sabato 28 ottobre 2023

IL RILANCIO DELLA UTILIZZAZIONE DEI PASCOLI MONTANI PER LA SALVAGUARDIA E VALORIZZAZIONE DEL TERRITORIO

di ALESSANDRO BOZZINI 

Con questo articolo, uscito in origine su I Tempi della Terra, Agrarian Sciences vuole ricordare il grande Genetista Agrario scomparso di recente.


Suini Neri di Calabria allevati allo stato semi-brado mostrano rusticità e adattabilità al pascolo. Questa razza di suini si adatta molto bene all'allevamento all'aperto sia con sistemi estensivi che semi-estensivi, nutrendosi di ghiande, castagne, tuberi e radici che si possono trovare nelle aree boschive dove viene allevata.

Prima Parte

Premessa

I prati-pascoli del nostro Paese interessano attualmente una superficie di circa 4 milioni ettari, collocati principalmente in collina ed in montagna; il pascolo naturale essendo, di fatto, ormai quasi completamente scomparso nelle pianure, sia al Sud sia al Nord. Un tempo, anche vaste superfici di pianura erano a pascolo: buona parte del Tavoliere della Puglia, la Maremma, la vasta area pianeggiante intorno a Roma e, più a sud, nel “colle-piano” del Crotonese o negli altipiani di Ragusa e Modica dove il bestiame si inseriva in un sistema agricolo fondato sulla pratica del maggeseCiò anche in quanto i migliori pascoli si trovavano appunto sulle superfici a riposo in cui cresceva, come nel Crotonese, spontanea ed abbondante un’ottima leguminosa foraggiera, la sulla (Hedisarum coronarium). Si trattava, sino alla fine del 1800, di immensi pascoli punteggiati da aree a seminativo e boschive che trovavano nella transumanza, durante il periodo estivo, cioè col trasferimento del bestiame sui monti dell'Appennino, il modo di utilizzare appieno le risorse locali disponibili. Anche in Italia, come d'altronde in tutti i Paesi ad agricoltura avanzata, da molti decenni si persegue l'obbiettivo - con la scomparsa del maggese - della intensificazione colturale, specie nelle aree più favorite, puntando verso un'agricoltura meccanizzata e con l’utilizzo crescente di cultivar migliorate, di fertilizzanti chimici e di agrofarmaci di sintesi, per ottenere rese elevate, sino ad alcuni decenni or sono impensabili. Si tende quindi ad eliminare ogni possibile concorrente delle più importanti specie e varietà coltivate. L'agricoltore, per massimizzare il suo reddito, magro ed aleatorio rispetto ad altre attività più redditizie, non può rinunciare all’impiego dei mezzi tecnici, oggi sempre più ragionato, per massimizzare economicamente le rese. La meccanizzazione, fattore primario su cui ruota l'agricoltura intensiva, è indubbiamente l'intervento colturale che ha inciso in modo più marcato sulla nuova impostazione dell'impresa agricola, con la inevitabile conseguenza della diminuzione dell'impiego della manodopera, che diviene specializzata e ridotta all’essenziale.
Anche gli ordinamenti colturali, con la specializzazione, vengono ad essere molto semplificati, con la omosuccessione ed in genere con la diminuzione del numero delle colture vegetali e con la tendenza, quasi inevitabile, in quasi tutta l’Italia centrale e meridionale, a ridurre sempre più gli allevamenti animali da latte e carne, una volta strettamente associati alle colture vegetali. Per molte nostre terre fertili di pianura l'indirizzo produttivo da cerealicolo-zootecnico tende a passare a cerealicolo puro (ad es. grano dopo grano).
La montagna e in parte anche la collina alta, invece, a causa della sua difficile morfologia e di una serie di vincoli ambientali (carenza di viabilità rurale, di infrastrutture, di servizi, di energia, etc.) non si può avvantaggiare in modo adeguato dell'intervento di mezzi meccanici. Nella pianura l'impresa agricola assume una nuova fisionomia: da familiare, georgica, tradizionale, diviene sempre più industrializzata e la produttività per ettaro aumenta notevolmente, mentre in montagna l'impresa agro-pastorale è costretta a segnare il passo, non riesce ad adattarsi alle innovazioni ed inoltre non trova più, come nel passato, nella pastorizia itinerante, quella integrazione che consentiva di valorizzare ed utilizzare razionalmente le produzioni vegetali sia di montagna che di pianura. 
Aumenta di conseguenza il divario economico tra il reddito della pianura e della montagna, a danno sempre crescente di quest'ultima. In molti territori montani l'esodo diviene un vero e proprio abbandono, che ormai si stima interessare 4-5 milioni di ettari, con lo sviluppo di flora spontanea quasi mai redditizia. Resta però il fatto incontrovertibile che nella montagna e nella collina più impervia l'allevamento e l'utilizzazione dei pascoli rimangono sovente l'unica risorsa continuativa del territorio nel breve tempo, in quanto la foresta necessita di tempi ben più lunghi per accumulare il legname, prodotto quasi esclusivo di tali colture. Pertanto, il problema della utilizzazione continua delle aree interne impervie, viene ad identificarsi con l’uso dei pascoli.
Inoltre, la montagna, con i vincoli che pone all'uso di certi mezzi può essere sede di attività agro-pastorali con le sue risorse foraggiere, derivanti prevalentemente dai suoi pascoli naturali; pertanto può e deve tornare ad essere origine di prodotti zootecnici di alta qualità e valore economico. Non solo l'allevamento di ovicaprini e bovini, ma anche di caprioli, daini, mufloni, cervi ed, in certe situazioni, anche di cinghiali, potrebbe rappresentare un valido mezzo per sottrarre all'abbandono ed al degrado, vaste aree marginali, anche se impervie, con finalità economiche dirette ed al tempo stesso, di notevole attrazione anche per l'ecoturismo. E’ la strada da tempo imboccata da molti Paesi centroeuropei, con risultati molto validi, soprattutto nelle cosiddette aree protette (parchi nazionali e regionali ecc.).

