mercoledì 20 febbraio 2019

ANCHE PER I PASTORI SARDI IL FUTURO STA NEL PASSATO?


di GIANLUIGI MAZZOLARI

 

 



Così è suggerito, in riferimento ai recenti avvenimenti che hanno visto la Sardegna balzare agli onori delle cronache, per una volta scaturite non dai pettegolezzi balneari ma dai ben più coinvolgenti risvolti socio-economici dell’attività pastorale vs il mercato globale.
Non ce ne vogliano i pastori sardi se non aggiungiamo alcun tassello alle loro istanze: siamo consapevoli come, pur con diverse sfaccettature, esse nascano da problematiche ben note e comuni all’intero comparto agro-imprenditoriale italiano rendendo la necessità di soluzioni, condivisa.
Non è obiettivo di chi scrive entrare in tali disamine, primum per rispetto alle tante (in)competenze che già si sono prodigate in cause/soluzioni con riscontri vari di (in)successi.
Ci preme invece sottolineare il nesso fra alcune soluzioni proposte e il più ampio dibattito fra “progresso o ritorno al passato” in agricoltura avendo, i sostenitori di quest’ultimo, non perso l’occasione di intervenire, anche in questo frangente, a promozione delle loro tesi.
Lo spunto è fornito dall’ articolo: “C’è latte e latte, le ragioni degli allevatori in Sardegna”, pubblicato su un sito di riferimento nel panorama della comunicazione alimentare.
In sintesi, i contenuti riconducono la protesta degli allevatori alle problematiche ed alla strategia miope della filiera del latte ovi-caprino (concetto riconosciuto in numerose analisi) e disegnano con dati e riferimenti puntuali la situazione nei paesi europei più rappresentativi del comparto.
Di contro, le soluzioni suggerite appaiono incongruenti e contradditorie, oltre che strumentali al sostegno di quella corrente di pensiero che ambisce ad imporre per legge la propria dottrina.
Che le pratiche dell’agricoltura biologica meritino riconoscimento per i risvolti positivi che possono contenere nessuno lo mette in dubbio, che siano salvifiche fino a pretendere di essere riconosciute le sole meritevoli è inammissibile, che possano assurgere a soluzione per il latte sardo, beh, ci sia consentito di essere alquanto scettici.

Entriamo nel merito affrontando separatamente i passaggi salienti dell’articolo:

1)…..per rafforzare il settore ovino, i ricercatori considerano essenziale aumentare la produttività dei capi, all’insegna di sostenibilità e benessere animale. Incrementare cioè la produzione di carne (numero di agnelli allevati per animale avviato alla riproduzione) e di latte (numero degli ovini in produzione per pecora avviata alla riproduzione).

NDR: i ricercatori citati fanno parte di una rete di lavoro internazionale su specifico progetto UE finalizzato a contrastare il declino del comparto. Emerge come essi abbiano puntato (giustamente aggiungiamo noi) sull’ incremento di produttività (carne e latte), sul benessere animale e sulla sostenibilità. Tutti fattori oramai consolidati sia nell’orientamento delle politiche UE sia nei riscontri tecnico-scientifici dei modelli di agricoltura/allevamento progrediti.
Giova rimarcare, in tema di sostenibilità, come sia ostica l’accettazione che i modelli a bassa efficienza produttiva sono i meno sostenibili e come, quindi, la massimizzazione della produttività, non la limitazione degli input, rappresenti l’obiettivo.

1.1)……..la rincorsa alla produttività tuttavia non coincide né con il benessere animale e l’ecosistema, né con la qualità dei prodotti. Nel settore bovino, le mucche da latte, tra genetica e alimentazione spinta, negli ultimi decenni hanno superato i 50 litri/giorno con una drastica riduzione dell’aspettativa di vita (dai 16 ai 4 anni). La ‘dittatura dei numeri’ è prevalsa sulla qualità nutraceutica degli alimenti, sine cura dell‘impatto su ecosistema e biodiversità delle monoculture imposte dalla domanda di mangimi ‘performanti’, anche OGM, a basso prezzo . Sono poi sopraggiunti il crollo della richiesta e dei prezzi, fino alla crisi mondiale del latte. Ma la lezione, a quanto pare, non è bastata.

