lunedì 25 maggio 2020

IL DIGIUNO DI SCIENZA CHE AFFAMA

di MICHELE LODIGIANI

 

 


Sul Corriere della Sera del 5 maggio scorso il Prof. Panebianco è intervenuto con un articolo interessante e preoccupato, intitolato “A digiuno di scienza”, sul controverso rapporto fra scienza e Italiani. Un agronomo ha scritto all’autore integrando l’argomento per quanto riguarda le scienze agrarie.


Egr. Prof. Panebianco, ho letto con interesse e apprezzamento il suo articolo del 6 u.s. “A digiuno di scienza” nel quale, ancora una volta, la sua penna si distingue dalla vulgata comune per apertura, libertà e chiarezza di pensiero. Fra chi propugna “l’uno vale uno” anche in campo scientifico e chi per contro attribuisce alla scienza funzioni salvifiche – i due estremi da lei correttamente individuati – esiste tuttavia un mondo assai variegato su cui occorre spendere, ad integrazione del quadro da lei rappresentato, qualche parola: parte di esso, infatti, del digiuno scientifico da lei denunciato costituisce insieme causa ed effetto.
Questa necessità è tanto più urgente nel settore che mi sta a cuore, l’agricoltura: nell’attuale emergenza essa sta confermando una centralità che molti avevano rimosso, senza tuttavia riuscire a scrollarsi di dosso i pregiudizi, quando non le vere e proprie interessate mistificazioni, di cui negli ultimi decenni è divenuta oggetto. Come ogni altro settore produttivo l’agricoltura presenta delle criticità di carattere ambientale cui è giusto prestare attenzione, anzi particolare attenzione in considerazione del fatto che essa ha come prevalente mezzo di produzione un bene naturale e irriproducibile: la terra. Come ogni altro settore produttivo l’agricoltura è stata oggetto di un’evoluzione tecnologica straordinaria, basata prima sulle scoperte ottocentesche relative alla fisiologia nutrizionale, poi sulla meccanizzazione, quindi sulla genetica e per il futuro, un futuro già iniziato, sui big data. Nell’agricoltura di oggi, quando condotta correttamente, queste tecnologie convivono – pur fra mille errori e ripensamenti – con saperi assai più antichi che, contrariamente al sentire comune, non sono affatto stati rimossi, che della buona agronomia continuano a costituire il fondamento e che per altro sono essi stessi oggetto di indagine scientifica e di continua evoluzione tecnologica. Mi riferisco, per esempio, all’importanza della sostanza organica nel terreno, il cui impoverimento costituisce una reale criticità dell’agricoltura moderna, che non ha nulla a che fare con l’impiego dei concimi chimici – come è opinione comune – ma piuttosto con l’abuso della meccanica. Di ciò si parla poco, forse perché le tecniche percepite come più virtuose (come l’agricoltura biologica) non solo non costituiscono nella maggior parte dei casi una soluzione a questo problema ma se mai un aggravamento, dato che la rinuncia alla chimica di sintesi nella lotta alle erbe infestanti costringe ad un maggior uso dei mezzi meccanici di controllo, causa primaria dell’ossidazione del terreno e quindi del degrado della componente organica in esso presente.
Mi scuserà questa pedante “lezioncina” volta a rivendicare orgogliosamente una rappresentazione dell’agricoltura assai diversa da quella comunemente percepita e divulgata: tutto ciò – e non mi pare un aspetto marginale – ha consentito di sostenere negli ultimi 50 anni una crescita della popolazione che non ha precedenti nella storia, con conseguente straordinario (per quanto ancora insufficiente) contenimento del problema della fame e della sotto nutrizione, risultato che certo sarebbe stato impossibile ottenere senza alcuna contropartita! La “lezioncina” è tuttavia finalizzata anche ad evidenziare quanto, come spesso avviene, il diavolo si nasconda nei dettagli. Fra i due estremi da lei individuati, infatti, esiste una stratificazione culturale variegata che provo qui a schematizzare:

