di ALFONSO PASCALE
La fine della guerra
fredda che si combatté dagli anni quaranta del secolo scorso tra
Occidente e Oriente viene convenzionalmente fatta coincidere con la
caduta del Muro di Berlino, avvenuta nel 1989, e la successiva
dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991.
In realtà, le ragioni
del conflitto erano venute meno nel giro di pochi anni, quando fu
chiaro che il confronto tra le due agricolture, quella statunitense e
quella sovietica, vedeva in netto e irriducibile vantaggio la prima a
scapito dell’altra e che dunque non aveva più senso una
competizione tra due modelli non più contendibili. Quello
occidentale poteva, infatti, garantire la crescita, mentre quello
sovietico, qualora fosse prevalso, avrebbe inesorabilmente condotto
ad un impoverimento sociale ed economico diffuso.
Le personalità
carismatiche che guidavano sia le due superpotenze che la chiesa più
numerosa tra quelle nate con il cristianesimo avevano compreso che
questa fosse la situazione già a cavallo tra anni cinquanta e
sessanta. E concentrarono gli sforzi per avviare un dialogo che
portasse ad una progressiva collaborazione e integrazione affrontando
in modo condiviso i nodi etici dello sviluppo: la centralità della
persona, la lotta alle ingiustizie, la salvaguardia delle risorse,
ecc.
Ma queste personalità
uscirono troppo presto di scena e si continuò a combattere una
guerra fredda priva di senso solo per non mettere in discussione gli
equilibri che si erano creati, le rendite di posizione e le abitudini
acquisite.
Potrebbe essere utile
capire meglio come andarono le cose in quel breve lasso di tempo in
cui concretamente parve affacciarsi la prospettiva di una pace
mondiale duratura e di uno sviluppo umano capace di diffondersi
rapidamente a livello planetario.
La festa in fattoria
Nel settembre 1959 il
Premier sovietico Nikita Krusciov visitò per 13 giorni gli Stati
Uniti su invito del presidente Dwight Eisenhower. Prima dei colloqui
tra i due leader a Camp David, Krusciov trascorse la giornata di
mercoledì 23 settembre in una grande fattoria dello Stato dello
Iowa, nel Milde West.
Proprietario della
fattoria era Roswell Garst, un ricco farmer di Coon Rapids,
specializzato nella coltivazione di mais ibridi. Krusciov e Garst già
si conoscevano. L’agricoltore americano aveva, infatti, visitato
l’URSS per invito di alcuni tecnici sovietici che qualche tempo
prima erano andati in America a studiare le nuove tecniche agricole
praticate nello Iowa. E Krusciov lo aveva invitato a passare un fine
settimana nella sua dacia estiva a Soči, una ridente cittadina
situata sulle rive del mar Nero. Adesso l’invito veniva ricambiato.
Krusciov arrivò a Coon
Rapids all’ora di pranzo. Nella fattoria di Garst regnava una
grande confusione: per tutta la mattina elicotteri dell’esercito
non avevano fatto altro che atterrare ovunque non ci fossero piante
di granturco, carichi di agenti dello FBI che si acquattavano in
“punti strategici” della fattoria per “tutelare la sicurezza”
dell’ospite sovietico.
Già qualche ora prima
dell’arrivo di Krusciov tutti gli abitanti di Coon Rapids si erano
raccolti intorno ai cancelli della fattoria di Garst e persino dentro
la cinta, vicino alla casa, intralciando i preparativi del pranzo per
175 coperti, iniziati la mattina all’alba dalla signora Garst.
All’arrivo del premier
i numerosi inservienti della fattoria ancora si affaccendavano
intorno alle tavole disposte sotto una grande tenda eretta vicino
alla piscina, portando enormi piatti, carichi di polli fritti,
prosciutto al forno, insalate rustiche, patate, peperoni, e le
tipiche pannocchie di granoturco abbrustolito, orgoglio di Roswell
Garst.
Appena sceso dall’auto,
assieme a Garst che lo aveva accompagnato da Des Moines, Krusciov si
rivolse così ai giornalisti: “Mi aspetto una giornata davvero
divertente”. Ed entrò nel giardino dei Garst fra una doppia ala di
invitati, vicini, giornalisti e fotografi. Garst faceva strada al suo
ospite, che camminava appoggiando la mano sulla spalla di un nipotino
di nove anni dell’agricoltore.