NDR: la perseveranza con cui si insiste a sostenere tesi basate su errati presupposti si trasforma, giocoforza, in dogmi e non in confronto. Benessere animale, ecosistema e qualità non sono prerogative di parte ma comuni ai sistemi colturali/zootecnici responsabili: siano essi finalizzati all’efficienza sia a valori prevalentemente simbolici. Infatti, in una società sempre più urbanizzata ove si è perso il contatto diretto con i ritmi della natura, non è negativo che tale esigenza venga surrettiziamente colmata con l’idealizzazione di un impossibile ritorno al passato ed ai bei tempi che (non)furono: è una legittima “nicchia ecologica”. Legittima fin che rimane nicchia, inaccettabile quando pretenziosamente estesa a panacea per la salvezza del pianeta. Nessuno nega il contributo di valorizzazione dei territori meno vocati (in Italia non mancano di certo) esercitato da forme di agricoltura meno produttive e più vantate, assolutamente non proponibili in sostituzione, per rimanere al testo citato, ove le vacche producono 50 litri/giorno. Semmai, l’attenuante a tale visione, sta nella percezione fuorviante di allevamento di vacche da latte ispirato dalle inchieste di Striscia/Gabanelli scuola, rispetto alla realtà di un allevamento, ad esempio, del cremonese: mettere in discussione il livello di perfezione manageriale/metabolica raggiunto da tale sistema produttivo è perlomeno oscurantista.

2) ….le pratiche estensive di allevamento sono state convertite in semi-estensive, con stabulazione in ovile e inevitabile aumento dei costi variabili (mangimi), ampliamento delle aziende, maggiore dipendenza dai sussidi. Il latte ottenuto in stalla, com’è ovvio, ha qualità ben diverse da quello di animali al pascolo, ma ai consumAttori non è dato sapere come sono state allevate le pecore all’origine dei vari formaggi. Beata trasparenza (sic!).

NDR: tre concetti sovrapposti che meritano di essere scorporati.
  • In una elementare analisi costi/ricavi, l’aumento dei costi variabili (mangimi) è propedeutico all’aumento di produttività (carne e latte) quindi finalizzato alla diminuzione dei costi di produzione. L’allevamento estensivo costerà meno in input ma produrrà pure meno output ed il tornaconto sarà tutto da calcolare: affatto scontato che vinca il confronto, anzi. 
  • Il latte in stalla ha qualità ben diverse da quello di animali allevati al pascolo? Quale qualità? Qualità nutrizionale, qualità organolettica, qualità emotiva, qualità percepita vs qualità desiderata che non esula dalla qualità economica (prezzo).

D’altronde l’aspetto economico docet: parrebbe infatti essere la motivazione per cui delle tre DOP, il Pecorino Romano, produttivamente meno costoso, è quantitativamente il più rappresentato; il Pecorino Sardo e il Fiore Sardo, qualitativamente superiori e produttivamente più costosi, lo sono molto meno.
  • Trasparenza: spesso enfatizzata, è comunque una costante che le norme UE già prevedono all’interno delle “corrette informazioni al consumatore”. Che nulla a che vedere con i maldestri blitz normativi dei nostri governanti (precedenti ed attuali, accomunati da Coldiretti quale suggeritore) in tema di dichiarazione d’origine, senza alcun valore effettivo se non propagandistico oltre che controproducente per le nostre imprese.

In aggiunta, accettato che le differenze qualitative fra pascolo/stalla siano così eclatanti e determinanti nella decisione di acquisto, il consumatore, fidelizzato, non sarebbe così dipendente dalle informazioni in etichetta. In ogni caso, a rafforzamento della scelta comunicativa, si potrebbe sempre far ricorso alle informazioni volontarie; perché, giocoforza, obbligare?

