venerdì 29 maggio 2020

IL FABBISOGNO DI PROTEINE ALLA BASE DELLO SPILLOVER


di SERGIO SALVI


Mercato della carne a Can Tho, Vietnam (foto Di Canio & Vitale).

Una lettura illuminante in tempi di pandemia è quella del libro “Bats and viruses: a new frontier of emerging infectious diseases” (John Wiley & Sons, 2015), alcuni capitoli del quale sono scaricabili gratuitamente dal sito dell’editore. 
Il capitolo 10, intitolato “Anthropogenic epidemics: the ecology of bat‐borne viruses and our role in their emergence”, mostra chiaramente, con alcuni esempi di salto di specie verificatisi nel corso degli ultimi venti anni, come le attività antropiche siano in grado di “guidare” letteralmente lo spillover dal pipistrello all’uomo passando per un ospite animale intermedio. 
I casi riportati sono quelli dell’epidemia di Hendra in Australia (1994), Nipah in Malesia (1998), Sars-Cov in Cina (2003) e Ebola in Guinea (2014). Protagonisti di queste epidemie sono altrettanti virus che hanno in alcune specie di pipistrelli i propri ospiti-serbatoio naturali. 
Qui vale la pena ricordare che nel mondo ci sono più di 1200 specie di pipistrelli, il che fa di questi animali il secondo gruppo tassonomico più ricco di specie tra i mammiferi dopo quello dei roditori, rappresentando un quinto di tutta la diversità mammifera. Inoltre, i pipistrelli sono presenti in tutti i continenti (ad esclusione dell’Antartide) e vivono in qualsiasi ambiente che sia occupato anche dall’uomo. In genere i pipistrelli evitano il contatto con le persone e quando questo avviene è per lo più incidentale. Tranne nei casi in cui è proprio l’uomo, con le sue attività, ad invadere il campo. 
Tra le attività umane, quattro sono quelle che contribuiscono maggiormente a guidare il salto di specie virale: l’espansione/intensificazione agricola o zootecnica (come nel caso del virus Nipah), l’urbanizzazione (Hendra), il commercio di animali selvatici (Sars-Cov, e molto probabilmente anche Sars-Cov-2) e la caccia agli animali selvatici (Ebola). 
Senza entrare nel dettaglio dei quattro esempi di epidemie human-driven sopra elencati, intendiamo qui porre in evidenza come, almeno in tre casi, alla base dello spillover vi sia stato l’approvvigionamento di proteine animali da parte dell’uomo: l’epidemia di Nipah ebbe origine in un grande allevamento suino all’aperto, quella di Sars in uno degli ormai famigerati wet markets, mentre per Ebola si trattò del consumo di cacciagione a base di scimmie. 
In tutti e tre i casi abbiamo a che fare con la questione della domanda di proteine animali che caratterizza da sempre i paesi in via di sviluppo di Asia e Africa; una domanda che è cresciuta in modo drammatico negli ultimi decenni, per soddisfare la quale la “caccia a tutto ciò che si muove” rappresenta un must negli strati più disagiati della popolazione. Ma è anche una domanda che può assumere, come nel caso cinese, i connotati di una moda alimentare associata all’ostentazione di uno status ritenuto di maggior benessere sociale. 
Se da un lato basterebbe portare al chiuso gli allevamenti suini intensivi, così da evitare che i maiali tenuti all’aperto entrino in contatto con le “piogge” di deiezioni di pipistrello, ben più problematici da gestire sono il commercio e soprattutto la caccia degli animali selvatici, per i quali le soluzioni passanti per i divieti tout court da salotto ambientalista sono ritenute dagli esperti non solo dozzinali e sostanzialmente impraticabili, ma addirittura in grado di aggravare il problema a causa dell’inevitabile incentivazione di attività e pratiche clandestine. 
In definitiva, il rischio spillover può essere inserito nella lista delle giustificazioni che spingono verso la ricerca di fonti proteiche alternative e sostenibili, collocando i wet markets e il bushmeat hunting su un piano analogo a quello occupato dagli allevamenti intensivi, accusati di contribuire all’alterazione del clima a causa delle emissioni di gas serra (soprattutto metano) e di costituire, in alcuni casi, degli incubatori di potenziali epidemie. 
Viene allora da chiedersi se le alghe, gli insetti, le proteine microbiche e la carne in vitro - ossia le soluzioni al problema della domanda proteica globale promosse da certo ambientalismo - possano essere proposte alle popolazioni asiatiche e africane quali fonti proteiche alternative e sostenibili alla loro portata. 
Personalmente trovo ridicolo proporre opzioni alimentari che sono state proprio quelle stesse popolazioni a farci conoscere. Da tempo immemore, infatti, la gente che vive sulle sponde del lago Ciad, in Africa, sopravvive consumando la microalga spirulina (Arthrospira platensis) sotto forma di un preparato iperproteico noto come dihé, così come gli insetti rientrano da altrettanto tempo tra le specialità culinarie asiatiche (sempre in accordo alla filosofia del “mangiare tutto ciò che si muove”). Anche per queste popolazioni, riuscire a disporre di una bistecca di manzo o di un piatto di selvaggina è tutta un’altra storia. 
Qualcuno propone di affrontare il problema dei wet markets ragionando in termini di allevamenti controllati e certificati dallo stato e di condizioni igieniche migliorate. Potrebbe essere una soluzione, mentre più problematica appare la gestione del bushmeat hunting: vietare di cacciare le scimmie o altri animali selvatici è certamente auspicabile, ma va trovato il modo di garantire una fornitura alternativa di proteine, incentivando, neanche a farlo apposta, l’allevamento di altri animali. Detto in altre parole, dagli allevamenti non si scappa tanto facilmente. 
Per quanto riguarda le soluzioni biotech, come le proteine batteriche prodotte nei fermenatori o la carne artificiale, la cosa è del tutto improponibile in paesi in cui il gap tecnologico è abissale. 
In un precedente articolo ho introdotto il concetto di “ambientalismo biotecnologico”, che ho definito come un movimento di pensiero e azione concreta finalizzato a trovare un punto di congiunzione tra la tutela dell’ambiente e il miglioramento biotecnologico delle colture, con il triplice obiettivo di aumentare la produttività agricola, conservare gli ecosistemi e prevenire le zoonosi da spillover. Aumentare la produttività agricola migliorando contestualmente l’apporto proteico vegetale può quindi contribuire alla soddisfazione della domanda di proteine e alla prevenzione dello spillover, purchè lo sfruttamento dell’innovazione biotecnologica agraria sia reso accessibile anche ai paesi in via di sviluppo.




Sergio Salvi
 
Biologo libero professionista, già ricercatore in genetica, è biografo di Nazareno Strampelli e cultore di storia agroalimentare. Si dedica alla divulgazione scientifica su temi d’interesse storico e di attualità. È Socio corrispondente della Deputazione di Storia Patria per le Marche.






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