di Antonio Saltini e con Tommaso Maggiore
2ª ParteTra le facoltà fondate all’alba del secolo, presso quella di Firenze,(qui) dopo l’insegnamento di Alberto Oliva, intelligenza versatile che lascia pagine luminose sulla storia dell’agricoltura romana, operano gli allievi, Gasparini, di cui abbiamo registrato il magistero milanese, e Orsi, cui seguiranno Landi e Talamucci.
Parabole scintillanti tra cattedre successive
Il primo studioso delle sistemazioni idraulico-agrarie di collina, tema peculiare della più antica tradizione agronomica toscana, il secondo impegnato nella sperimentazione sulle foraggere.
A
Firenze gli studi agronomici assumono un indirizzo peculiare con lo
sviluppo della geopedologia, il terreno che affrontato, primo in
Italia, da Alvise Comel, a lungo direttore della Stazione
chimico-agraria di Udine, sede della realizzazione della prima carta
pedologica italiana, relativa al Friuli e alla Venezia Giulia, è
posto al centro delle proprie indagini prima da Principi, quindi
dal discepolo, Fiorenzo Mancini, che vi realizza ricerche di precipuo
rilievo, attribuendo Firenze un primato nazionale che sarà
consacrato dall’attività dell’Istituto sperimentale per lo
studio del suolo collocato nel capoluogo toscano.
Un
ruolo peculiare nelle vicende dell’insegnamento dell’agronomia
nel Paese deve essere riconosciuto ad Alfonso Draghetti, direttore,
durante il Ventennio fascista e fino al 1959, della Stazione
sperimentale di Modena, ultimo di una successione di sperimentatori
illustri, tra i quali Romulado Pirotta, Otto Penzig e Gino Cugini.
Nel laboratorio dell’organismo modenese Draghetti realizza le
esperienze sulla nutrizione invernale del frumento da cui prenderà
corpo la metodologia di concimazione che assicurerà il successo dei
frumenti di Nazareno Strampelli. Il
ciclo tardivo-precoce
che li contraddistingue, frutto precipuo della lucidità genetica
del costitutore, cui si unisce, peraltro, una scarsa resistenza al
freddo, non avrebbe manifestato i propri effetti sulle rese senza la
congegnazione di piani adeguati di concimazione
azotata,
che costituiscono il frutto delle indagini fisiologiche di Draghetti
e Gola, botanico dell’Università di Padova, e della divulgazione
in campo di Dante Gibertini, ricercatore,
insieme a Draghetti, alla Stazione sperimentale di Forlì, quindi
direttore della Cattedra ambulante di Brescia.
Conservando la direzione della Stazione di Modena, dove ha impostato
piani di indagine di precipuo significato nelle aziende sperimentali
di San Protaso in pianura, a Bomporto, e di Bombere in collina, a
Guiglia, Draghetti è il primo agronomo della nuova Facoltà di
Padova, creata nel 1948, dove intraprende indagini sperimentali sulla
base delle esperienze realizzate nelle aziende dell’istituto
modenese. Da Padova si trasferisce alla Facoltà di Piacenza,
anch’essa di recente costituzione, dove non resta, peraltro, a
lungo, sostituito da Giampietro Ballatore, proveniente da Palermo,
dove farà ritorno nel 1959 per occupare lungamente la cattedra,
realizzando studi su più di uno dei settori chiave dell’agricoltura
dell’Isola, al primo posto il grano duro, quindi la fava e le
foraggere, e dirigendo un centro per l’irrigazione.
Personalità
versatile
Ballatore attiva alla Facoltà di Palermo anche gli studi di
geopedologia, che affida a Fierotti, prepara un nutrito gruppo di
ricercatori che lo sostituiranno negli insegnamenti dell’agronomia,
delle coltivazioni erbacee, dell’orticoltura.
Mentre a Palermo Ballatore studia le colture tradizionali
dell’Isola, costituiscono terreno specifico di impegno della
Facoltà di Catania le colture orticole in serra che
rappresenteranno, per trent’anni, la sfera di più prodigioso
dinamismo dell’agricoltura siciliana. Legheranno il proprio nome ai
fasti della serricoltura di Vittoria, un fenomeno in parte cospicua
guidato dai tecnici delle industrie produttrici di sementi e
antiparassitari, i docenti catanesi allievi di Iannaccone Salvatore
Foti e Giuseppe La Malfa.