3)….già nel 2010 la crisi della pastorizia era emersa, con la denuncia di numerose aziende agricole che ‘scivolavano’ dolcemente verso un allevamento intensivo senza alcuna progettualità, ‘mettendosi in una forma di dipendenza verso le aziende casearie’……… in attesa di novità sui rimedi promessi dalla politica, si propone di riflettere su alcune opportunità:
A) riportare valore nelle aziende agricole, ripristinando le pratiche di allevamento estensivo anziché semi-estensivo con stabulazione. Il latte di stalla non ha nulla a che vedere con quello da pascolo, anche dal punto di vista nutraceutico. I consumatori devono poter conoscere le pratiche di allevamento e alimentazione da cui derivano i prodotti, sia pure mediante informazioni volontarie in etichetta,
B) remunerare in misura equa gli allevatori. Con un premio a coloro che allevano gli animali al pascolo – i veri pastori – e un premio ulteriore a quelli certificati bio, i quali offrono ulteriori garanzie anche sul fronte del benessere animale. Servono impegni volontari di industria e GDO, dei quali riportare evidenza in etichetta. Affinché i consumAttori possano davvero eseguire scelte responsabili di acquisto. Magari anche attraverso la Marca del Consumatore (MDC), il cui pecorino potrebbe venire promosso anche all’estero quale iniziativa di solidarietà internazionale, 
C) introdurre l’origine obbligatoria delle materie prime……Le organizzazioni di produttori e i consorzi di fannulloni che dovrebbero tutelare l’intera filiera produttiva devono poi cercare sbocchi commerciali su nuovi mercati….

Unicità e tipicità di un latte sono caratteristiche che afferiscono alle proprietà del pascolo che l’animale consuma. È proprio il pascolo a determinare e aggiungere i caratteri primari di un prodotto, trasferendovi elementi distintivi e propri di un territorio, nel rispetto dell’ecosistema. Il passaggio a un modello intensivo o semi-intensivo, oltre a far perdere il valore distintivo associato al territorio e alla tradizione, aumenta i costi di gestione (mangimi e salari soprattutto, oltreché energia). Ma ancora oggi la Regione Sardegna consiglia di migliorare il tasso di prolificità e integrare l’alimentazione ‘casuale e spontanea del pascolo prediligendo integrazioni con Miscela di mais granella e FES (farina di estrazione di soia).
Il latte sardo potrebbe costituire un esempio di tradizione rurale millenaria e vincente, per l’intero settore alimentare italiano. E invece riflette oltre un decennio di inerzia, progettuale e politica. Gli unici in grado di rispondere con elasticità a una domanda di latte che oscilla sensibilmente in prezzi e volumi sono i produttori, i quali oggi protestano lo sfruttamento e gli abusi di una filiera che li ha soggiogati. Dopo averli illusi, con la complicità dei loro stessi rappresentanti, proponendo un modello già fallito nel settore bovino. È ora di riportare valore e trasparenza, per ottenere dai ConsumAttori i meritati premi.