Che i campi siano
sconvolti da pacifici aratri e non da cingoli di carri armati
Tra i primi a salutare
Krusciov fu l’ex candidato democratico alla Presidenza, Adlai
Stevenson, il quale gli disse con tono scherzoso: “Il vostro
viaggio sta diventando più faticoso di una campagna elettorale per
la Presidenza”. I fotografi vollero che Krusciov posasse per loro
reggendo una delle grandi pannocchie di granturco di cui il suo
ospite era legittimamente orgoglioso. E il leader sovietico,
rivolgendosi ai giornalisti che gli chiedevano le sue impressioni su
quello che aveva visto nelle piantagioni, disse: “Sono rimasto
molto favorevolmente impressionato da quello che ho potuto vedere, ma
anche prima di venire qui mi ero fatto un’idea degli ottimi metodi
di coltivazione adottati dal signor Garst. Sono lieto di aver visto
confermate le mie impressioni e del vostro successo, e spero che voi
siate altrettanto lieti del nostro successo. Questo farebbe bene ai
rapporti tra i nostri due paesi”.
A questo punto Garst
intervenne esprimendo la speranza che Krusciov avesse notato i
sentimenti di amicizia espressi dalla popolazione durante la gita. E
Krusciov rispose di averlo notato e di esserne grato. “Vedete –
esclamò Garst – noi due, che siamo agricoltori, ci intendiamo; e
se ci mettessimo a discutere risolveremmo i problemi più presto dei
diplomatici”. Appena pronunciate queste parole, Garst si accorse
che vicino a lui c’era Cabot Endge, diplomatico di carriera, ma la
piccola “gaffe” fu annegata in una risata generale.
Garst presentò a
Krusciov tutti gli invitati, in gran parte amici di famiglia o
persone già conosciute dal primo ministro sovietico. Molti erano
agricoltori, e a ciascuno Krusciov chiese notizie delle sue proprietà
e dei suoi metodi di coltura e di allevamento. Al premier furono
presentati anche alcuni dei membri della missione agricola americana,
che si era recata in Unione Sovietica nel 1955.
Tra gli invitati c’era
anche Lauren Soth, direttore del Des Moines Register, il quale
nel 1955 aveva sollecitato in un editoriale l’invito di una
delegazione agricola sovietica nello Iowa. Krusciov lo abbracciò con
calore e si felicitò con lui per aver lanciato per primo l’idea di
un incontro sovietico-americano.
La colazione, in un
ambiente in cui tutti si conoscevano tra loro, si svolse senza il
minimo protocollo. Tutti gli invitati, compreso Krusciov, si
servirono da soli e scelsero da soli i propri vicini di posto:
Krusciov sedette fra Adlai Stevenson, con il quale conversò per
tutta la colazione, e David Garst, figlio del padrone di casa. Il
colloquio con Stevenson fu un succedersi di battute scherzose e di
scambi di idee più impegnative.
Dopo la colazione,
Stevenson riferì ai giornalisti di aver discusso circa 40 minuti con
Krusciov, toccando temi di notevole importanza: “È la prima volta
– precisò il leader democratico – che mi sento incoraggiato per
quel che concerne il disarmo”. E aggiunse: “Sono molto più
ottimista sulla situazione, quale risulta da questa conversazione, di
quella che non fosse un anno fa”.
Stevenson si disse certo
che le proposte di Krusciov sul disarmo fossero sincere e che egli
pensava quel che diceva. E concluse affermando di ritenere che il
piano di Krusciov per un disarmo totale potesse essere realizzato
“fase per fase”.
Conversando anch’egli
coi giornalisti sulle differenze tra l’agricoltura sovietica e
quella americana, Krusciov non ebbe difficoltà ad ammettere il
primato di quella statunitense: “Mi rendo conto – egli disse
sorridendo – che le vostre aziende agricole sono due volte più
produttive delle nostre, ma noi ci battiamo per fare progresso e ne
stiamo facendo”.
Successivamente, Krusciov
e Garst fecero un ampio giro per la tenuta e il leader sovietico
scese più volte dall’auto per inoltrarsi nei campi e osservare da
vicino le piantagioni di mais ibrido. Senza curarsi del fango che gli
imbrattava le scarpe e i pantaloni grigio chiaro, Krusciov si aggirò
tra i filari dell’alto granoturco, si avvicinò alle macchine
agricole in funzione e visitò i razionali silos di cui era dotata la
fattoria di Garst.
