di CARLO FIDEGHELLI
Articolo tratto da "I TEMPI DELLA TERRA" |n° 9|
Campi in fiore tra Ravenna e Forlì . Foto - Condifesa Ravenna per gentile concessione. |
L’Italia, per ragioni storiche, orografiche, climatiche è, da sempre, il principale paese frutticolo europeo e mediterraneo; da qualche anno il comparto vive una situazione di difficoltà crescenti che stanno seriamente minando questo primato. Per comprendere i problemi della frutticoltura italiana, in una economia globalizzata come quella attuale, è necessario dare uno sguardo alla recente evoluzione della frutticoltura europea e mondiale.
La produzione italiana nel contesto mondiale ed europeo
La produzione italiana nel contesto mondiale ed europeo
La produzione italiana delle dodici
principali specie di frutta fresca (tab.1) è di poco più di 9 milioni
di tonnellate ( media 2017-2018, dati FAO), pari al 20,5% della
produzione europea (44.095.000 di t) e al 2,9% della produzione mondiale
(317.299.000 di t). Mele, arance, pesche e nettarine e uva da tavola
sono le specie più importanti, ciliegie, fragole, susine e albicocche
quelle meno. Rispetto alla produzione europea, i dati più significativi
riguardano kiwi (64,5%), uva da tavola (41,4%), pesche e nettarine
(30,2%), i valori più bassi sono relativi a fragole (7,3%), susine
(7,7%), mele (12,8%), e ciliegie (14,6%). Tutte le altre specie hanno
valori compresi tra 20,0% e 26,2%. Rispetto alla produzione mondiale,
spicca il 14% del kiwi, ancor più tenuto conto che questa coltura, nel
nostro Paese, è nata cinquant’anni fa. Valori significativi hanno anche
le albicocche (5,6%), le pesche e nettarine (4,8%), e le ciliegie
(4,7%).
La frutta secca (tab.2) ha valori percentuali più importanti sia in Europa (34,3%) che nel mondo (3,6%), grazie alla produzione molto importante delle nocciole (77,5% in Europa, 14,2% nel mondo). A livello europeo è importante anche la produzione di castagne con oltre un terzo della produzione continentale. Molto modesto è il contributo italiano alla produzione mondiale del pistacchio (0,3%).
Interessanti sono i dati della tabella 3 che riporta la variazione delle stesse produzioni dal 2.000 al 2018 in Italia, in Europa e nel mondo. A livello mondiale tutte le specie vedono incrementate le loro produzioni da un minimo del 18% delle arance al massimo del 188% delle noci. Valori superiori al 100% hanno fatto registrare anche castagne (150,2%), mandorle (119,2%) e kiwi (113,1)%. In Europa, quattro specie hanno un segno meno: pesche e nettarine, ciliegie, pere e limoni; tutta l’altra frutta è aumentata dal minimo del 10,6% delle mele al massimo del 81,1% del kiwi. I dati relativi all’Italia confermano lo stato di difficoltà della nostra frutticoltura: otto specie su 15 hanno segno negativo (fragole, limoni, pesche e nettarine, noci, mandorle, pere, ciliegie, arance). Preoccupanti sono i valori relativi a fragole (-39,1%), limoni (-38,2%), pesche e nettarine (-34,0%), pere (-19,4%), quattro specie molto importanti per superficie e valore dell’economia frutticola nazionale. Al contrario, molto positivo è stato l’andamento del kiwi (+ 62,4%), seguito dal nocciolo (+ 34,3%) che hanno consolidato la loro importanza a livello mondiale.