  1. La grandissima prevalenza del mondo scientifico non è affatto diviso – come comunemente si afferma – e si riconosce pienamente nel quadro che le ho sopra rappresentato: esso, tuttavia, fatica ad esporsi apertamente, se lo fa difficilmente ottiene visibilità, quando la ottiene diviene spesso oggetto di attacchi violenti ed anche personali.
  2. Una parte importante – forse non numericamente, ma sicuramente in termini di esposizione perché è quella che scrive sui giornali e va in televisione – del mondo intellettuale supporta una visione “alternativa” dell’agricoltura, propugna per essa un modello sostanzialmente passatista guardandosi bene dal riconoscerlo come tale e rivendicando se mai per esso una valenza post-industriale, rivendica la superiorità morale (in termini sociali, ambientali e di salute pubblica) del proprio modello, a volte non esita a colpire l’avversario (più propriamente il nemico) con irrevocabili scomuniche volte a delegittimarlo più che a contrastarne gli argomenti. Spesso questi intellettuali non hanno specifiche competenze, ma soltanto una ferma vocazione ad autoconvincersi di essere “dalla parte giusta della Storia”. Essi trovano comunque conforto scientifico in quella parte del mondo accademico e della ricerca, frazionale ma assai funzionale allo scopo, che si autoesclude (per originalità di pensiero? per pregiudizio ideologico? per convenienza? per convinzione? presumibilmente a livello individuale per tutte queste ragioni) dalla categoria rappresentata al paragrafo precedente. Essi inoltre, consapevolmente o meno, sviluppano sinergie culturali assai efficaci con quella parte del mondo economico che sul concetto di agricoltura virtuosa (più enunciata che praticata) basa il proprio marketing, raggiungendo fatturati al cui confronto quelli della tanto vituperata Monsanto fanno sorridere: ciò, per altro, sembra non incidere per nulla sulla loro “purezza”, poiché l’accusa di conflitto di interessi è riservata esclusivamente a chi difende l’agricoltura tecnologica. 
  3. L’opinione pubblica, prevalentemente incompetente e comunque distratta, forma le proprie convinzioni in base a quanto legge e vede: inevitabilmente lo slogan o la notizia allarmistica, anche enfatizzata o del tutto inventata, condiziona assai più di quella scientifica ben argomentata, ma assai più complessa.
Il diavolo, dicevo, si nasconde nei dettagli. A me pare infatti che se ai due estremi da lei individuati sia corretto addebitare la responsabilità del digiuno scientifico, alle figure descritte al punto 2) del mio schema – vere e proprie somministratrici di diete tossiche – debbano essere attribuite responsabilità ancor maggiori: esse conferiscono un’aura di autorevolezza e una parvenza di scientificità a posizioni inconsistenti, che non sarebbero in grado di sostenere verifiche metodiche di tipo galileiano (a cui infatti regolarmente sfuggono) ma che a forza di essere divulgate, riprese, citate, riverberate, promosse, ecc. ecc. sono diventate postulati, su cui non occorre neppure discutere.
Su tutto ciò il mondo mediatico ha grandi responsabilità. Il gruppo editoriale del Corriere, proprio per l’autorevolezza che gli viene riconosciuta, ne ha di particolarmente gravi. Desideriamo citarle qualche episodio recente, purtroppo tutt’altro che isolato:
Nel Data Room del 10 febbraio scorso, dal titolo “Perché non si studia che cosa provoca il cancro”, la dott.ssa Gabanelli definisce “emblematico” il caso dei pesticidi e dei fertilizzanti, asserendo che “in Italia nel 2017 ne sono stati sparsi 1,3 miliardi di tonnellate”. Soltanto questa riga, ma il resto dell’articolo non è da meno, contiene una fuorviante forzatura ed un errore colossale: ricomprendere in un’unica categoria i fertilizzanti, che hanno un’azione nutritiva, e i cosiddetti pesticidi, che hanno la finalità di prevenire o curare le fitopatologie, è un po’ (anch’io forzo il concetto, ma soltanto per farmi capire) come ricomprendere nella stessa categoria, riferendosi all’uomo anziché alle piante, la pasta asciutta e i farmaci. Quanto all’errore, be’: esso sta nella confusione fra tonnellate e chilogrammi!
