di William J. Bernstein e con il commento di Luigi Mariani
"L'inclinazione al commercio, al baratto e allo scambio di una cosa per un'altra, è propria di tutti gli uomini, e non si ritrova in nessuna altra razza di animali". Così scriveva Adamo Smith,
in "La ricchezza delle nazioni". Ma quello del commercio è anche il grande romanzo dell'uomo, che si mette in viaggio con l'animo incerto, tra il desiderio della scoperta e quello del ritorno. Una storia epica e drammatica, che cominciò agli albori della civiltà, in Mesopotamia, allorché i primi mercanti iniziarono a discendere e risalire il corso del Tigri e dell'Eufrate con carichi d’orzo, rame ed avorio. Un’epopea che si rinnovò sulle rotte dell'Oriente grazie ai mercanti che, sfidando le tempeste monsoniche, portarono la seta fin nel cuore dell'impero romano. Che si affermò poi nel monopolio portoghese sulle spezie nel Cinquecento; nei tentativi della Spagna di aggirare i presidi di una potentissima Venezia; nella corsa allo zucchero della Giamaica, su cui l'Inghilterra fonderà il suo impero mercantile; nelle tecniche finanziarie che permisero alla fiorente e libera Olanda di costruire le sue fortune nel Seicento, mentre milioni di nativi africani erano deportati verso un destino di schiavitù. Ma è con l'era moderna che il commercio diventa materia di studio scientifico. Gli stati nazionali si dotano di ministri e tecnocrati, sorgono le banche centrali, Londra diventa la prima piazza di scambio; i commerci, per effetto dell'espansione imperialista e della Rivoluzione industriale, conoscono un'impennata straordinaria
Il
libro di Bernstein si rivela una lettura ricca di spunti
interessantissimi, uno per tutti quello relativo alla circolazione
atmosferica generale ed all’importanza che la sua conoscenza ebbe
per lo sviluppo dei commerci internazionali quando si navigava a
vela. Tale conoscenza, assai lacunosa all’epoca dell’impero
romano, fu raggiunta solo nel medioevo e permise ad esempio a
Cristoforo Colombo di raggiungere le Americhe sfruttando gli alisei
(venti tropicali che fluiscono da nordest verso sudovest) e di
riguadagnare l’Europa sfruttando le correnti occidentali che
mediamente fluiscono ad ovest verso est dominando le medie latitudini
del nostro pianeta.
In
conclusione ricordo che in una temperie culturale che vede il
progressivo ripiegarsi dei cittadini del nostro paese su logiche
neo-autarchiche ed elitarie irte di chilometri zero, forme più o
meno moderne di baratto, agricolture di prossimità e localismi
sempre più spinti, potrà giovare a qualcuno respirare un po’
d’aria pulita riflettendo sulle “ragioni del commercio” e su
come tale attività abbia cambiato e stia tuttora cambiando, il più
delle volte in meglio, il mondo.
Ed
a fronte delle potenziali ricadute positive del commercio sul
benessere dei popoli non può non preoccupare la notizia secondo cui
l’Unione Europea avrebbe introdotto una tassa anti global-warming
sui voli cargo che importano beni deperibili dall’Africa, notizia
che traggo dall’articolo “Sacrificing Africa for Climate Change -
Western policies seem more interested in carbon-dioxide levels than
in life expectancy” apparso sul Wall Street Journal del 4 luglio
scorso a firma di Caleb Rossiter. In proposito Rossiter enuncia una
tesi assai controcorrente a cui mi associo e cioè che “se anche
le previsioni più pessimistiche relative al global warming si
rivelassero corrette, l’Africa dovrebbe essere esentata da tasse
che ne limitano le possibilità di sviluppo condannandola
all’arretratezza.”
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