Ricordando
cinquant’anni di ricerca agronomica in Italia non si può
trascurare il ruolo dell’industria dei fertilizzanti, che con i
propri guadagni contribuisce, tra gli anni Trenta e gli anni
Sessanta, a finanziare la ricerca sospingendo l’innalzamento delle
rese di tutte le colture essenziali.
Franco Angelini, responsabile,
durante il Ventennio, della promozione dei fertilizzanti, assurge a
presidente del Consiglio superiore dell’agricoltura, occupa,
quindi, la cattedra di Portici,dalla quale propone il grande manuale
sulle colture erbacee costituente, in realtà, opera degli
assistenti. Dopo la guerra i produttori di fertilizzanti creano la
Seifa, cui è saldamente legata l’attività sperimentale di
agronomi di prestigio, Maggiore menziona Mancini, docente a Bologna,
che ha sviluppato un’attività di sperimentazione in sistematica
sintonia con l’industria saccarifera.
Dal
1970, un’agricoltura nuova
Nelle
campagne italiane ha operato, quindi, una’autentica folla di
agronomi. Il loro numero costituiva autentica necessità, il loro
lavoro è stato vera ricerca scientifica? Cosa hanno lasciato, sul
terreno applicativo, nelle regioni in cui hanno professato il proprio
insegnamento, e condotte le proprie esperienze? Propongo, al termine
della complessa rassegna, le difficili domande a Maggiore. Più di
uno, è la risposta del mio interlocutore, ha realizzato
sperimentazioni di autentica dignità scientifica: lo conferma la
rapida diffusione della metodologia di Fisher, che dalla
straordinaria esperienza di Rothamsted aveva ricavato le procedure
per valutare statisticamente il significato di ogni prova. Impiegando
sistematicamente la statistica, la sperimentazione italiana si adeguò
rapidamente ai canoni della ricerca internazionale. Sul terreno
applicativo i docenti delle facoltà collocate alle latitudini
diverse del Paese hanno preparato, negli ambienti diversi della
Penisola e delle Isole, gli uomini, proprietari, tecnici degli
organismi pubblici, specialisti al servizio delle società
produttrici di antiparassitari e di sementi, che avrebbero sospinto
la prorompente crescita che l’agricoltura italiana realizzava tra
gli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta.
Le
cattedre ambulanti avevano identificato, nei primi decenni del
secolo, gli ordinamenti capaci di accumulare nel terreno, attraverso
le foraggere, la massima quantità di azoto a favore del frumento:
nel Dopoguerra l’ampia disponibilità di fertilizzanti consentiva
di mutare radicalmente gli obiettivi aziendali, permettendo di
mirare a produzioni più elevate mediante ordinamenti semplificati. I
risultati sono stati una nuova zootecnia da carne, una nuova
zootecnia da latte, nelle province vocate grandi produzioni orticole,
il frumento si è ritratto alle aree dove poteva realizzare rese
corrispondenti agli standard internazionali, abbiamo vissuto l’epopea
del mais e quella della soia, la seconda epopea breve, ma con
produzioni elevatissime. Un impegno oltremodo significativo è stato
espletato, aggiunge Maggiore, per l’utilizzazione funzionale delle
montagna alpina, per la quale si debbono ricordare gli studi di
Crogioni e Cavallero alla Facoltà di Torino, e di quella
appenninica, per la quale oltre alle indagini di Draghetti a Guiglia
si possono ricordare quelle di Orsi e Talamucci della Facoltà di
Firenze.
Entrambi gli sforzi sono stati vanificati, peraltro,
dall’inarrestabile contrarsi di ogni convenienza economica alla
produzione agricola nelle aree declivi: dobbiamo comunque ritenere
che i risultati realizzati possano rivelarsi preziosi in
futuro per la razionale gestione
ambientale
di quelle aree.
Bisogna altresì ricordare, sottolinea il mio interlocutore, che i
progressi delle grandi colture sugli arativi si sono verificati
parallelamente all’imponente crescita della frutticoltura, della
viticoltura, dell’olivicoltura, che da settori al tempo della
guerra appena sfiorati dai primi segni di rinnovamento si sono
convertiti in sfere produttive che hanno potenziato la quantità,
migliorato la qualità, realizzato, per anni, introiti ingenti da
poderosi flussi di esportazione.