La gestione dei pascoli

La composizione floristica dei pascoli e, conseguentemente, il loro valore foraggero, è molto variabile non solo in dipendenza delle condizioni ambientali, ma anche della loro modalità di utilizzazione. Accanto a pascoli con una forte coltre di residui secchi erbacei di vegetazioni precedenti, la cosiddetta necromassa, spesso ricca di infestanti ed il cui decadimento è anche dovuto alla mancata od errata utilizzazione per un insufficiente carico di bestiame, ne abbiamo altri degradati a seguito del sovraccarico di bestiame e da sovrapascolamento protratto nel tempo, tale da non permettere la ricostituzione del cotico erboso. Circa gli effetti del pascolamento incontrollato, con particolare riferimento al CentroSud, se si considera che il sovrappascolo, che porta ad un continuo e sistematico impoverimento delle essenze più appetite e alla diffusione di quelle di minor pregio o addirittura infestanti o dannose, in certe situazioni dura da lungo tempo, si può certo affermare che il quadro della composizione floristica attuale non rispecchia più l'ambiente naturale, ma quello indotto da cause antropiche, cioè dalla selezione negativa esercitata dall'irrazionale ed incontrollato sfruttamento della cotica erbosa. 

L’eccessiva diffusione di specie annuali, che fioriscono in genere più precocemente, abbondantemente e contemporaneamente e quindi con maggiori possibilità di disseminazione, porta a concludere che l'attuale assetto floristico non si basa su condizioni ecologiche, ma deve essere considerato alterato per un carico eccessivo di bestiame nello spazio e nel tempo. In altre parole, la rarefazione o la scomparsa di molte specie permanenti e longeve può attribuirsi non tanto alla loro scarsa compatibilità con l'ambiente naturale, ma principalmente alla loro maggiore vulnerabilità a danneggiamenti causati da pascolamenti intensi e continui, che ne impediscono la crescita, eliminano la fioritura e quindi la risemina naturale. Il pascolo è, infatti, un'entità biologica quasi sempre inizialmente eterogenea per la diversità delle piante componenti, ma che dipende, nel tempo, dall'insieme delle condizioni non solo ambientali, ma anche antropiche e, particolarmente, dalle modalità della sua utilizzazione da parte del bestiame più o meno ben controllato e gestito. 