NDR: quest’ultimo paragrafo riassume esaustivamente le contraddizioni del ”meno latte ma più bio”, da leggere in “meno cibo ma a prezzi più elevati”.
Sì, perché in un contesto generalizzato, con risorse limitate, a espansione territoriale impossibile o, se del caso, peggiorativa dei valori proclamati, questo è. Ancora una volta si fa confusione fra mercato di nicchia e mercato reale, nella logica dell’inusuale “(don’t)tink global, act local”.
Imputare all’allevamento intensivo costi più elevati di produzione rispetto all’allevamento estensivo è un artifizio lessicale, non un risultato economico: non è dubbio che il propugnato allevamento estensivo creerebbe minori surplus, risultato peraltro raggiungibile con un minore numero di capi in intensivo, se questo fosse il fine , ma è un altro tema.
Piuttosto, risponde, purtroppo, a una frequente dinamica di mercato che chi appartiene alle fasi iniziali della filiera sopporti il maggior peso di situazioni di mercato negative e ne incolpi chi sta in cima alla filiera. Succede al latte bovino e al latte ovino, succede all’orto-frutta e alle commodity ma, ipotizzare che basti informare doviziosamente il consumatore dell’Illinois che il Pecorino è prodotto da latte proveniente da pecore che pascolano vista Gennargentu anziché sul versante soleggiato del Supramonte affinché accetti di pagare un prezzo più elevato, appare alquanto azzardato. Anche usufruendo dei servigi della sponsorizzata Associazione MDC (La Marca Del Consumatore – chi è il padrone?- per un consumatore con più potere).
Più realisticamente, a livello locale, la sensibilità al consumo attento e all’informazione globale può rappresentare una opportunità non da trascurare ma da perseguire, nei limiti della reale capienza recettiva di un mercato, si, attrattivo ma pur sempre di alta fascia, quindi inesorabilmente ridotto.
Contare sulla sostenibilità economica delle minori produzioni garantita dai maggiori prezzi di vendita, non parrebbe rispondere a una lucida visione imprenditoriale.
Risponde ad una visione di economia sussidiata, indispensabile per sostenere attività autonomamente insostenibili.
Il perseguimento di tale obiettivo esige di screditare la produzione alimentare convenzionale?
Tant’è, dietro ad ogni grande battaglia c’è un grande interesse economico sovente mascherato da grande ideologia.
Ed ecco formulato il tentativo, in sede legislativa, di imporre il riconoscimento menzognero all’agricoltura biologica di tutti i plus sociali, ambientali, qualitativi, di sicurezza, di benessere animale, di contenimento di gas serra, di biodiversità, ecc., per intestarsi gli agognati sussidi.


Gianluigi Mazzolari
Agronomo, laureato in Scienze Agrarie presso l'UCSC di Piacenza. Ha percorso la propria carriera professionale presso aziende multinazionali nel settore alimentare. Ora esercita attività di consulenza agro-alimentare.



4 commenti:

  1. Gianluigi,
    scusami della confidenzialità, ma essendo stati forgiati dalla stessa fucina, credo di potermelo permettere e ne approfitto per complimentarmi del tuo articolo.
    Dongo e Cortese, che credo essere gli autori dell'articolo avranno anche perso i capelli, ma sicuramnete non li hanno persi per aver calzato in continuazione un cappellaccio di paglia e scorazzato per delle aziende agricole o studiatone l'economia. A proposito forse non sanno neppure che è solo un allevamento che produce il letame necessario per mantenere i livelli di sostanza organica del terreno.

    Perchè dico questo? E' per contestare le loro farneticanti affermazioni che riporti nel punto 1.1. (ma anche le altre non sono da meno)

    Cosa dici, gli insegniamo un po di zootecnia?

    Una vacca ha il primo parto sui tre anni e senza parto non c'è verso di far loro produrre latte (forse le loro mogli producono latte in continuazione?). Il vitello nato, dopo aver bevuto il colostro è tolto e allevato con latte condensato e la madre per otto mesi produce latte che viene munto e trasformato in latticini che fanno parte della dieta della maggioranza dei consumatori.

    I vitelli nati sono per il 50% femmine e per il 50% maschi. Una parte delle prime serve da rimonta cioè per rimpiazzare le vacche che vedremo finiscono la vita produttiva, mentre i maschi sono ingrassati più alla svelta possibile è mandati al mecello. Se si tenessero in vita tutti i vitelli o tutti gli agnelli o i capretti l'allvatore fallirebbe e l'Italia sarebbe invasa da questi animale che però in poco tempo se allevati al pqascolo renderebbero l'Italia un deserto.


    Normalmente dopo due mesi dal parto essa è ingravidata nuovamente e dopo nove mesi nasce un altro vitello, ma due mesi prima del parto la lattazione è interrotta affinchè il vitello abbia più nutrimento e si formi completamente.

