pura” era il frutto dell’isolamento delle singole cellule dei ceppi di lievito ritenuto “buono” dalle cellule di lieviti che ne contrastavano l’attività, dando così vita a colonie pure di lievito c.d. a “bassa fermentazione” (birra lager), ma non più facilmente recuperabile a fine lavorazione (Lahue et al., 2020; Bigey et al., 2020).
Tale lievito è stato originariamente denominato Saccharomyces carlsbergensis, successivamente modificato in S.uvarumS.cerevisiae varietà carlsbergensisS. pastorianus .
(n.d.r.: E.Christian Hansen utilizzando la “coltura pura” diede determinante impulso alla qualità; Luis Pasteur con le sue scoperte microbiologiche, fra le altre, sfatò l’idea secolare della “generazione spontanea” secondo la quale, in determinate circostanze, alcune forme di vita, come ratti e mosche, possano derivare spontaneamente dalla materia non vivente.
Dopo oltre un secolo e mezzo c’è chi si ricrede su tali scoperte scientifiche e le considera una limitazione culturale e tecnologica. Alternative propugnate? Le “fermentazioni spontanee” o “wild yeast wather”!
È la microbiologia fai-da-te in salsa ideologica del naturale-è-bello, bellezza!).
Nel frattempo l’industria del lievito era ben avviata con fabbriche in Olanda, Danimarca, Germania, Austria, Francia e i percorsi divennero definitivamente autonomi, tant’è che, nonostante la storia intrecciata della birra e della panificazione, le relazioni filogenetiche tra ceppi da birra e da pane, pur con qualche eccezione, sono in gran parte separate (Lahue et al., 2020).
Il motivo per cui l’industria del lievito si sviluppò prima nei paesi nordici e dopo nei paesi mediterranei è sostanzialmente dovuto alla presenza in tali areali della barbabietola e relativa lavorazione che, oltre allo zucchero, rendeva disponibile il melasso quale fonte alimentare per i lieviti; la totale sostituzione del substrato a base cereali si è completata nel passaggio fra il XIX e il XX secolo.
In Italia bisognerà attendere tale passaggio di secolo per vedere coltivata la barbabietola e di conseguenza il sorgere di zuccherifici (precedentemente esistevano solo raffinerie di zucchero grezzo importato presso i porti di arrivo, Genova in primis), e quindi melasso disponibile per produrre lievito e alcool, quest’ultimo particolarmente richiesto nei periodi bellici per esplosivi e trazione oltre che benemerito per le entrate fiscali che garantiva.
Un notevole impulso al miglioramento tecnologico nella produzione industriale di lievito fu impresso durante la prima guerra mondiale (Germania 1915, Danimarca 1919), introducendo la sincronizzazione dell’aggiunta dei nutrienti con la crescita del lievito (fed batch).
Tale tecnologia tutt’ora in uso, è la risposta alla caratteristica del Saccharomyces cerevisiae di produrre alcool e non biomassa (fermentazione vs respirazione) in presenza di elevata quantità di zuccheri anche in ambiente aerobico: riducendo tale concentrazione con somministrazioni graduate nel tempo, si mantengono le condizioni adatte alla crescita cellulare.
Gli anni sia della prima che della seconda guerra mondiale vedono in Germania l’impiego alimentare diretto del lievito in aggiunta agli insaccati ed ai cibi conservati, riuscendo così a rimpiazzare parte delle importazioni di derrate alimentari, tracciando un’applicazione frequentemente evocata ma sostanzialmente poco praticata (Litchfield, 1983; Aurora et al., 1991).
Nel frattempo si elaboravano le prime strategie per l’essiccazione del lievito per una più lunga conservazione: i primi tentativi prevedevano l’essiccazione al sole previa miscelazione con cenere, altri metodi di conservazione includevano l'imbottigliamento o la copertura del lievito con l'olio; comunque il lievito in qualche modo essiccato fu messo per la prima volta in commercio a Vienna nel 1822 (Frey, 1930).