La fisionomia del paesaggio vegetale naturale di gran parte dei pascoli di ogni parte del mondo si è trasformata in una facies secondaria, determinata da una forte antropizzazione, e che, pur essendo quasi sempre composta da una vegetazione spontanea, non rispecchia più quella tipica e più variata del climax originale. Quindi, un processo di evoluzione ricostitutiva deve coinvolgere in modo interdipendente il terreno, la vegetazione, le vicissitudini climatiche, nonché eventi ormai, purtroppo, non più straordinari (incendi, frane, inondazioni, erosioni, ecc.). Per quanto riguarda il miglioramento dei pascoli, gli interventi debbono poggiare innanzi tutto sulla capacità di auto-ricostituzione della vegetazione naturale. Ma quando il degrado è al di là di certi limiti, solo la eliminazione di specie non pabulari e la successiva trasemina con miscele di sementi di specie idonee e miglioratrici, è certamente l'intervento che può determinare, in tempi brevi, un decisivo cambiamento della composizione della flora. Comunque, provvedimenti di carattere agronomico, come lavorazioni, concimazioni del suolo e l'introduzione di sementi di specie foraggiere nuove o già presenti in loco, ma prodotte in ambienti molto differenti, vanno applicati con raziocinio e con attenzione, possibilmente preceduti da una sperimentazione adeguata, specie se l'area interessata è vasta ed importante.

L’influenza climatica sui pascoli

Dal punto di vista climatico il vasto territorio montano e collinare del nostro Paese, lungi dal costituire un'entità omogenea, è caratterizzato da una estrema variabilità di ambienti, con potenzialità produttive molto differenziate. Infatti, abbiamo ambienti che possiamo ritenere simili a quelli caratteristici dell'Europa Centrale, cui si contrappongono altri che presentano affinità con vaste aree del Bacino del Mediterraneo, ivi compresa anche l'Africa settentrionale e presenti in tali aree. In dipendenza dei vincoli climatici, la maggior parte dei pascoli non alpini del nostro Paese, pur essendo caratterizzati nel loro insieme da estate calda e inverno rigido, a grandi linee possono essere suddivisi in:

  1. Pascoli con una stasi vegetativa nel periodo autunno-vernino, più o meno lunga, fondamentalmente causata dalle basse temperature;
  2. Pascoli con stasi vegetativa in tarda primavera-estate, con ciclo vegetativo che si svolge dall'autunno alla primavera, con notevoli variazioni a causa dell'andamento della piovosità primaverile ed estiva;
  3. Pascoli con due stasi vegetative: l'una durante la stagione invernale (freddo e precipitazioni nevose), l'altra durante l'estate (calore e siccità).

In linea generale fra i principali elementi climatici sfavorevoli sono da ricordare:

  • la forte variabilità della piovosità, sia mensile che totale, tra un anno e l'altro;
  • il verificarsi di forti concentrazioni orarie e giornaliere delle precipitazioni (causa, purtroppo, di frequenti e rovinose alluvioni, erosione e successivo affioramento del sottosuolo sterile);
  • la durata degli intervalli privi di pioggia, che nel Sud oltrepassa anche 100 giorni ed a volte i 150 (come a Capo Spartivento), per raggiungere perfino 180 giorni (nell’Iglesiente e Sulcis in Sardegna);
  • la forte ventosità, lo stato igrometrico dell'aria, la forte intensità luminosa e, durante la stagione primaverile ed estiva, l'elevato livello termico diurno e notturno, sono altri elementi che caratterizzano in modo particolare il clima dei pascoli delle zone collinari meridionali;
  • la presenza di inverni più o meno rigidi con persistenza del manto nevoso, alle maggiori altitudini delle aree Appenniniche del Centro-Sud ed Isole.