Nonostante le difficoltà evidenziate dai dati riportati nella tabella 3, la situazione della frutticoltura italiana ha ancora un rilievo primario in Europa dove risulta al primo posto in 7 delle sedici specie elencate in tabella 4 (albicocche, ciliegie, pere, uva da tavola, kiwi, nocciole, castagne) e seconda in altre 6 (pesche e nettarine, mele, mandorle, arance, limoni, clementini). Nel Mediterraneo, l’Italia è prima nelle produzioni di pere e kiwi e seconda in quelle di pesche e nettarine, ciliegie, nocciole, castagne. Le posizioni meno positive, sia in Europa che nel Mediterraneo, riguardano la fragola, la specie nella quale incide maggiormente il costo della manodopera, e il noce, specie a lungo inspiegabilmente trascurata e solo di recente oggetto di attenzione da parte dei frutticoltori italiani. La concorrenza europea viene essenzialmente dalla Spagna, favorita da diversi fattori: aziende di medio- grandi dimensioni con importanti capitali da investire, più manodopera e meno costosa, livello tecnico elevato e, comunque, non inferiore a quello italiano, migliore organizzazione produttiva e commerciale, ottimo servizio di ricerca e sperimentazione sia nazionale che regionale, burocrazia più snella e minori costi dei fattori di produzione (energia, acqua, concimi, antiparassitari,…). La Grecia sta uscendo da una lunga crisi economica, ma sta rapidamente recuperando nel comparto frutticolo e la sua concorrenza è sempre più aggressiva nel settore del kiwi, dell’uva da tavola e delle ciliegie. La concorrenza mediterranea viene da tre paesi: Turchia (nocciole, ciliegie, uva da tavola, agrumi, fragole), Egitto (agrumi, fragole, uva da tavola), Marocco (agrumi, fragole, mandorle). La concorrenza di questi paesi continuerà a crescere e riguarderà un numero crescente di prodotti.
Le ragioni delle attuali difficoltà
Una delle maggiori cause delle difficoltà in cui si trovano i nostri frutticoltori è la crescente importazione, sia in Italia che negli altri Paesi europei, di frutta tropicale che sottrae spazio al consumo di frutta italiana nel mercato interno e alla possibilità di esportazione in Europa delle nostre produzioni frutticole (Tab.5). L’importazione dei sei principali prodotti tropicali è pari all’ 11,1% in Italia e al 31,8% in Europa della produzione di frutta fresca (Tab.1). L’ordine di importanza è lo stesso in Italia e in Europa con le banane di gran lunga le più importati; tutti i prodotti sono in crescita negli ultimi 10 anni. Avocado in particolare e mango sono i due frutti con le percentuali di crescita più elevate e significativa è la crescita complessiva in Europa pari al 27,5%, quasi doppia rispetto a quella italiana del 15,2%. Oltre la frutta tropicale che arriva nel continente europeo dodici mesi l’anno, è sempre maggiore l’importazione della frutta temperata dall’emisfero australe che, inevitabilmente, è concorrente della frutta di stagione prodotta in Europa.
L’importazione crescente di frutta, sia sul mercato interno che europeo, accentua il problema ricorrente delle sovrapproduzioni strutturali che recentemente hanno riguardato in particolare le pesche e le nettarine. Gli appelli ad una maggiore aggregazione dei produttori e ad un migliore coordinamento tra i paesi dell’UE che potrebbero ridurre questo problema, se non del tutto inascoltati, certamente sono poco messi in pratica.
Da molti anni l’Italia è tra i paesi con la più bassa natalità e, per lungo tempo, i figli degli agricoltori hanno scelto altre professioni trascurando la cura della terra lasciata dai genitori. Da qualche anno questa negativa tendenza sembra arrestarsi e una nuova classe di giovani imprenditori affronta la sfida di una agricoltura moderna.
Un’altra ragione di difficoltà, non risolvibile in tempi brevi, è il maggiore costo della manodopera e la sua carenza rispetto agli altri paesi mediterranei, a parte la Francia che, infatti, da prima di noi , vede un continuo ridimensionamento della propria frutticoltura, poco competitiva rispetto ai paesi della stessa area geografica.
L’importazione di frutta tropicale e di quella dall’emisfero meridionale non è la sola e neppure più importante conseguenza negativa della globalizzazione per la nostra frutticoltura che, come ricordava il grande politologo Giovanni Sartori in una conferenza tenuta presso l’Accademia dei Georgofili nel 1993, comporta che “Le innovazioni sono globali e i costi sono locali”.