    Un vacca può vivere dai 15 ai 20 anni, ma dopo sei o sette anni e tre gravidanze essa finisce la sua vita produttiva in quanto la sua produzione di latte andrebbe calando e la sua economicità verrebbe meno (per farla continuare a produrre e mantenerla in vita forse che i due autori dell'articolo sono disponibili a rifare all'agricoltore il minor guadagno? Certo che no, perchè il benessere animale esigono che sia assicurato con il soldi degli altri.

    La vacca che finisce l'attività produttiva. vista che il mantenerla costerebbe, deve andare al macello e guarda caso fornisce carne a buon mercato ai consumatori (cosa credono che gli Hamburger del Mc Donald siano fatti dalla carne di fiorentina?).

    Ci sarebbe un'altra possibilità quella di mandare in pensione le vacche come gli umani, ma perchè ciò avvenga occorre che la Brambilla faccia in modo che l'INPS paghi la pensione anche alle vacche come agli uomini in modo che l'allevatore possa mantenere in vita l'animale usando i soldi della sua penzione.

    Mi pare che ci sia tantissima gente che parla di agricoltura senza saperne e che sia come una mia cugina abitante in città, che quando veniva a trovarmi e vedeva il gallo che fecondava la gallina e per sotenersi le prendeva la cresta con il becco, credeva che la fecondazione avvenisse tirando la cresta della gallina......

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  2. Per fortuna che un po’ di goliardia ci è rimasta in barba a quei soloni del bio pieni di astio che fanno proselitismo con verità preconfezionate

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  3. Il problema della crisi del prezzo del latte ovino sardo destinato alla produzione del pecorino romano deriva dalle dinamiche di un mercato che in poco tempo ha portato il prezzo del formaggio da oltre 8 euro il kg. al prezzo di poco superiore ai 5 euro e quindi il prezzo alla produzione è fortemente diminuito da oltre 1 euro al litro a 60-70 centesimi con grave danno ai produttori che scontano un costo di produzione superiore. La misura dell'ammasso servirà solo ad alleggerire il mercato per qualche tempo ma è evidente che se la dinamica del calo dei consumi e sopratutto dell'esportazione non si modificherà ben difficilmente il prezzo del latte potrà significativamente aumentare. D'altronde la stessa dinamica si è già vista per altre produzioni lattiero-casearie. Quindi la gestione della produzione in virtù del mercato resta un punto fondamentale. Poi è evidente che possono essere intervenute manovre più o meno speculative, che l'industria di trasformazione possa approfittarsene ma questo non è stato determinante. Altro discorso è quello del sostegno alle produzioni ed ai produttori delle zone svantaggiate o difficili dove l'agricoltura e l'allevamento sono fondamentali per mantenere un ambiente anche sociale che altrimenti è condannato al degrado. E' evidente che indicare il ritorno al passato bucolico solo nelle fiabe, è tipico di chi non conosce la realtà agricola dei diversi ambienti italiani ma solo i salotti un po radical chic.
    Gianni Leoncini agronomo

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    1. Gianni Leonicini

      Parole sacrosante per chi ha praticato i mercati: se cresce autonomamente la domanda crescono anche i prezzi alla fonte, se artificiamente influenzi la domanda agendo sull'offerta, quando terminano gli interventi artificiali si torna al punto di partenza. Quindi se anche aumentano il prezzo del latte e questo continua a creare sovrapproduzione di materia prima,ma senza un'adeguata azione per generare crescita di domanda si è solo rimandato in avanti il momento di tensione. Se non è possibile far crescere la domanda allora bisogna rassegnarsi a contingentare la produzione, con il risultato però che dei pastori verranno espulsi dalla produzione. Il servizio sociale relativo al mantenimento di ambienti che altrimenti sarebbero abbandonati va pagato per quello che è e non si può farlo sostenendo abnormemente la produzione perchè questa poi rientra sul mercato e rigenera tensioni.

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