Si deve sottolineare che molti pascoli del Sud offrono un andamento termico durante il periodo autunno-vernino abbastanza mite da assicurare una continuità vegetativa a molte essenze pabulari, che trovano condizioni favorevoli alla crescita anche per il buon andamento termo-pluviometrico tipico del Mediterraneo.
La produzione foraggiera nelle aree montane più elevate è concentrata di solito in un periodo di 90-120 giorni, quasi sempre con disponibilità in eccesso nella tarda primavera-estate e carenza nelle altre stagioni. Questo ampio divario tra limitate disponibilità foraggiere nel tempo e le continue esigenze alimentari del bestiame, costituisce senza dubbio il problema basilare della utilizzazione zootecnica nei riguardi del pascolo della montagna. E' questo, un problema che diventa sempre più grave man mano che aumenta l'altitudine del pascolo stesso, per il più corto periodo di possibile uso causato dal rigore invernale. Da ciò derivano le difficoltà per una razionale utilizzazione di tali pascoli, dovendo conciliare le esigenze alimentari degli animali con le effettive disponibilità foraggiere.

Funzioni produttive e protettive dei pascoli

Nello stabilire le linee da perseguire nella redazione di un piano di sviluppo per una corretta ed economicamente valida utilizzazione dei pascoli, bisogna, prima di tutto, rispettare alcune esigenze per il mantenimento di un adeguato equilibrio bioambientale del territorio. Tale equilibrio deve essere basato su una razionale combinazione tra attività produttiva ed opere di conservazione del suolo e di difesa dell'ambiente e ciò in funzione di un corretto rapporto tra uomo e natura, in cui lo sviluppo economico e sociale sia reso compatibile con le esigenze di conservazione e, possibilmente, di miglioramento dell'ecosistema.
In altri termini, per la valorizzazione delle risorse, l'obiettivo prevalente non è solo quello di aumentare la produzione, ma anche di proteggere e valorizzare, a medio e lungo termine, le componenti naturali dei processi produttivi ed al tempo stesso di considerare e valutare, nella loro interdipendenza, tutti i vari fattori che debbono regolare la gestione dei pascoli. Innanzitutto, va ricercata ogni possibile integrazione coordinata tra aree a diverso potenziale produttivo, in modo che l'attività zootecnica, che si intende potenziare e realizzare, possa fondarsi su un rapporto equilibrato tra animali da allevare e base alimentare normalmente offerta dal territorio, al fine non solo di meglio utilizzare le risorse, ma anche di contenere al massimo il ricorso all'impiego di alimenti di provenienza esterna. Quanto sopra va perseguito puntando sull'obiettivo di salvaguardare le risorse esistenti, di migliorarle, di meglio utilizzarle e, in diversi casi, di arrestare il fenomeno del degrado che talora può arrivare persino ad una desertificazione di fatto. E’, infatti, da sottolineare che il progressivo avanzare del processo di desertificazione è un problema allarmante non solo per immensi territori delle regioni caldo-aride, ma anche per più o meno vaste aree delle regioni temperate, con particolare riferimento a molte zone del bacino del Mediterraneo. Inoltre, per quanto riguarda l'Italia, non dimentichiamo che quasi l'80% della superficie del Paese è rappresentato da aree collinari e montane. Con circa cinque milioni di ettari che risultano potenzialmente in preda all'erosione, l'Italia ha il triste primato europeo della franosità, il cui indice di gravità è in spaventosa ascesa (ad esempio da circa 2.000 importanti frane annuali a metà del secolo scorso siamo passati oggi ad oltre 7.000) interessando quasi tutte le Regioni. La causa primaria è certamente da addebitarsi ad una mancanza di una politica di gestione territoriale ed ambientale verificatasi in Italia in questi ultimi decenni, che ha portato all’esodo umano dalle montagne, non più curate, incrementandone l’abbandono ed il dissesto idrogeologico. L'acqua di innumerevoli torrenti (ad es. se ne contano circa 400 soltanto sulle coste calabresi!) opportunamente gestita, potrebbe essere fonte preziosa di ricchezza per la nostra agricoltura, anziché portatrice di distruzione. L’abbandono delle aree già coltivate in passato e della utilizzazione agro-silvo-pastorale del territorio da parte della popolazione collinare e montana, ormai decimata dall’emigrazione giovanile, dalla bassa natalità e dall’invecchiamento della popolazione ancora presente, sono certo le cause più importante di tale degrado. Il recupero alla produttività delle terre marginali, povere, tormentate nell'orografia, sospinte verso un ulteriore impoverimento e ormai troppo spesso incombenti e minacciose sulle sottostanti pianure ed aree abitate, sono sempre più, da anni un argomento alla ribalta della cronaca e non solo nel nostro Paese.