In rapida sequenza il 16 e il 27 aprile u.s. il Corriere ha pubblicato con grande evidenza due articoli, l’uno di Giulia Maria Crespi e l’altro di Carlo Triarico, rispettivamente Presidente Onoraria e Presidente dell’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica. La dispenso da un’ulteriore lezioncina sull’agricoltura biodinamica, non tanto e non solo per ragioni di spazio e per non abusare della sua pazienza, quanto perché quanto leggerebbe le risulterebbe incredibile dalle mie labbra. Le sarò quindi davvero grato se vorrà invece documentarsi direttamente alla fonte, ad esempio sul sito di Demeter (https://demeter.it/biodinamica/), l’associazione internazionale di cui lo stesso Triarico è consigliere, dove potrà in breve farsi un’idea sull’agricoltura biodinamica, sulle sue procedure (meglio, forse, rituali), sui suoi preparati.
Agli articoli sopra citati ha replicato il prof. Dario Casati, il cui “pedigree” scientifico è al di sopra di ogni sospetto, inviando al Corriere la lettera argomentata: a tutt’oggi essa non è stata pubblicata.
Se avrà avuto la pazienza di seguire il mio consiglio visitando il sito di Demeter, penso che le risulterà incredibile anche solo che il Corriere abbia concesso qualsivoglia spazio all’argomento. Anche per me lo è, con l’unica attenuante che altre istituzioni hanno fatto anche di peggio: l’Università Bocconi e il Politecnico di Milano hanno ospitato nel recente passato il Convegno Internazionale di Agricoltura Biodinamica; l’Università di Firenze l’avrebbe ospitato quest’anno se esso non fosse stato sospeso a causa dell’emergenza sanitaria; un Ministro dell’Agricoltura, Martina, ha proposto l’istituzione di una facoltà di agricoltura biodinamica. Mentre le posizioni antiscientifiche trovano megafoni tanto prestigiosi, la voce della scienza non genera alcuna eco: in allegato le trasmetto una presa di posizione sull’argomento che più di 20 società e istituzioni scientifiche italiane hanno sottoscritto in occasione del previsto convegno di Firenze. Questo documento, nonostante l’indubbia autorevolezza degli estensori, ha avuto una limitata circolazione sui media specializzati ma è stato pressoché del tutto ignorato dai media generalisti: tanto comunque è bastato al nostro Triarico per accusare i sottoscrittori, con uno spettacolare ribaltamento dialettico, di oscurantismo e per assimilarli ai firmatari del manifesto della razza.
Questo è quanto. Mi è parso utile integrare i suoi argomenti con i miei, sperando che contribuiscano a darle qualche consapevolezza in più sulla triste realtà del rapporto fra scienza e agricoltura. Tutto ciò non è senza conseguenze: l’antiscienza costituisce il brodo di coltura da cui sviluppano leggi dannose per il Paese come quella in approvazione sull’agricoltura biologica e biodinamica, che gli articoli di Crespi e Triarico peroravano nei loro articoli con una azione lobbistica mascherata da nobili argomenti cui il Corriere ha prestato il fianco. 



Michele Lodigiani
Agronomo, è agricoltore a Piacenza da più di quarant’anni. Per curiosità intellettuale e vocazione imprenditoriale è stato spesso pioniere nell’adozione di innovazioni di prodotto e di processo, con alterne fortune. Ha un rapporto di fiducia con la Scienza, si commuove di fronte alle straordinarie affermazioni dell’intelligenza umana (quando è ben impiegata), osserva con infinito stupore la meravigliosa armonia che guida i fenomeni naturali. 






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