Per restare al settore frutticolo, sia le innovazioni di prodotto (cultivar, portinnesti, antiparassitari, concimi,…) che di processo (forme di allevamento, irrigazione, fertilizzazione, difesa, post-raccolta,….) sono disponibili in tutti i continenti allo stesso tempo. Inoltre, i tecnici dei paesi più aggiornati dal punto di vista tecnico-scientifico operano ormai in tutto il mondo dove portano le conoscenze più aggiornate, così come i costitutori di varietà e i vivaisti degli stessi paesi portano e diffondono le cultivar più nuove e competitive.
La globalizzazione gioca un ruolo negativo anche per la diffusione di parassiti che erano assenti nel nostro Paese dove provocano danni molto peggiori che nei paesi di origine per l’assenza di iperparassiti naturali e anche per la legislazione europea molto più restrittiva in termini di principi attivi autorizzati nella lotta chimica. Esempi recenti particolarmente devastanti sono il cinipide del castagno, la drosofila suzuki dei frutti rossi, la cimice asiatica che attacca tutte le specie da frutto, la batteriosi da Psa del kiwi.
Quali prospettive per il futuro
Il cambiamento del clima riguarda tutti i paesi e, da questo punto di vista, l’Italia condivide i problemi che esso crea con i paesi concorrenti, ma per la nostra frutticoltura può essere visto positivamente proprio con riferimento all’aumento dei consumi italiani ed europei della frutta tropicale. Negli anni ’80 del secolo scorso, l’Istituto Sperimentale per la Frutticoltura di Roma coordinò un progetto sulla frutta tropicale, finanziato dal Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste. I risultati di quel progetto furono un primo importante stimolo per l’avvio di colture nuove o poco conosciute e che oggi rappresentano una interessante e positiva alternativa alle colture tradizionali in difficoltà nell’Italia meridionale e, in particolare, in Sicilia: innanzitutto avocado e mango, ma anche passiflora, papaya, litchi, macadamia.
Un altro comparto che offre positive prospettive è quello della frutta secca, il cui consumo mondiale è in continua crescita e di cui l’Italia, in Europa, è già uno dei principali produttori. La produzione italiana è concentrata sul nocciolo che ha ancora margini di crescita, ma sono anche altre le specie che possono essere coltivate con successo: mandorlo, noce, pistacchio, pecan. Il mandorlo ha una lunga e positiva tradizione storica in Puglia e Sicilia dove nuovi impianti irrigui, ad elevata densità e completamente meccanizzati sono in aumento. Il noce, su iniziativa che risale a qualche decennio fa di imprenditori lungimiranti del Veneto e più di recente dell’Emila-Romagna, sta positivamente sostituendo pomacee e drupacee, ma lo spazio agronomico e commerciale per una ulteriore importante espansione c’è.
Un altro progetto del MAF coordinato dall’Istituto Sperimentale per la Frutticoltura negli anni ’90 sulla frutta secca aveva positivamente valutato la possibilità di coltivazione del pistacchio nell’Italia meridionale, anche al di fuori delle aree storiche delle pendici dell’Etna e di una noce di origine nordamericana, il pecan, sempre adatto per le regioni più meridionali. Le potenzialità di queste due colture, in particolare del pistacchio, sono ancora intatte.
Le colture fuori suolo, in piena aria o in coltura protetta, consentono di coltivare e produrre “frutti di bosco” dovunque e in tutte le stagioni. Per mercati locali e vendita in azienda sono certamente soluzioni adatte per medio-piccole aziende non lontane dalle città di tutto il territorio nazionale.
Per quanto riguarda le colture tradizionali di maggiore importanza come il melo, il pero, il pesco, l’albicocco, il susino, il ciliegio, gli agrumi la soluzione per restare competitivi è puntare sulla qualità: gusto, bellezza, serbevolezza. La prima scelta riguarda le cultivar, facile o relativamente facile per il melo, il pero, il ciliegio, gli agrumi, più difficile per le altre drupacee a causa del grande numero di cultivar sul mercato e dalla grande variabilità delle loro caratteristiche qualitative. La ricerca del profitto, per le difficoltà economiche di questi anni, ha spinto molti frutticoltori a puntare prevalentemente sulle alte produzioni per ettaro, eccedendo in concimazione e irrigazione e risparmiando in potatura, diradamento dei frutti, numero di raccolte con il conseguente scadimento della qualità e l‘altrettanto conseguente disaffezione del consumatore.