Una programmazione per l’uso della copertura vegetale

Da parte di tecnici e di politici avveduti è da tempo avvertita la necessità di reperire e valorizzare superfici territoriali marginali per allargare la base alimentare degli allevamenti animali e per impiegare, in funzione produttiva, forze di lavoro che attualmente sono spesso, in modo diretto od indiretto e non produttivo, più o meno temporaneamente assistite. Va detto chiaramente che, specie a livello Regionale, esistono le forze e le risorse per dare inizio ad una concreta politica di recupero delle aree difficili, del cosiddetto "osso", anche se a parere di qualche economista che lavora in ufficio, non è facile immaginarne l'utilizzo. Ciò che occorre è una avveduta politica di programmazione, non più legata a spontaneità ed improvvisazione e causata da eventi straordinari che colpiscono la coscienza della Nazione (vedi le famose alluvioni di Firenze, di Sarno e le continue calamità che si susseguono, senza soste, anno dopo anno!) ma che deve essere perseguita con tenacia e continuità.
L'allevamento è sovente l'unica alternativa possibile al definitivo abbandono di molte aree collinari e montane: certamente il ricupero e l’utilizzazione razionale di molte aree difficili potrà efficacemente concorrere a rendere produttivi territori, altrimenti parzialmente utilizzati o peggio perduti ed a conseguire, anche nelle aree più fertili a valle, vantaggi più generali ai fini di un migliore equilibrio economico e sociale dell’intero territorio. Bisogna stabilire linee di intervento in modo da superare gli attuali scompensi tra le zone agronomicamente più favorite e l'entroterra più difficile, cercando, nel più largo contesto della valorizzazione del territorio, l'interazione tra le aree a diverso potenziale produttivo.
Gli interventi pubblici non debbono venire intesi soltanto in termini meramente assistenziali o in termini di immediata produttività, ma estesi in un quadro di programmato incremento occupazionale, con l'inserimento di una forestazione produttiva e di una gestione razionale dei pascoli, di difesa e conservazione del territorio e non più ridotti a provvedimenti episodici e discontinui sotto l’emozione e l'assillo di alluvioni o di improvvise catastrofi ambientali. Occorre sottolineare l'importanza di tenere sempre presente la necessità di conservare il suolo e la sua fertilità attraverso una copertura vegetale che abbia la massima continuità possibile nello spazio e nel tempo, continuità che anche assicura una maggiore e migliore produzione foraggiera, favorendo una generale prosperità economica e sociale.
Ovviamente, sono da preferire le essenze pabulari, ma, in certi casi, non sono da escludere essenze meno apprezzate dal bestiame, ma dotate di particolare rusticità e capaci di insediarsi nelle situazioni ecologiche più difficili. E’ bene non dimenticare che una vegetazione apparentemente poco utile può assolvere una notevole funzione di protezione nonchè di preparazione dell'ambiente per altre specie pabulari pregiate che possono successivamente trovare le condizioni favorevoli per il loro sviluppo. Per dare qualche esempio, molti nostri terreni calcarei impervi trovano una efficace difesa dall’erosione superficiale nell'Ampelodesma mauritanica, graminacea dal robusto e profondo apparato radicale, capace di insediarsi e di diffondersi nelle situazioni più difficili, laddove non vegetano altre specie. Ebbene, anche se si tratta di una pianta priva o quasi di valore pabulare, l'Ampelodesma merita di essere salvaguardata per la sua estremamente efficiente funzione antierosiva e per la sua resistenza agli incendi. Lo Spartium junceum è un'altra pianta che, per la sua funzione antierosiva e preparatrice di un substrato per altri vegetali di maggior pregio, merita di essere protetta. E’ infatti una leguminosa arbustiva di modesta pabularità, che riesce a crescere nei terreni poveri, a colonizzare anche lave, ceneri vulcaniche e dune sabbiose.
Altre piante autoctone, ampiamente diffuse nel nostro Centro-Sud, degne di attenzione per il controllo dell’erosione sono il Milium multiflorum (o Oryzopsis miliacea), l’ Hyparrhenia hirta e per terreni argillosi, instabili, il Lygeum spartum, tutte specie che hanno anche un certo valore pabulare, specie nella fase giovanile. Pertanto, nel programmare qualsiasi azione, bisogna tenere in debito conto quegli interventi che, andando al di là delle produzioni immediate, diano innanzi tutto garanzia in relazione alla protezione del suolo ed alla difesa dell'ambiente.