In serata ci fu il
solenne pranzo ufficiale offerto dal governatore dello Iowa,
Herschel Loveless, che, nel suo indirizzo di saluto, fece riferimento
ai “legami speciali” che esistevano tra lo Iowa e l’Unione
Sovietica e allo scambio di visite tra i tecnici agricoli dei due
paesi: “Noi diamo il benvenuto alla vostra sfida pacifica, per la
competizione a produrre più carne, burro e uova” disse Loveless, e
Krusciov lo applaudì.
Loveless ricordò le
cifre, davvero fantastiche, della produzione agricola americana e il
miglioramento notevole delle condizioni di vita degli agricoltori che
si era realizzato in pochi anni. E Krusciov, nel suo discorso,
espresse la sua ammirazione per l’alto livello tecnico e produttivo
raggiunto dall’agricoltura americana, che meritava attento studio
ed emulazione da parte dell’URSS. Ammise senza reticenze il ritardo
sovietico anche se aggiunse: “Siamo ora sulla strada buona. Abbiamo
rafforzato l’industria chimica per i fertilizzanti, stiamo
allargando il parco macchine, stiamo studiando tutti i metodi
scientifici più moderni per aumentare la produttività”.
“Non penso – concluse
Krusciov – che questo possa essere considerato una minaccia per
nessuno, come afferma qualche giornale americano. C’è da
domandarsi: che minaccia e contro chi può venire dal desiderio di
aumentare la produzione? Noi, per esempio, non consideriamo gli
agricoltori dello Iowa come gente aggressiva solo perché essa
produce attualmente più granturco e più carne delle aziende
collettive del Kuban. È ben difficile che qualcuno possa sostenere
che il nostro desiderio di produrre più carne, più burro e più
uova renda più aggressivo e pericoloso il nostro popolo. La verità
è che questa competizione tra noi e voi è più utile della corsa al
riarmo, della corsa a chi immagazzina più bombe atomiche. Gareggiamo
per produrre più burro piuttosto che più bombe. Vogliamo che i
campi siano sconvolti da pacifici aratri e non da missili o dai
cingoli dei carri armati”.
Le reazioni
A conclusione della
giornata, gli osservatori non poterono non rilevare che le
accoglienze e le manifestazioni di simpatia per Krusciov tra i
contadini e gli agricoltori americani, lungo le strade che
collegavano i villaggi di Des Moines, erano state più calorose di
quelle riservategli dagli abitanti di San Francisco. Le cifre fornite
dalle forze dell’ordine indicarono che più del 20 per cento della
popolazione (220 mila abitanti) erano sui marciapiedi e che tutti in
qualche modo avevano partecipato all’arrivo del premier sovietico
nello Iowa. Insomma, si trattò di una vera e propria festa. E i
giornali la suggellarono il giorno dopo con la foto che ritraeva
Krusciov e Garst in un abbraccio caloroso.
Anche i quotidiani
italiani dettero grande risalto al viaggio di Krusciov nell’America
agricola. L’Unità, all’epoca organo ufficiale del Pci,
fece un titolo in prima pagina a sette colonne che recitava:
“Gareggiamo per produrre più burro invece che più bombe H” e
riprese l’argomento in terza pagina con un titolo ancora più
esplicito e colorito: “Un’allegra festa campestre nella fattoria
di Garst”. L’inviato speciale, Maurizio Ferrara, scrisse un
articolo che faceva emergere con estrema chiarezza e con un
linguaggio accattivante il senso di quella giornata che in qualche
modo chiudeva la guerra fredda.
Grazie al suo fascino
contadino, Krusciov aveva conseguito due risultati importanti: il
primo era quello di aver fatto accettare agli agricoltori americani
l’idea che lo sviluppo dell’agricoltura sovietica costituisse non
già un pericolo per qualcuno ma un’opportunità per entrambi i
paesi di crescere insieme; l’altro era quello di aver reso
credibile la sua proposta di disarmo totale proprio perché
l’ammissione del primato agricolo americano, costituendo un
implicito riconoscimento della debolezza intrinseca dell’economia
sovietica come modello alternativo alla modernità tecnologica
americana, metteva a nudo l’inutilità di armarsi per imporre
qualcosa che non avrebbe avuto un futuro.