La produzione italiana di uva da tavola è ancora prevalentemente basata su cultivar con semi, mentre il mercato europeo chiede sempre di più uve senza semi; la sostituzione è in atto e l’ampia gamma di cultivar apirene oggi disponibile consentirà ai produttori italiani di continuare ad essere competitivi a livello internazionale.
Si è già fatto cenno alla scarsa aggregazione della produzione italiana con gravi conseguenze negative in termini di programmazione e di contrattazione con la GDO: qualcosa si muove ma siamo molto lontani da associazioni che riuniscano la maggior parte dei produttori di singole specie o gruppi di specie.
E’ noto che la quota di Pil italiano riservato alla ricerca è tra le più basse tra i paesi dell’UE : secondo uno studio di Confindustria ( www.confindustria.it), nel 2016 , l’Italia ha investito in R&S l’ 1,35% del Pil tra finanziamenti pubblici e privati rispetto ad una media UE del 3%. Lo stesso studio evidenzia come dal 2009 al 2016 gli stanziamenti pubblici italiani per il settore agricolo sono diminuiti del 40% contro una media UE del 6,1%. Molto negativi sono anche i finanziamenti privati italiani per il settore agricolo la cui quota, nel 2015, era del 3,8%, mentre in Olanda era del 115,7 % e in Spagna del 14,9%. Qualche esempio positivo di finanziamento privato della ricerca nel settore frutticolo c’è, come il CIV di Ferrara per il miglioramento genetico di fragola, melo e pero, il progetto MASPES del CRPV di Cesena per il miglioramento genetico del pesco e dell’albicocco e i progetti IVC, Grape and Grape e NuVaUT di Bari sull’uva da tavola; la strada è giusta, ma serve un impegno maggiore.
Il ruolo del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali è fondamentale per sostenere il comparto che, lo ricordiamo, è uno dei pochi del settore agricolo ad avere un bilancio export-import attivo. Con ritardo rispetto alla Spagna, ma la strada dell’apertura delle esportazioni verso i mercati extra UE , è stata finalmente intrapresa, ma va perseguita con maggiore decisione e tempestività. L’export verso paesi extra UE potrà alleggerire la pressione sul mercato interno e su quello saturo europeo.
Dal Ministero dell’Agricoltura ci si attende un potenziamento della ricerca del Crea che vive momenti non facili, non solo per carenza di risorse finanziarie ma anche per una burocratizzazione esasperata che assorbe una buona parte del lavoro dei ricercatori.
La frutticoltura per il consumo fresco, come è quella italiana, richiede molto lavoro manuale concentrato in determinati periodi del ciclo produttivo e il ricorso a lavoratori stranieri è la regola come è avvenuto prima che da noi negli Stati Uniti. Come cittadino italiano trovo inaccettabile che i lavoratori stagionali siano spesso costretti a vivere in accampamenti neppure degni di ospitare gli animali (con lodevoli eccezioni): uno Stato civile non dovrebbe accettare queste situazioni e dovrebbe imporre ai proprietari di allestire alloggiamenti dignitosi presso cui ospitare i lavoratori dando loro un giusto contributo. Anche così si aiuterebbe la frutticoltura a superare le attuali difficoltà.
Già docente dell’Università della Tuscia. E’ stato Direttore dell’Istituto Sperimentale Frutticoltura. Grande esperto nel miglioramento genetico dei fruttiferi. Coordinatore dell’Atlante dei fruttiferi autoctoni Italiani.