Controllo dell’erosione

Da quanto sopra consegue, per ambienti particolarmente esposti all'azione dell'erosione, l'importanza di puntare su interventi che assolvono innanzi tutto una efficace funzione protettiva, oltre che produttiva. Di puntare, cioè, sull'obiettivo, che deve essere prioritario, di incrementare il grado di copertura vegetale, rinunciando a volte anche a produzioni immediate e, in determinate circostanze, anche ad ogni forma di utilizzazione per un periodo anche piuttosto lungo, pur di proteggere un manto vegetale. Questo è il caso non solo di estese aree delle regioni tropicali e subtropicali del globo, ma anche di molte delle nostre aree collinari e montane che oggi si presentano completamente denudate o quasi, specie nel Centro-Sud.
Inoltre anche il vento, specie nelle aree costiere e montane, rappresenta un fattore limitante le produzioni, costituendo una delle importanti cause di erosione. L'azione sfavorevole esercitata da forti correnti aeree sulla vegetazione e sulla conservazione del suolo è certamente una delle cause principali della degradazione del terreno, continuamente impoverito negli strati più fertili superficiali, resi anche più vulnerabili dall'azione battente delle piogge e dalle acque di deflusso, specie se associate al vento. Per frenare il processo di degradazione del suolo, la costituzione di fasce frangivento, in certe situazioni, è un intervento che assume carattere di urgenza e di priorità rispetto ad altri interventi. Infatti, se la cotica erbacea esercita, per quanto riguarda il deflusso superficiale delle acque, un'azione antierosiva più efficiente rispetto alla copertura legnosa, questa, grazie al maggior sviluppo dell'apparato radicale, spesso esercita una più efficiente azione sui componenti dell'erosione profonda e dei fenomeni di franamento. Da ciò consegue l'importanza di dare alle zone acclivi anche una copertura legnosa, in coesistenza e non in competizione con una sottostante fitta cotica erbacea. L'impiego, in tal senso, di alcune leguminose, quali ad es. la Robinia pseudoacacia o la ginestra, portatrici gratuite di azoto e di fertilità nel terreno, può essere una soluzione per rendere più salde e più produttive molte nostre aree collinari. A proposito degli interventi con funzione protettiva del territorio è da evidenziare ancora che il problema dell'erosione per ruscellamento presenta aspetti gravi ed inquietanti per ampie zone Appenniniche. Vanno comunque ricercati i sistemi più idonei per contenere al massimo le perdite di acqua per scorrimento e di conseguenza per meglio utilizzare le piogge che, per molte zone particolarmente del nostro Sud, sono scarse e mal distribuite nel tempo. Inoltre, la sistemazione delle pendici del fondovalle e dei corsi d'acque è un intervento che va tenuto nella massima considerazione ai fini della migliore e più duratura utilizzazione delle risorse idriche e del contenimento della loro azione erosiva. Generalmente tale compito è riservato agli esperti forestali, ma in zone passibili di uso come pascolo, questi interventi dovrebbero essere anche patrimonio e dovere diretto dell’Agronomo e degli utilizzatori, anche se ciò potrebbe andare contro ad usi ed abitudini già radicati nel tempo.  