In tal modo, la
distensione tra i due blocchi mondiali di potenze apparve come un
processo genuinamente innervato in uno spirito di dialogo e di
collaborazione sul piano culturale, scientifico ed economico. Un
messaggio che avrà, peraltro, anche l’effetto di intensificare la
fuga in massa di professionisti e operai specializzati dall’Est
all’Ovest. Il Muro di Berlino, eretto nel 1961 dalla Repubblica
Democratica Tedesca, sarà lo strumento per scongiurare tale esodo ma
metterà completamente a nudo la fragilità del blocco comunista e
sarà il simbolo del suo carattere repressivo e tirannico,
specialmente dopo le uccisioni di chi aspirava alla libertà sotto
gli occhio dei media.
La gran parte del mondo
politico italiano reagì in modo positivo all’iniziativa di
Krusciov. Democristiani e socialisti ne trassero un incoraggiamento a
proseguire la politica dell’”apertura a sinistra”. E dettero a
quel progetto un’ulteriore valenza: quella di affidare all’Italia
il compito di farsi ponte tra Est e Ovest, favorendo la distensione,
il dialogo e il ripensamento del modello di sviluppo. I comunisti
intravidero nel successo conseguito dal leader sovietico in America
la prospettiva di riforme democratiche nei paesi del “campo
socialista”. E per se stessi un varco per uscire dalla cittadella
fortificata in cui erano rinserrati dal 18 aprile 1948.
Nel mondo agricolo, la
Coldiretti mantenne invece il tradizionale atteggiamento di ostilità
a qualsiasi apertura e riflessione critica. Pur registrando con
soddisfazione il riconoscimento sovietico dei progressi
dell’agricoltura americana, la confederazione sostenne che il
viaggio di Krusciov non poteva portare ad alcun “compromesso” tra
due realtà sociali e politiche così diverse, che dovevano rimanere
distinte. “Non è possibile in nessun caso – commentò il
giornale della Coldiretti – un incontro ed un compromesso tra
libertà e dittatura, tra democrazia e totalitarismo [..] Come scelta
di metodo non ci sono che due strade: o libertà o dittatura”.
Sulla stessa lunghezza
d’onda si collocò anche la Confagricoltura che era fortemente
preoccupata per il nuovo quadro politico che si stava delineando in
Italia. La prospettiva dell’”apertura a sinistra” era vissuta
dalla confederazione con estremo timore. “[Essa] avrebbe portato –
si legge in una relazione del presidente Alfonso Gaetani – ad una
nuova forma di organizzazione della società e dello Stato […] una
volontà, cioè, di rivoluzione che [avrebbe avuto] ripercussioni nei
secoli” poiché sommava “il socialismo marxista al socialismo
cristiano”.
L’accantonamento definitivo del
Lysenkoismo
Dopo la visita del leader
sovietico nello Iowa, fu a tutti chiaro che la teoria dell’agronomo
russo Trofim Denisovič Lysenko – che aveva costituito il “pensiero
alternativo” alle tecniche genetiche occidentali - era stata
definitivamente messa in soffitta dalla scienza ufficiale sovietica.
Lysenko, “lo scienziato
del popolo”, aveva negato i principî della genetica elaborati da
padre Gregor Mendel, August Weismann e Thomas Hunt Morgan, da lui
considerati “decadenti reazionari striscianti di fronte al
capitalismo occidentale”. Negando la teoria dell’ereditarietà
basata sui cromosomi, aveva sostenuto invece che le mutazioni
ereditarie nelle piante potessero essere causate dall’influenza
dell’ambiente e dagli innesti. Le sue scoperte sperimentali
avrebbero dovuto mostrare che era possibile migliorare
incredibilmente la germinazione dei semi di grano sottoponendoli alle
basse temperature. Aveva provato persino a ricavare i semi di segale
dalle piante di grano.
Il materialismo
dialettico era stato preso a pretesto per sostenere che fosse
possibile trasformare specie vegetali e animali non mediante la
selezione artificiale sulle mutazioni casuali all’interno di una
popolazione, come si era fatto per millenni, ma pianificandone il
cambiamento nella direzione voluta. E che si potesse produrre una
nuova varietà sovvertendo i cicli biologici naturali: per esempio,
piante da seminare in autunno e da raccogliere a primavera così da
evitare il pericolo delle gelate.