Bisognerà attendere la seconda guerra mondiale per sancire la prima produzione industriale di lievito secco attivo (ADY) in granuli, (realizzata in Nord America da Fleischmann's Yeast) e pochi anni dopo anche in Europa. Dopo trent’anni, Lesaffre in Francia realizzerà la produzione di lievito secco istantaneo (IDY), con un netto incremento qualitativo.  
Dell’Italia è già stato accennato della tribolata introduzione della barbabietola nell’ordinamento colturale e mai così azzeccata parrebbe l’aggettivazione.
Complice una serie di situazioni convergenti, dalla sfortunata latitudine al ritardo genetico, dagli elevati costi infrastrutturali per qualche decina di giorni di attività degli zuccherifici all’attrattiva fiscale sul prezzo dello zucchero che ne ha sempre influenzato le sorti e, in ultimo, alle regole fagocitatrici dell’economia globale, ecco, l’arco temporale del XX secolo, per lo zucchero italiano, può essere rappresentato con la curva gaussiana di crescita: fase di latenza, fase di crescita esponenziale, fase di stabilità, fase di declino.
Quest’ultima data è fissata sull’ascissa al 2006, con la riforma dell’OCM zucchero e conseguenti riduzione delle quote produttive e dei prezzi d’intervento. La quota di produzione dell’Italia nell’UE è passata dal 8,6% al 3,8%, corrispondente a circa il 30% del suo fabbisogno di zucchero. Dal 1° ottobre 2017 il regime delle quote zucchero è stato soppresso e il settore bieticolo-saccarifero è entrato nella nuova fase di liberalizzazione produttiva (Frascarelli 2017).
Dell’allegra brigata di un tempo sono rimasti in funzione due zuccherifici!
L’industria del lievito, pur con motivazioni diverse, ne ha condiviso l’andamento, sono rimasti tre siti produttivi, completamente avulsi dal contesto zuccheriero, per la verità produttivamente importanti e tecnologicamente all’avanguardia, ognuno inserito nel contesto dei tre gruppi multinazionali più importanti a livello globale (canadese, francese, inglese-quest’ultimo subentrato al gruppo olandese- in ordine alfabetico); un quarto player (cinese) si è inserito da protagonista negli ultimi anni. Il melasso necessario è garantito dall’importazione, non smentendo così l’italica vocazione manifatturiera in virtù dell’importante quota produttiva esportata.


Un’interessante fotografia del tempo emerge da una seduta parlamentare del 1964 per l’approvazione di uno dei tanti e ripetitivi provvedimenti a favore dell’industria saccarifera, che indica in 80 zuccherifici e 20 fabbriche di lievito la consistenza produttiva di allora. Il documento cita anche il quantitativo di 300.000 quintali di saccaromelasso, quantitativo che sostanzialmente non si discosta dal fabbisogno attuale per la produzione di lievito destinato al mercato italiano, anche se, riflettendo, emerge come nel periodo intercorso i volumi abbiano vissuto momenti decisamente migliori.



Un progetto mai decollato: le bioproteine.


Nel 1966 il “Massachusettes Institute of Tecnology (MIT) coniava il termine SCP (SINGLE-CELL PROTEIN) per indicare l’uso della biomassa batterica come alimento.
Terminologia impropria, anche se ancora utilizzata, perché, pur se uno dei principali vantaggi legati alla crescita microbica negli alimenti è l'aumento del suo contenuto proteico, tale definizione lascerebbe intendere trattarsi di “proteine da organismi unicellulari”, mentre è l’intera cellula microbica e non la sua frazione proteica ad essere destinata all’alimentazione.




Erano gli anni in cui si affacciava il problema delle risorse alimentari da destinare ad una popolazione mondiale in rapida crescita e la comunità scientifica internazionale si faceva carico di individuare le strade da seguire.

Erano gli anni in cui si assisteva alla crescita delle produzioni industriali e conseguentemente dei loro reflui, con la presa di coscienza della necessità/opportunità di un loro riutilizzo (oggi si chiamerebbe economia circolare).
Ecco allora il fiorire di lavori scientifici, di ricerche, di proposte e di iniziative basate sulla sostenibilità economica e sicurezza alimentare del binomio microrganismo/substrato di crescita.
Sono già stati riportati i riscontri storici dalla Germania, durante la prima guerra mondiale, con la produzione di Saccharomyces cerevisiae da aggiungere agli insaccati ed ai cibi conservati; ancora la Germania durante la seconda guerra mondiale, facendo di nuovo ricorso a questa tecnologia alimentare, coltivando però Candida utilis.
Negli anni ’60 del secolo scorso, British Petroleums sviluppò la tecnologia per destinare ad alimentazione animale lieviti del genere Candida (spp. lipolytica e/o tropicalis), in grado di utilizzare come fonte di carbonio le paraffine ottenute dal gasolio pesante (n-alcani), ricavandone la Toprina, la più celebre fonte di proteine alimentari non convenzionali.

In Italia avrebbero dovuto produrle due società:
Italproteine (Anic e British Petroleum) a Sarroch (Cagliari) e Liquichimica Biosintesi a Saline di Montebello Jonico (Reggio Calabria). Tale progetto implicò un ingente impiego di risorse pubbliche con la costruzione di due stabilimenti dedicati e un intenso lavoro scientifico per quasi 10 anni (dal 1970 al 1979) con la produzione di numerosi risconti sperimentali.
Il progetto fu alla fine bloccato ovunque, non solo in Italia, per le problematiche di ordine sanitario emerse.
In ogni caso, al di là di questo sventurato episodio, i microrganismi rappresentano una grande risorsa alimentare, la loro produzione è tecnologicamente evoluta e la conoscenza della loro applicabilità nutrizionale, concreta.
Si consideri che i microrganismi hanno un alto tasso di moltiplicazione, non sono soggetti alle condizioni stagionali e climatiche, utilizzano una varietà di fonti di carbonio come fonte di energia, possono aiutare nel riciclaggio dei rifiuti utilizzandoli come mezzo di crescita per la produzione di SCP ad alto contenuto di proteine: le prospettive non mancano (Adedayo et al.2011).