Recupero delle aree abbandonate con lo sviluppo dei pascoli

Come precedentemente sottolineato, se con la nostra opera vogliamo apportare un concreto aiuto all'impresa di montagna, da realizzare nel quadro delle possibilità tecnico-agronomiche reali, dobbiamo porci come intervento prioritario una razionale utilizzazione dei prati-pascoli. Questa è la base per potenziare la produttività e la stabilità delle cotiche erbose; da ciò discende l'importanza da attribuire allo studio delle associazioni floristiche, della loro evoluzione quali-quantitativa e del bilancio delle effettive disponibilità, al fine di valutare: il carico, il momento ottimale del pascolamento, il tempo di soggiorno del bestiame, il periodo ottimale di riposo, il coefficiente di utilizzazione ed infine la risposta produttiva degli animali.
Una pluriennale sperimentazione condotta parecchi anni fa dal Prof. Lucifero dell’Università di Firenze sui pascoli di Foresta Burgos (nel Sassarese, in Sardegna), è un contributo di grande significato ed utilità applicativa per gli allevamenti di diverse aree dell’isola. L'adozione di una razionale utilizzazione delle cotiche pabulari, i cui parametri, per la eterogeneità dei nostri pascoli, non sono certo generalizzabili per tutte le zone, consente di portare su livelli più elevati gli attuali coefficienti di utilizzazione e di evitare sprechi e decadimento di risorse. Bisogna puntare su interventi che sollecitino le capacità di auto-ricostituzione insite nella vegetazione naturale, ma ciò non significa trascurare il materiale di altra provenienza o di introduzione estera. Anzi, nella ricostituzione delle cotiche va considerato anche l'impiego di una serie di essenze in vista della trasformazione dei pascoli in prati-pascoli, atti a procurare scorte per i periodi di stasi vegetativa, anche per temporanee impossibilità di pascolamento per inclemenza del tempo o per altri impedimenti. Si impone anche l'impiego di specie perenni e longeve nell'impianto di prati-pascoli su coltivi abbandonati di molte terre collinari e montane, dove alle forti pendenze vengono ad associarsi difficili condizioni pedologiche ed avverse vicende climatiche, che sovente ostacolano per lungo tempo le operazioni di lavorazione e di semina, necessarie ogni anno per la coltivazione di tutte le specie annuali.

Sotto questo aspetto è da considerare la ricerca di un sistema di produzione che riduca al minimo le lavorazioni: è un obiettivo da perseguire anche in relazione ai costi di lavorazione in continua ascesa. L’adozione sistematica e preferenziale di specie perenni potrebbe rappresentare una valida soluzione a questo problema. In merito all'introduzione di foraggiere impiegate per l'impianto di prati-pascoli oligofiti poliennali, molti esempi si possono trarre dall’opera di sperimentatori e di tecnici nei più diversi ambienti del Paese. E' anche da tenere presente che la contemporanea presenza e la disponibilità di aree coltivate o coltivabili ci consente di poter programmare una più razionale utilizzazione del territorio, valorizzando appieno le risorse locali e puntando anche sulla integrazione delle aree a seminativo con quelle molto più ampie a pascolo, il più delle volte piuttosto povero. A questo fine, i pascoli appenninici, con la loro maggior incidenza del seminativo sulla superficie totale, si prestano meglio di quelli alpini.


ALESSANDRO BOZZINI

Già professore di genetica, costitutore del grano Creso. Dirigente ENEA e per molto tempo in FAO Direttore del Dipartimento di Produzioni Vegetali. (1933-2023)

 


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