Ma era tutto un
imbroglio: i risultati sperimentali erano stati falsati. Avendo
persuaso Stalin che la sua teoria avrebbe posto rimedio ai fallimenti
dell’agricoltura sovietica, nell’arco di tre decenni Lysenko si
era costruito una carriera brillantissima. Eletto presidente
dell’Accademia Lenin delle scienze agrarie nel 1938, aveva ordinato
che milioni di acri fossero seminati con il grano trattato secondo i
suoi metodi. Quando il grano non era spuntato, gli agricoltori erano
stati arrestati per sabotaggio. I suoi critici erano stati
imprigionati nei gulag. Insomma, il lysenkoismo non era stato altro
che un grottesco connubio tra cecità ideologica e disonestà
intellettuale.
Con l’avvento al potere
da parte di Krusciov, allo “scienziato del popolo” era venuta
meno la protezione del partito. Ed era stato estromesso dalle cariche
più importanti che occupava, mentre i genetisti che egli aveva fatto
esonerare dagli incarichi erano stati restituiti ai posti principali
e avevano riportato entro i confini tradizionali l'indagine genetica
in Urss.
Anche in Italia, una
piccola pattuglia di intellettuali comunisti come Italo Calvino e
Antonio Banfi, guidata dal responsabile culturale del partito Emilio
Sereni,(leggi qui) si era fatta abbacinare dalla tecnica agronomica adottata in
Unione Sovietica, ritenendola valida solo perché espressione di quel
regime politico. Secondo costoro, “il vero scientifico” andava
legato sempre “allo sviluppo dei rapporti di produzione e alla
divisione della società in classi”. “Una scienza universalmente
valida” si sarebbe potuta affermare “soltanto con il superamento
della divisione della società in classi”. E dunque la scienza,
come l’arte e la morale, era “un fatto di partito, una componente
essenziale della lotta di classe”.
E così un patologo e
biologo di rilevanza internazionale, come Massimiliano Aloisi, era
stato espulso dal Pci nel 1956 per la mancata adesione alle tesi di
Lysenko. E genetisti di sinistra, come Emanuele Padoa, Giuseppe
Montalenti e Adriano Buzzati-Traverso, erano stati aspramente
criticati dal vertice del Pci per la loro contrarietà alle tesi di
Lysenko – che consideravano un “analfabeta” - e nei confronti
della propaganda sovietica contro l’autonomia della scienza.
Eppure, in Italia, si era
appena realizzato il trionfo del mais, con l’introduzione degli
ibridi americani per iniziativa di Luigi Fenaroli, botanico e
fitogeografo, succeduto nella direzione della Stazione sperimentale
di maiscoltura di Bergamo a Tito Vezio Zapparoli. Con materiale
nazionale vitreo combinato a linee americane farinose, lo scienziato
aveva proposto quattro serie di ibridi: la prima, comprendente le
costituzioni della Stazione di Bergamo, portanti la denominazione
Insubria, le altre tre contrassegnate Felsiena,
dall’Istituto di agronomia di Bologna, Etruria,
dall’Istituto di agronomia di Perugia, e Igr, dall’Istituto
di genetica per la cerealicoltura di Roma.
Ma verso queste
realizzazioni la sinistra mostrava ostilità perché vi scorgeva il
legame con l’America e, dunque, con gli interessi dei grandi gruppi
industriali. Mentre le forze di governo e la chiesa cattolica le
favorivano, non solo per il loro valore scientifico e per le ricadute
positive nel sistema produttivo, ma anche perché in questo modo si
arginava il “pericolo rosso”.
Ebbene, con la sua
provocatoria iniziativa nei campi sterminati di mais durante il suo
viaggio negli Stati Uniti, Krusciov mostrò ancora una volta di
ammirare la tecnologia americana e i risultati raggiunti dalle
ricerche nei paesi occidentali nel campo della genetica,
scompaginando gli opposti approcci ideologici alla scienza e alle
tecnologie. Ed è riferita proprio a questa vicenda una riflessione
che egli lascia annotata nelle sue memorie: “Dobbiamo imparare come
trasferire su suolo socialista tutte le conoscenze utili accumulate
dal capitalismo. Come ci insegna Lenin, abbiamo bisogno di imparare
dai capitalisti”. Insomma, differentemente da tanti raffinati
intellettuali comunisti, per il “rozzo” Krusciov era abbastanza
chiaro che non poteva esistere una scienza proletaria da contrapporre
ad una scienza borghese. E che il rapporto tra scienza e società –
che indubbiamente rimaneva come problema da affrontare - andava
fondato sulla condivisione, sul dialogo e sull’allargamento della
conoscenza.