Il futuro?

Tutto da scrivere anche se presumibilmente solo una piccola parte sarà in lingua italiana. Almeno dal punto di vista produttivo, stante i vincoli che il “sistema Italia” impone, alla luce di precedenti tutt’altro che incoraggianti. Tecnologia produttiva vs tecnologia applicativa è il percorso che via via si è delineato: applicare al meglio quanto altrove prodotto.
Dell’infausta evoluzione della coltura della barbabietola e dell’industria dello zucchero abbiamo detto, della produzione di alcool etilico pure, la produzione di estratto di lievito è da includere nella categoria delle produzioni dismesse, la produzione di enzimi è da sempre inesistente.
Resiste la produzione di lievito per panificazione, poggiantesi su capitali non italiani (l’industria del lievito è ad alto rapporto capitale investito/fatturato prodotto), a merito delle elevate performances tecnologiche e qualitative raggiunte che rendono apprezzato il prodotto non solo sul mercato italiano ma anche sui mercati esteri.
Lievito biologico? No grazie. Refusi normativi iniziali poi superati, hanno rallentato l’approccio al bio-business. Tentativo avviato e rientrato velocemente: il pragmatismo della regola del 95% o meglio l’appeal del 5% (sono etichettabili come biologici gli alimenti con almeno il 95% degli ingredienti agricoli ottenuti con metodo biologico) sono stati più convincenti della meglio accattivante bio-comunicazione!
Il lievito per impieghi in vinificazione è solo in modesta parte prodotto in Italia ma la quota esportata oltre i confini nazionali è importante, stante la ricerca e la tecnologia applicativa italiana veramente ai massimi livelli.
No estratto di lievito, dicevamo, ma si estrazione di RNA, da cui tutti i derivati flavorizzanti, immunizzanti e nutraceuti che ne derivano: fra i player mondiali, il cui numero rientra nelle dita di una mano, uno dei più importanti è in Italia.
Non ci addentreremo nell’utilizzo in alimentazione animale ove il ricorso è pressoché totale a prodotti di recupero (da birreria, etanolo, produzioni farmaceutiche, ecc.). Rimane un meno importante (quantitativamente) impiego come additivo (cellule attive) ma anche in questo caso la quota di produzione italiana è assolutamente minoritaria (1 su 5).
Al di fuori di questo scenario rimane ben poco.
L’impiego dei microrganismi quale fonte alimentare umana non sembra una priorità, più attrattivi appaiono al momento i grilli o le cavallette: un confronto aperto sui punti di forza e sui punti di debolezza di entrambe le produzioni, magari, non sarebbe sprecato.
Rimane l’affascinante capitolo della biotecnologia medica, dello studio e della produzione di principi attivi per terapie farmacologiche. Sia basandosi sulle peculiarità intrinseche della cellula di lievito sia ricorrendo all’ingegneria metabolica (oggi estremamente performante quanto cocciutamente impraticata) con l’obiettivo preciso di aumentare la produzione di una determinata sostanza.
Nello specifico, configurando la cellula come una fabbrica microscopica in grado di convertire zuccheri e amminoacidi in farmaci a base vegetale. Ma questa è un’altra storia.




¹http://www.cusmibio.unimi.it/scaricare/LIEVITOfinale.pdf
²http://users.unimi.it/dmora/materiali/Lezione4mg.pdf 
³In realtà Leeuwenhoek era un mercante di stoffe e, servendosi di uno strumento da lui costruito per contare i fili dei tessuti, poté per la prima volta vedere al microscopio quelli che oggi sappiamo essere “organismi viventi” agenti nella fermentazione, le cellule del lievito, che definì come “minutissimi corpuscoli di forma globulare”(Mutchinick, 2007).





GIANLUIGI MAZZOLARI

Agronomo, laureato in Scienze Agrarie presso l'UCSC di Piacenza. Ha percorso la propria carriera professionale presso aziende multinazionali nel settore alimentare. Ora esercita attività di consulenza agro-alimentare.


1 commento:

  1. A proposito di biologico parrebbe che lo zucchero non sia in grande spolvero se COPROB diminuisce per il 2022 il prezzo delle bietole bio di 5,5 €/t contro un aumento di 3 €/t delle bietole convenzionali.
    https://terraevita.edagricole.it/economia-e-politica-agricola/la-barbabietola-del-futuro-certificata-biologica-e-smart/

    RispondiElimina

Printfriendly