Sul
futuro, gli interrogativi inquietanti
Un
prodigioso processo di crescita che pare essersi arrestato,
consegnando l’agricoltura italiana a un processo di involuzione che
pare stia soffocando, uno alla volta, tutti i settori che hanno
vissuto, nell’ultimo cinquantennio, una’autentica epopea di
splendore. Mentre i redditi si contraggono per tutte le produzioni,
problemi nuovi e difficili impongono la propria cogenza, rileva
Maggiore, e non si percepisce né la capacità scientifica né la
determinazione politica di risolverli. L’allevamento da latte,
nelle province dove non stia scomparendo, si converte in
costellazione di impianti imponenti, a Cremona tra 200 e 500 capi,
con problemi immani di utilizzazione
agronomica
dei liquami, problemi che possono essere risolti solo con piani
comprensoriali tecnicamente ineccepibili e rispondenti a regole
razionali e di applicazione. Un problema identico vivono le aree dove
si è concentrato l’allevamento suino, che ha abbandonato regioni
dove pareva solidamente radicato per raccogliersi in poche province
in cui il numero dei capi, quindi l’entità dei reflui, ha segnato
una crescita che non è pleonastico definire astronomica. Senza
risolvere quei problemi l’allevamento si trasforma in minaccia
grave per l’integrità dell’ambiente. Ma a rendere qualunque
piano di smaltimento più difficile presta un contributo nefasto
l’urbanizzazione senza regole che ha fatto della Pianura Padana un
mosaico di aree industriali, villini con giardino, spezzoni di
agricoltura e aree commerciali, senza regole, senza ordine, libero
chicchessia di costruire cosa volesse dove volesse.
Oltre
all’allevamento problemi non meno ardui deve affrontare la
cerealicoltura, prosegue Maggiore: anche il più cospicuo dei
produttori di frumento o di mais rischia di non trovare oggi, sul
mercato, chi sia interessato ad una partita di diecimila quintali.
Bisogna mirare ai centomila quintali, al milione, e per farlo
occorre un piano comprensoriale, che impegni cento, cinquecento
agricoltori a seminare cultivar o ibridi
simili per tipologia di granella,
e a coltivarli
modulando fertilizzazione e trattamenti antiparassitari e diserbanti
per ottenere, nella varietà dei terreni, un prodotto identico sul
piano merceologico e, soprattutto, su quello fitosanitario, esente,
cioè, da micotossine,
che possa interessare i grandi complessi di trasformazione: il
mangimificio o l’amideria. Dobbiamo riconoscere, tuttavia, che
indurre gli agricoltori alla grande svolta in anni in cui dal
frumento o dal mais non ricavano che perdite non è impegno agevole.
Eppure, se vogliamo continuare a produrre almeno parte del frumento
necessario al nostro pane, e ai nostri spaghetti, e il mais per
i nostri allevamenti,
la strada, della produzione concertata è strada obbligata.
Trascurando
il ruolo della politica, per i cui praticanti pare che l’esistenza
di un’agricoltura che assicuri il cibo alle generazioni future non
costituisca ragione di alcun interesse, sul terreno scientifico è
ancora necessario, chiedo al mio interlocutore, che il paese delle
cento agricolture sia dotato di venticinque facoltà di agraria? I
problemi delle cento agricolture italiche si sono uniformati, mentre
le facoltà operanti alle latitudini diverse si sono convertite, in
gran parte, in scatole vuote, con i laboratori dovunque deserti,
senza autentico ricambio di docenti, risponde Maggiore. Ne
basterebbero, forse, quattro-cinque,
concentrando le forze, consentendo agli studiosi di cooperare
apportando le competenze complementari necessarie ad affrontare
problemi oltremodo difficili, che richiedono il lavoro comune
dell’agronomo, del geopedologo, del climatologo, del genetista, e
altre ancora. L’agricoltura italiana vive una crisi grave: gli
inputs
scientifici per affrontarla dovrebbero provenire da pools
di ricercatori capaci di affrontare la crisi nella complessità dei
suoi nodi. Gli studiosi preparati e capaci esistono, dichiara Tommaso
Maggiore, ma non possono cooperare, come imporrebbero le dimensioni
dei problemi, essendo dislocati
uno a Torino, uno a Cesena, uno a Foggia, senza occasioni formali di
incontro diverse dal convegno annuale di qualche società
scientifica.
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