La “Pacem in terris”
La visita di Krusciov in
America non sfuggì ad altri grandi protagonisti dell’epoca che ne
seppero cogliere un “segno dei tempi”. L’11 ottobre del 1961,
alla vigilia della partenza di Palmiro Togliatti per Mosca, dove era
in programma il XXII congresso del Pcus, don Giuseppe De Luca si
incontrò a cena con il segretario del Pci in casa di Franco Rodano.
E il sacerdote propose a Togliatti di suggerire a Krusciov di dare un
segnale distensivo anche al Vaticano.
Fra le carte di Togliatti
s’è trovato un appunto di mano di De Luca che recita:
“Nell’ottantesimo del papa, farsi vivi. Cioè non ereditare i
rancori della chiesa russa, superando anche in questo il
nazionalismo. Non fosse altro come un possibile tramite di
propaganda, il cattolicesimo romano è più diffuso del
protestantesimo inglese e tedesco e del cristianesimo russo. Roma è
l’unico ponte possibile”.
E così quando il 25
novembre 1961, giorno dell’ottantesimo genetliaco di papa Giovanni,
giunsero in Vaticano gli auguri di Krusciov con un telegramma
lunghissimo trasmesso a monsignor Iginio Cardinale, incaricato di
tenere i rapporti coi paesi dell’Est, il pontefice disse: “So che
il brindare non si addice a un papa, ma questa è un’occasione
particolare e si può fare un’eccezione”. E si fece portare una
bottiglia per brindare all’avvenimento con il prelato e alcuni
amici che si erano fermati a pranzo con lui.
Krusciov riteneva di
avere alcune caratteristiche in comune con il papa. “Ambedue
proveniamo da umili origini – aveva confidato a un giornalista –
abbiamo lavorato la terra in gioventù e sappiamo che cosa è lottare
per ricavare dalla terra i frutti necessari per vivere”. E dunque
avrebbero potuto facilmente intendersi.
Quando l’11 aprile 1963
papa Giovanni pubblicò l’Enciclica “Pacem in terris”, si
rivolse a “tutti gli uomini di buona volontà”, credenti e non
credenti, perché la chiesa doveva guardare ad un mondo senza confini
e senza "blocchi", e non apparteneva né all'Occidente né
all'Oriente. Cercassero “tutte le nazioni, tutte le comunità
politiche, il dialogo, il negoziato, ciò che unisce, tralasciando
ciò che divide”. In quel testo una parte grandissima dell’opinione
pubblica mondiale intravide il segnale che fosse giunto il tempo
della pace universale e del cambiamento. Un’avvisaglia che si
componeva di una serie di episodi avvenuti nei mesi precedenti e che
si potevano considerare tasselli di un unico mosaico.
Nel marzo 1962 era stato
varato un governo monocolore democristiano, presieduto da Amintore
Fanfani, sostenuto da Psdi e Pri e con l’astensione del Psi. Aveva
avuto inizio così l’”apertura a sinistra” con il contributo
del Pci di Togliatti che aveva garantito un’opposizione
“costruttiva e di stimolo”.
Nell’ottobre
successivo, si era aperta una crisi internazionale drammatica con
l’istallazione di missili sovietici a Cuba puntati contro le
principali città americane. John Kennedy, il primo presidente
cattolico degli Stati Uniti, aveva intimato a Krusciov il disarmo
dell’isola entro quarantotto ore. Ed era stato Papa Giovanni a
contribuire in modo decisivo al superamento della crisi con
un’iniziativa diplomatica nei confronti dei due leader – che
aveva visto anche il coinvolgimento del premier italiano Fanfani –
e con un messaggio di questo tenore: “Noi supplichiamo tutti i
governanti di non restare sordi a questo grido dell’umanità. Che
essi facciano tutto ciò che è in loro potere per salvare la pace.
Essi eviteranno così al mondo gli orrori di una guerra, di cui
nessuno può prevedere quali sarebbero le spaventose conseguenze. Che
essi continuino a trattare, perché questo atteggiamento leale e
aperto ha grande valore di testimonianza per la coscienza di ciascuno
e davanti alla storia. Promuovere, favorire, accettare dei colloqui,
a tutti i livelli e in ogni tempo, è una regola di saggezza e di
prudenza che attira le benedizioni del cielo e della terra”.