Per quanto riguarda le colture tradizionali di maggiore importanza come il melo, il pero, il pesco, l’albicocco, il susino, il ciliegio, gli agrumi la soluzione per restare competitivi è puntare sulla qualità: gusto, bellezza, serbevolezza. La prima scelta riguarda le cultivar, facile o relativamente facile per il melo, il pero, il ciliegio, gli agrumi, più difficile per le altre drupacee a causa del grande numero di cultivar sul mercato e dalla grande variabilità delle loro caratteristiche qualitative. La ricerca del profitto, per le difficoltà economiche di questi anni, ha spinto molti frutticoltori a puntare prevalentemente sulle alte produzioni per ettaro, eccedendo in concimazione e irrigazione e risparmiando in potatura, diradamento dei frutti, numero di raccolte con il conseguente scadimento della qualità e l‘altrettanto conseguente disaffezione del consumatore.
La produzione italiana di uva da tavola è ancora prevalentemente basata su cultivar con semi, mentre il mercato europeo chiede sempre di più uve senza semi; la sostituzione è in atto e l’ampia gamma di cultivar apirene oggi disponibile consentirà ai produttori italiani di continuare ad essere competitivi a livello internazionale.
Si è già fatto cenno alla scarsa aggregazione della produzione italiana con gravi conseguenze negative in termini di programmazione e di contrattazione con la GDO: qualcosa si muove ma siamo molto lontani da associazioni che riuniscano la maggior parte dei produttori di singole specie o gruppi di specie.
E’ noto che la quota di Pil italiano riservato alla ricerca è tra le più basse tra i paesi dell’UE : secondo uno studio di Confindustria ( www.confindustria.it), nel 2016 , l’Italia ha investito in R&S l’ 1,35% del Pil tra finanziamenti pubblici e privati rispetto ad una media UE del 3%. Lo stesso studio evidenzia come dal 2009 al 2016 gli stanziamenti pubblici italiani per il settore agricolo sono diminuiti del 40% contro una media UE del 6,1%. Molto negativi sono anche i finanziamenti privati italiani per il settore agricolo la cui quota, nel 2015, era del 3,8%, mentre in Olanda era del 115,7 % e in Spagna del 14,9%. Qualche esempio positivo di finanziamento privato della ricerca nel settore frutticolo c’è, come il CIV di Ferrara per il miglioramento genetico di fragola, melo e pero, il progetto MASPES del CRPV di Cesena per il miglioramento genetico del pesco e dell’albicocco e i progetti IVC, Grape and Grape e NuVaUT di Bari sull’uva da tavola; la strada è giusta, ma serve un impegno maggiore.
Il ruolo del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali è fondamentale per sostenere il comparto che, lo ricordiamo, è uno dei pochi del settore agricolo ad avere un bilancio export-import attivo. Con ritardo rispetto alla Spagna, ma la strada dell’apertura delle esportazioni verso i mercati extra UE , è stata finalmente intrapresa, ma va perseguita con maggiore decisione e tempestività. L’export verso paesi extra UE potrà alleggerire la pressione sul mercato interno e su quello saturo europeo.
Dal Ministero dell’Agricoltura ci si attende un potenziamento della ricerca del Crea che vive momenti non facili, non solo per carenza di risorse finanziarie ma anche per una burocratizzazione esasperata che assorbe una buona parte del lavoro dei ricercatori.
La frutticoltura per il consumo fresco, come è quella italiana, richiede molto lavoro manuale concentrato in determinati periodi del ciclo produttivo e il ricorso a lavoratori stranieri è la regola come è avvenuto prima che da noi negli Stati Uniti. Come cittadino italiano trovo inaccettabile che i lavoratori stagionali siano spesso costretti a vivere in accampamenti neppure degni di ospitare gli animali (con lodevoli eccezioni): uno Stato civile non dovrebbe accettare queste situazioni e dovrebbe imporre ai proprietari di allestire alloggiamenti dignitosi presso cui ospitare i lavoratori dando loro un giusto contributo. Anche così si aiuterebbe la frutticoltura a superare le attuali difficoltà.
CARLO FIDEGHELLI
Già docente dell’Università della Tuscia. E’ stato Direttore dell’Istituto Sperimentale Frutticoltura. Grande esperto nel miglioramento genetico dei fruttiferi. Coordinatore dell’Atlante dei fruttiferi autoctoni Italiani.
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