A seguito della
pubblicazione del messaggio papale sui maggiori quotidiani del mondo,
Krusciov aveva risposto a Kennedy impegnandosi a interrompere i
lavori alle basi missilistiche, a far rientrare in Unione Sovietica
le armi e a iniziare i negoziati con l’Onu. E il governo di
Washington si era dichiarato disponibile a smantellare i missili
Jupiter con testata nucleare installati in Turchia e in
Italia.
Il 7 marzo 1963 Alexiej
Adjubei, caporedattore del giornale governativo Izvestija, e
la moglie Rada Krusciov, figlia del leader sovietico, latori di una
lettera al papa del segretario del Pcus, erano stati ricevuti in
visita privata dal pontefice.
Dopo una settimana, il 20
marzo, nel Teatro Duse di Bergamo, il segretario del Pci, Palmiro
Togliatti, aveva pronunciato il discorso più importante
sull’auspicio di collaborazione tra comunisti e cattolici, il cui
testo pubblicato su Rinascita aveva come titolo “Il destino
dell’uomo”. Si era trattato di un’apertura notevole in
direzione di un’alleanza per superare la divisione del mondo in due
blocchi contrapposti, promuovere la persona umana, lottare le
ingiustizie e la povertà.
Un percorso interrotto
Ma i grandi protagonisti
che avevano incarnato la speranza di cambiamento usciranno di scena
prestissimo: Giovanni XXIII muore il 3 giugno 1963, il 22 novembre
Kennedy viene assassinato a Dallas, il 21 agosto dell’anno
successivo Togliatti muore a Jalta e il 14 ottobre il Politburo
destituisce Krusciov.
Con loro la guerra fredda
si era di fatto conclusa perché il leader sovietico aveva
riconosciuto il primato tecnologico americano e si era impegnato con
Kennedy ad avviare una fase di competizione collaborativa sul terreno
scientifico ed economico-produttivo. E Papa Giovanni aveva creato le
condizioni di un dialogo tra le diverse idealità per fare in modo
che lo sviluppo potesse avvenire nell’alveo di principi etici
condivisi. Un dialogo a cui stava dando un apporto innovativo anche
Togliatti, introducendo tra i comunisti due elementi originali:
l’acquisizione della “coscienza religiosa” come opportunità
per cambiare la società e l'idea di “religione civile” – come
insieme di valori e di principi - evocata a fondamento del
socialismo.
Con la loro uscita di
scena, si continuerà a mantenere in vita artificiosamente e
strumentalmente una contrapposizione tra capitalismo e comunismo fino
alla caduta del Muro di Berlino e all’implosione del sistema
sovietico. Un finto gioco per non mettersi in discussione accettando
il cambiamento che era avvenuto nelle cose. Un finto gioco che negli
ultimi cinque lustri assumerà le sembianze di una contrapposizione
irriducibile tra ideologie, etnie, religioni, modelli di produzione e
di consumo, ethos del mercato, idee di sviluppo che si differenziano
rispetto al ruolo da assegnare alla scienza. Allo spettro di Lysenko
subentreranno i “trionfi del neo-bramanesimo agreste” e le
crociate contro la scienza. Al culto del mercato come toccasana di
ogni problema subentrerà l’assuefazione alla speculazione
finanziaria anche quando mette a rischio la sicurezza alimentare. Una
conflittualità non mediabile che ci porterà ad una crisi economica
senza precedenti e ad una crisi di senso capace di generare un
disagio diffuso.
L’innovazione
da produrre resterà l’ascolto reciproco, la fraternità civile, la
disponibilità alla contaminazione. Nessuno dovrebbe pretendere di
imporre modelli. Ma tutti dovremmo sentirci impegnati nel costruire
un’osmosi tra comunità e globalità, tra sostenibilità e
sviluppo, tra crescita intelligente e inclusione sociale, tra scienza
e società. Alcuni grandi protagonisti del Novecento lo avevano
compreso cinquanta anni fa. Noi non dovremmo fare altro che
riprendere un percorso interrotto aggiornandolo al nuovo contesto
geopolitico ed ecosistemico del Terzo Millennio.
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